Il manuale del perfetto inquisitore

Gradualmente le operazioni magiche e stregoniche furono assimilate al reato di eresia e perseguite secondo un preciso rituale, minuziosamente descritto da ponderosi testi a uso di chi conduceva gli interrogatori.
Forse anche a causa di queste aberrazioni, per tentare di evitarle in futuro, il Papato e le gerarchie ecclesiastiche vollero dare una normativa più precisa alle varie fasi processuali. Cominciò papa Innocenzo IV (1190-1254) che con la sua bolla Ad extirpanda (1252) mise in pratica all’ordine del giorno la tortura, avvertendo però che questa, il “rigoroso esame”, doveva avere come unico scopo quello di convincere l’imputato a riconoscere il suo errore, evitando per quanto possibile le mutilazioni, gli spargimenti di sangue e la morte.
I ripetuti attacchi sembrava avessero indebolito notevolmente l’eresia catara, quindi gli inquisitori potevano indirizzare la loro ricerca anche a quell’eterodossia minore che sembrava essere composta da pratiche superstiziose, antiche credenze, presenze diaboliche. La strada che porterà a inglobare anche le operazioni magiche e stregoniche nel reato di eresia non fu imboccata subito dagli inquisitori, ma con una certa lentezza. Continuò, forse, con la bolla di Alessandro IV del 13 dicembre del 1258, dove si affermava che gli inquisitori dell’eretica gravità non dovessero giudicare i reati 2de divinationibus et sortilegiis”, se non quando fossero dichiaratamente eretici (manifeste haeresim saperent).
Anche l’atteggiamento dell’inquisitore cambia: ora procede più spedito e con maggiore sicurezza, conducendo le inchieste consultando i manuali dei suoi colleghi, o i vari formulari di interrogatori che aveva a sua disposizione.

I tempi dell’inchiesta
L’inchiesta, tra la fine del Duecento e l’inizio del secolo successivo, comincia a distinguersi nettamente sia dai vari Corrado di Marpurgo o Roberto il Bulgaro, sia dai suoi colleghi guidati a malapena dalle vaghe Costitutiones di Lucio III. Ora precede con metodo e si avvale di aiutanti professionali: comincia ad avere la responsabilità di una vera e propria amministrazione, di una rete burocratica.
Oltre ai suoi appoggi locali, costituiti da sacerdoti più o meno collaborativi, ha dei fondi per pagare gli informatori, spesso Catari convertiti, dei vicari, dalle funzioni analoghe a quelle dell’Inquisitore e soprattutto dei commissari, che interrogavano i testimoni, senza però avere la facoltà di pronunciare sentenze.
L’inchiesta, ovvero la Inquisitio, si svolge con tempi e luoghi minuziosamente scanditi, cominciando con il sermone iniziale dello stesso inquisitore. È, questo, un momento fondamentale dell’azione procedurale. Se sarà un abile oratore, se riuscirà a toccare le corde più profonde delle credenze ortodosse della gente, l’Inquisitore si ritroverà un mucchio di prove, testimonianze, denunce. Spesso questi sermoni toccavano i fedeli nel profondo dell’animo, avevano effetti psicologici talmente forti da alterare le coscienze, da svelare seduta stante coloro che si ritenevano peccatori o, talvolta, da far venