Storia della magia nell'antico Egitto

di Devon Scott
La civiltà egizia si sviluppò nel corso di tremila anni e di trentuno dinastie; essa fu favorita da un clima caldo e da un terreno che la piena autunnale del Nilo rendeva fertile, con risorse più che sufficienti per far vivere la popolazione, indipendente ma aperta al contatto con gli altri popoli.
Erodoto chiamò l’Egitto “dono del Nilo”: se guardiamo la sua carta geografica possiamo renderci conto del perché. La valle del fiume va da Assuan al delta, larga al massimo venti chilometri nella sua zona coltivabile, e senza il fiume il paese sarebbe un grande deserto.Il potere del faraone era assoluto, ma non tirannico; il paese poteva contare sull’unità politica e su di un sistema burocratico capillare, che era un modello di efficienza e di organizzazione, raggiungendo per mezzo di corrieri ogni angolo del regno. Gli stranieri non erano amati, ma comunque tollerati, purché rispettassero gli dei dell’Egitto; avevano il beneficio di non pagare tasse. Coloro che entravano in Egitto come profughi dovevano invece fare una sorta di servizio civile, cioè lavoro obbligatorio per un certo periodo, in cambio del privilegio di risiedere nel paese; venivano ripagati in natura, con pane, carne, pesce e cereali. Gli Ebrei erano fabbricatori di mattoni, i Siriani lavoravano nelle cave come tagliapietre o nei campi come braccianti, i Fenici erano abili costruttori di templi. Tutti gli stranieri erano regolarmente censiti.
L’Egitto commerciava con molti paesi ed aveva contatti costanti con persone di varie nazionalità; una scuola di scribi interpreti redigeva documenti in accadico (la lingua dei rapporti diplomatici e commerciali): atti di acquisto e vendita di merci, relazioni, lettere, comunicazioni. A questi stessi scribi dobbiamo interessanti traduzioni di miti babilonesi ed anche di opere greche. Studiosi come Solone, Erodoto e Platone viaggiarono per tutto il paese, senza problemi di lingua proprio per merito degli interpreti; furono trattati tutti con benevolenza, anche se con un po’ di sufficienza, da un popolo il cui Faraone si riteneva un dio in terra e il sovrano di tutto il mondo conosciuto. La onnipresente burocrazia egiziana, che ammassava montagne di documenti negli archivi, ci ha lasciato in eredità numerosi papiri, che hanno permesso la ricostruzione di parte della storia dell’antico Egitto.
Abbiamo anche moltissime testimonianze circa il culto degli dei, sui riti funerari e sulle credenze magico-religiose, e proprio la ricchezza del materiale arrivato fino a noi ha alimentato la fama dell’Egitto come culla della magia.
Era egiziano il più famoso mago di tutti i tempi, Ermete Trismegisto, che in greco significa “tre volte grandissimo”, possessore della conoscenza delle tre parti dell’universo, con poteri sul cielo, sulla terra e sul mondo dei morti.
Un’antica tradizione lo colloca attorno al 1300 a. C.; un’altra lo identifica con un mitico re vissuto per più di tremila anni, autore di ben trentaseimila libri di magia. Lo storico Giamblico (III secolo d. C.) ridimensiona questo numero assurdo a “soli” ventimila libri (2); Clemente Alessandrino, ben più realisticamente, parla di una figura di saggio, poi mitizzato, autore dei quarantadue libri sacri che venivano portati in processione al tempio di Alessandria, una volta l’anno, in una solenne cerimonia rituale. Questi libri erano divisi in sei sezioni: rituali per i templi, educazione dei sacerdoti, medicina, astrologia, inni in onore degli dei ed istruzioni per i faraoni. Il nome con cui è conosciuto gli fu dato dai Greci su modello del loro dio della sapienza, Ermete, identificato col dio egiziano Thot, che aveva alcuni compiti importantissimi: presiedeva alla pesata delle anime dei morti, comunicando al defunto se il responso lo metteva nel numero dei giusti e nella gloria eterna di Osiride; scandiva il tempo delle alluvioni del Nilo, da cui dipendeva la sopravvivenza del paese; inoltre aveva il merito di aver inventato la scrittura geroglifica. Ermete Trismegisto veniva considerato la fonte di ogni primitiva sapienza iniziatica, poiché si credeva che avesse ereditato le conoscenze segrete degli Atlantidei.
Ebbe un periodo di grande notorietà nel Rinascimento, quando fu tradotto il Corpus Hermeticum (3) a lui attribuito; quando però si scoprì che il testo non aveva migliaia di anni, come si supponeva, ma risaliva ad alcuni secoli dopo Cristo, molti misero in dubbio la realtà dell’esistenza di Ermete Trismegisto.
Alcuni autori ne hanno parlato come di un uomo in carne ed ossa: Platone, Diodoro Siculo, Tertulliano ed il famoso medico Galeno. Resta in ogni caso una figura-simbolo delle conoscenze esoteriche più elevate; a lui dobbiamo la Tavola di Smeraldo, un importantissimo testo che la leggenda dice essere stato rinvenuto in una grotta fra le mani della mummia di Ermete.Oltre a questa nota opera, fu autore della Tavola di Rubino, molto meno famosa ed ancora più ermetica, che in qualche modo rovescia e completa il discorso della precedente tavola.
Chi visita un museo egizio può notare come gran parte dei reperti sia costituita da oggetti religiosi e magici. La magia (4) era infatti un elemento fondamentale della religione, della cultura, della vita sociale e della politica; esisteva addirittura un dio della magia, Heka, molto importante nelle prime dinastie, anche se in seguito divenne un dio di secondo piano. La magia era un dono fatto agli uomini dal dio Ra, che l’aveva creata affinché essi avessero un’arma a loro disposizione per tener lontano il braccio degli avvenimenti.
Gli dei stessi ricorrevano spesso alla magia, per aiutarsi nei momenti critici; mentre i Greci ed i Romani avevano un concetto del destino superiore a tutto, il “Fato” a cui anche gli dei dovevano inchinarsi, per gli Egizi Shai, il destino, era guidato dagli stessi dei: questo permetteva loro di liberarsi dalle catene della predestinazione. Fu soprattutto questa particolare caratteristica ad affascinare i Greci. La fede nella possibilità di smuovere il mondo a proprio favore, influenzando anche il caso, spinse gli Egiziani verso la magia, unica soluzione a tutti i problemi, poiché poteva incatenare al proprio volere anche gli dei.
Per capire l’importanza della magia, si pensi che esistevano scongiuri magici perfino per imbrogliare Osiride nel momento del giudizio delle anime, confonderlo e fargli giudicare benevolmente il defunto. Per le necessità immediate del popolo c’erano i maghi da strada, dalle funzioni molto simili a quelle delle odierne cartomanti; scopo dei loro incantesimi era ottenere ciò che normalmente veniva considerato irraggiungibile: l’amore non ricambiato, la salute scomparsa, il denaro mancante. Molto potente era la casta dei sacerdoti-maghi, Hekai, in particolare i Lettori, che portavano i rotoli di papiro con i rituali del culto dei morti. Sia Apuleio che Luciano ne danno un’accurata descrizione: testa rasata, mantello bianco di tela e fascia posta in diagonale sul petto. I papiri erano conservati nelle “Case della vita”; esse avevano sede nel tempio più importante o presso la reggia del Faraone ed avevano molteplici funzioni: archiviazione di documenti importanti, scrittura di testi di magia, istruzione degli scribi e dei sacerdoti, conservazione di testi di religione, musica, filosofia. Tutti coloro che ne hanno parlato hanno affermato che le “Case della vita” erano il centro motore del paese.
Nonostante le distruzioni compiute dal tempo e dagli uomini, molti papiri si sono conservati fino ai giorni nostri, alcuni antichissimi, scritti in lingua geroglifica, altri più recenti in lingua demotica, che era una forma abbreviata e di più facile scrittura dei geroglifici; altri ancora in copto, risalenti all’epoca romana.
Per mezzo loro possiamo ricostruire la storia della magia egizia, che si suddivide in tre grandi periodi. Nell’Antico regno, che arrivava circa fino al 2300 a. C., la magia era conosciuta soprattutto attraverso i Testi delle Piramidi, incisi sulle pareti delle camere interne di alcune piramidi.
Comprendevano testi religiosi e magici, nei quali si faceva cenno a miti che in seguito sarebbero diventati notissimi, come quello di Osiride, ed anche ad altri che sarebbero poi rimasti sconosciuti. I sacerdoti usarono questi rituali per la protezione e la felicità del faraone e della sua famiglia nell’aldilà. Nel Medio regno, dal 2200 al 1700 a. C. circa, ebbe grande risalto la magia malefica, praticata dai sacerdoti contro i nemici e le avversità, in difesa del faraone. Appartiene a questo periodo il papiro medico di Kahun, che riportava formulari contro varie malattie, tra cui le parassitosi, molto comuni nei climi caldi, accanto a scongiuri contro nemici e demoni. Il capo degli spiriti malvagi che causavano malanni venne definito qui per la prima volta l’Accusatore, nome che corrispondeva al greco diabolon, diavolo.
Poco tempo dopo fu scritto il papiro Ebers (databile attorno al 1600 a. C.), che riportava consigli medici, ma cominciava ad eccedere nelle formule magiche. Da questo momento la magia divenne l’elemento principale dei testi di medicina; ad esempio, nel successivo papiro di Londra l’autore dimostrò chiaramente di credere assai più negli scongiuri che non nella scienza medica.Questo squilibrio verso la magia si spiega con gli eventi socio-politici mutati. Cacciati gli Hyksos, i feroci pastori guerrieri che avevano dominato l’Egitto per più di un secolo, il Nuovo regno vide una casta sacerdotale potentissima, che voleva ripristinare la posizione di privilegio del faraone nell’aldilà.
Poiché i Testi delle Piramidi erano ormai noti a tutti, nacque un nuovo documento, il Libro di Amduat; come diceva la sua introduzione, il libro fu scritto in un luogo segreto nell’aldilà e chi lo conosceva poteva aspirare ad un destino eccezionale: il dio del sole sarebbe sempre stato compagno del defunto. Per lungo tempo solo la famiglia reale poté scrivere questo documento sul proprio sepolcro, mentre i Testi delle Piramidi venivano scritti ormai su ogni tomba.

La convinzione che ci fosse uno sfondo magico nell’aldilà fu rafforzata anche dai sacerdoti del dio Amon, decisi a formare un sistema statale teocratico. La cosa si rivelò più ardua del previsto: il faraone, malgrado il rispetto per il dio e per i suoi sacerdoti, cercava di arginarne il potere, che rischiava di diventare illimitato, dato che erano i sacerdoti ad interpretare il volere degli dei, che doveva essere legge per tutti. Fu quindi permesso il culto di altre divinità, tra le quali alcune straniere. Queste affascinanti culture di altri paesi produssero un periodo di crisi sociale ed ideologica, a cui diede grande impulso, attorno al 1370 a. C., l’eresia monoteista di Amenhotep, che cambiò il proprio nome in Akhenaton e trovò nel culto del dio solare Aton il punto di unione di ogni religione.
Le altre divinità furono bandite, in particolare Amon ed i suoi sacerdoti. Il faraone cancellò gli altri dei dalle iscrizioni, facendo scrivere sulle pareti delle tombe, al posto dei sacri testi, elogi ad Aton ed al faraone; poi costruì la nuova capitale “Orizzonti di Aton” (l’odierna Tell el Amarna) ed eliminò la magia dal culto dei morti.
La svolta verso il monoteismo non ebbe fortuna: il faraone era sostenuto dal ceto medio emergente, ma aveva contro il clero e l’aristocrazia, fortemente decisi a non perdere i propri privilegi. La lotta fra Aton ed Amon sfociò nel sangue di una guerra civile; il suo successore designato, il genero Smenkhkare, marito della figlia maggiore, governò per brevissimo tempo insieme ad Akhenaton, cercando col suocero di sistemare il regno, che era nel caos più totale, ma morì dopo pochi mesi. Akhenaton lo seguì quasi subito, avvelenato in una congiura di palazzo, e dopo di lui venne Tutankhamon, marito della figlia minore, che ristabilì gli antichi riti.
Questo faraone, sovrano di secondo piano, morto giovanissimo, il cui unico intervento sullo stato fu di tornare al culto di Amon, è sicuramente quello più famoso nel mondo per il ritrovamento della sua tomba, avvenuto nel 1922 ad opera di Howard Carter e lord Carnavon, e per la leggenda della maledizione che colpì gli scopritori. Nell’anticamera della sua tomba fu rinvenuta una tavoletta di terracotta con la seguente iscrizione: “La morte colpirà con le sue ali chiunque disturberà il sonno del faraone”. La tavoletta, che aveva destato la paura superstiziosa degli operai addetti allo scavo, fu fatta sparire, ma un’altra maledizione comparve, sotto una figura magica, nella camera principale della tomba: “Sono io che respingo con la fiamma del deserto i predoni delle tombe. Io proteggo il sepolcro di Tutankhamon”; quando i partecipanti alla spedizione cominciarono a morire, nacque la leggenda della maledizione (5) del faraone, che aveva colpito i profanatori. Lord Carnavon si ammalò all’improvviso di febbri altissime e morì in meno di quindici giorni. Subito dopo l’archeologo americano Arthur Mace, che era andato ad aiutare a buttar giù l’ultimo pezzo di muro della tomba, si mise a letto, sentendosi esausto, cadde in coma ed in poche ore morì. Il miliardario americano Gould, che aveva aiutato l’amico Carnavon con sovvenzioni, appena giunto a Luxor per vedere la tomba fu colto dalla febbre e spirò entro la sera stessa. In pochi anni morirono tredici persone, fra quelle che avevano assistito all’apertura della tomba, ed altri nove scienziati che si erano occupati del lato scientifico della scoperta. Morì anche la moglie di Lord Carnavon, punta da un insetto letale, poi il segretario di Carter, trovato rigido sul suo letto alla mattina, mentre stava benissimo la sera prima; suo padre, avuta la tragica notizia, si uccise gettandosi dal settimo piano della sua casa londinese; mentre gli facevano il funerale, il carro funebre investì ed uccise un ragazzo davanti al cimitero. E’ ovvio che, se guardiamo tutto con occhi scettici, ogni morte può essere considerata normale: gli incidenti capitano dovunque; le febbri maligne non erano una novità e colpivano spesso gli Europei in Africa; gli infarti improvvisi in persone giovani sono rari, ma non impossibili; gli insetti possono dare in persone allergiche violentissimi shock anafilattici, che portano a morte. Però bisogna ammettere che ce n’era abbastanza perché l’opinione pubblica prendesse sul serio la storia della maledizione. Gli Egiziani attribuivano un’enorme importanza al mondo dei morti; la vita terrena era considerata breve, la vita nell’oltretomba eterna. Per questo l’Egiziano, per quanto miserabile potesse essere, si comprava il sepolcro, pagava un sacerdote per i sacrifici da fare a se stesso una volta defunto, e dotava la tomba di ogni comfort che permettesse una piacevole vita nel mondo dei trapassati. Sulle tombe venivano incise o dipinte maledizioni verso i profanatori, preghiere di protezione per i parenti ancora vivi dei defunti, formule magiche che permettessero le migliori condizioni di vita nell’aldilà al morto. Nelle tombe si mettevano le Ushebti, statuette raffiguranti animali, che si animavano per magia e servivano il defunto. La magia riforniva quindi i morti di un ricco corredo: modellini di argilla e formule sostituivano gli oggetti d’uso quotidiano. Le Ushebti venivano anche usate in magia nera; si narra che Abaaner, ufficiale della guardia del faraone, avesse scoperto che la moglie lo tradiva con un giovane soldato. Essendo un mago molto esperto, Abaaner modellò nella cera la statuetta di un coccodrillo e pronunciò un incantesimo. Diede poi la statuetta ad un suo servo, che si recò sulla riva del Nilo e attese che il soldato vi andasse, come tutti i giorni, per fare il bagno; appena il soldato si fu immerso, il servo gettò nel fiume il coccodrillo di cera: questo si animò per magia e divenne un grosso e vivissimo coccodrillo, che aggredì il soldato e lo divorò.
Gli Egiziani erano convinti che l’anima avesse bisogno del corpo per sopravvivere, per cui cercarono tecniche di imbalsamazione sempre più raffinate per permettere al corpo di ricongiungersi all’anima nella sua forma migliore: “Io esisterò fino alla fine con la mia carne e la mia anima”, dice il Libro dei morti.
Formule magiche ed amuleti proteggevano il corpo perché potesse unirsi ad Osiride, che l’avrebbe protetto per l’eternità dai nemici e dagli spiriti maligni. Ai defunti si chiedevano consigli e favori; per comunicare con loro si scrivevano lettere o si incidevano le richieste sui vasi contenenti le offerte da portare alle tombe. Chi li aveva offesi in vita scriveva loro per chiedere perdono.
Il culto pubblico verso gli dei si svolgeva nei santuari, durante le processioni e nei funerali solenni, ma il popolo partecipava solo dall’esterno a gran parte delle cerimonie sacre. Malgrado questo, Erodoto disse giustamente (6) che gli Egiziani erano i più religiosi fra gli uomini, perché dotati di un intimo fervore, che li portava ad osservare regole di comportamento morale non scritte, ma che tutti avevano ben chiare. Il più amato fra i numerosissimi dei era Osiride, dio della natura e signore dell’universo; buono e pietoso, era stato ucciso dal malvagio fratello Seth. La leggenda della sua morte, di origini popolari, ebbe un tale successo che fu incorporata nella religione ufficiale: Osiride era adorato e rispettato, perché era un dio di carne, che aveva sofferto per il tradimento di suo fratello, aveva conosciuto la morte, era stato richiamato in vita dall’amore della sua sposa e vendicato dal figlio. Era qualcuno in cui riconoscersi ed il popolo lo venerò fino oltre l’epoca della dominazione romana. Il mito di Osiride viene raccontato da vari autori, ma è forse Plutarco a darcene la versione più completa ed organica (7). Osiride era frutto dell’amore fra Geb, dio della terra, e Nut, dea del cielo. Quando il dio del sole, Ra, si accorse del tradimento della moglie col dio della terra, maledisse Nut, condannandola a non partorire in nessun mese e in nessun anno. Ma il dio Thot ricorse ad un espediente per aiutarla e, giocando a dama con la Luna, guadagnò un settantaduesimo di ogni giorno; con queste frazioni fabbricò cinque nuovi giorni, da aggiungere ai 360 dell’anno egiziano. Questi giorni aggiunti fuori dal calendario poterono sfuggire alla vendetta di Ra e permisero a Nut di partorire Osiride. Ma Osiride non era figlio unico: nel secondo giorno Nut partorì Horus (detto “il vecchio” per distinguerlo dall’omonimo figlio di Osiride), nel terzo Seth, nel quarto Iside e nel quinto Nephtys. In seguito Osiride sposò Iside e Seth sposò Nephtys; non ci si deve scandalizzare per il matrimonio di una sorella e di un fratello: era pratica comune tra i faraoni, allo scopo di mantenere puro il sangue della razza destinata a dominare.
Affidato ad Iside il governo dell’Egitto, viaggiò per diffondere la civiltà per il mondo; tornato in patria, fu onorato ed adorato come un dio.
Ma questo destò l’odio del fratello Seth, che cospirò contro di lui con l’aiuto di settantadue congiurati. Costruito un cofano a perfetta misura di Osiride, durante un banchetto ve lo fece entrare con l’inganno e qui lo rinchiuse, gettando poi il cofano nel Nilo. Quando Iside seppe l’accaduto, si vestì a lutto e cominciò a cercare il corpo del marito. Nelle sue peregrinazioni l’accompagnavano sette scorpioni; un giorno chiese asilo ad una donna che, impaurita dagli animali, non volle farla entrare in casa. Uno degli scorpioni strisciò allora sotto la porta e punse il figlio della donna; udendo i disperati pianti della madre sul figlio morente, Iside si commosse e con potenti incantesimi magici gli ridiede la salute.
Trovato il corpo di Osiride, Iside concepì con lui un figlio, mentre sotto forma di sparviero volava sul corpo: nacque così Horus Arpocrate, che fu subito nascosto dalla dea del Nord all’ira dello zio Seth, che voleva ucciderlo. Nel frattempo il cofano con il corpo del marito era arrivato, portato dalla corrente, fino al mare della Siria. Qui Iside giunse a ritirarlo; avendolo lasciato per qualche giorno, mentre si recava a trovare il figlio Horus, ospite della dea del Nord, il malvagio Seth se ne impadronì e, fatto a pezzi il cadavere, ne sparse i resti in molti posti. Iside dovette di nuovo rimettersi in cammino; ogni volta che trovava un pezzo lo seppelliva, ed è per questo motivo che esistono in Egitto tante tombe del dio (nel tempio di Denderah una lunga iscrizione le elenca tutte). Mentre Iside piangeva sul marito, Ra si commosse e lo fece ritornare in vita, per regnare in eterno nell’Amenti, il mondo dei morti.
Esistono molte variazioni ed aggiunte a questa leggenda; è certo che, dall’introduzione del mito di Osiride, ogni defunto poteva identificarsi col dio e risorgere dalla morte alla vita eterna. Questo mito era anche alla base di molte feste popolari; ad esempio, quando il Nilo cominciava la piena si celebrava una festa in onore di Iside: le acque erano il simbolo delle lacrime della dea per la morte del suo sposo, che cadendo nel fiume ne ingrossavano il corso. Nel periodo della semina, le cerimonie avevano un tono luttuoso e triste: il corpo di Osiride, dio della terra e del grano, veniva ferito dagli aratri ed il popolo egiziano partecipava con le proprie lacrime al dolore del generoso dio.
Osiride divenne quindi un dio duplice, della natura ed insieme dei morti; gli erano sacri il djed, albero stilizzato che simboleggiava la stabilità e l’equilibrio, ed il bastone con un’estremità curva, detto “pastorale”, emblema della fertilità e simbolo del potere temporale. Sua moglie Iside era protettrice delle donne, delle madri, della famiglia, oltre che una maga, avendo appreso le conoscenze occulte dal dio Thoth; il nome Iside significa “trono”, per cui la dea era raffigurata con una corona in testa a forma di trono. Il suo simbolo era la cosiddetta “fibbia di Iside”, simbolo del legame tra madre e figli. Le statue la raffiguravano coperta da un velo, con sotto la seguente iscrizione: “Io sono Iside. Nessun mortale ha mai sollevato il mio velo”.
Seth, il malvagio fratello di Osiride, era rappresentato con i capelli rossi, per cui il rosso venne considerato sempre un colore negativo nella magia egizia ed associato a rituali malefici; egli era l’incarnazione delle forze del caos e della distruzione, nemico della luce. Nonostante fosse sua moglie, Nephthys lo abbandonò per aiutare Iside; era la dea delle cose nascoste, dell’oscurità, della ricettività psichica, della sensitività. Una leggenda antica dice che sedusse Osiride, all’insaputa di Iside, partorendo poi Anubis, il dio dalla forma di sciacallo, che proteggeva lo spirito quando usciva dal corpo.
Horus, figlio di Osiride e di Iside, era il dio della bellezza, della luce e maestro delle profezie; aveva anche il potere di guarire dalle malattie fisiche, mentre sua sorella Bast guariva da quelle mentali, facendosi aiutare dai gatti sacri, suoi assistenti. Ai due dei era connesso un talismano, lo Oudjat, che originariamente era detto occhio di Ra; il dio l’aveva donato a Horus per guarire gli uomini ed egli a sua volta lo prestava alla sorella quando ce n’era la necessità.
La moglie di Horus era Hathor, protettrice della bellezza femminile e patrona dell’arte dell’astrologia; si diceva che avesse inventato il trucco per migliorare l’aspetto delle donne. Aveva una duplice natura: quella di Hathor, positiva e luminosa, e quella di Sekhmet, dea guerriera negativa e distruttiva, simbolo del fatto che l’energia pu˜ essere usata sia per il bene che per il male. Ad Hathor era connesso uno strumento magico, detto appunto “specchio di Hathor”: era uno specchio doppio, trasparente da un lato e smerigliato dall’altro, che serviva per rimandare al mittente le onde malefiche quando si era oggetto di malocchio.
Il dio delle conoscenze magiche più elevate era Thoth, figlio primogenito di Ra, il dio del sole progenitore di tutti gli dei. Egli non era solo il depositario della sapienza occulta; era anche il dio della saggezza, patrono della storia, conservatore degli archivi dell’umanità, messaggero degli dei ed era anche colui che aveva insegnato agli uomini l’arte della costruzione. A lui era connesso il “caduceo”, una bacchetta con due serpenti intrecciati, simbolo del controllo sugli istinti e sullo spirito, oltre che portatore di guarigione.
Con Ramsete XI finì il Nuovo Regno e l’Egitto entrò in quella che si chiama Bassa Epoca, che vide l’inizio della lenta disintegrazione dello stato egiziano. Sul trono, a reggere la corona bianca dell’Alto Egitto e la corona rossa del Basso Egitto, sedettero sovrani deboli ed incapaci, molti dei quali stranieri, etiopi, nubiani, libici, fino alla dominazione dei Persiani, che finì con la conquista da parte di Alessandro Magno, salutato come un liberatore. Il disordine politico si rifletté sulle pratiche magiche del periodo: comparve la necromanzia, che consentiva di interrogare i defunti per conoscere il futuro, ed ebbero grande diffusione gli incantesimi di bassa magia, con il loro codazzo di filtri d’amore, veleni, elisir di lunga vita, amuleti contro il malocchio. Si evocavano morti e vivi, spiriti e dei, si chiedeva il loro aiuto per liberarsi dalle forze del male, dagli “operatori funesti che portano lutti e malattie”. Se nessuna misura di difesa funzionava, si poteva sempre andare a passare la notte nel recinto di un tempio, aspettando che qualche dio benevolo mandasse un sogno “per indicare la strada a chi non può vedere nel futuro”.
Gli amuleti più comuni erano lo scarabeo, simbolo solare di vita, l’occhio di Ra, tutela contro il malocchio, la stregoneria ed i morsi dei serpenti, le statuette del dio nano Ptah-Pateco o di Bes, utilissime per le partorienti, l’occhio di Horus, rimedio infallibile contro la febbre. Il materiale più usato era la maiolica, oltre a pietre più costose come la corniola ed il diaspro; se ne vendeva una tale quantità che i Greci costruirono una fabbrica di amuleti a Naucratis, sul delta del Nilo, distribuendo poi i loro prodotti in tutta l’area del Mediterraneo. Grazie a questo commercio ed all’ammirazione dei Greci per tutto quel che riguardava l’Egitto, si ebbe la diffusione dei culti egiziani a gran parte dei paesi che si affacciavano sul mare. Medici, guaritori e stregoni, in trasferta sulle coste greche ed italiane, portarono i loro amuleti, i loro dei, i loro rituali e la loro farmacopea. Maghi ed astrologi operavano ufficialmente a Roma, esercitando i loro poteri per il benessere della comunità. L’influenza della cultura magica egizia resistette perfino alle successive persecuzioni contro la stregoneria ed ebbe un costante successo fino alle soglie del Medioevo. 

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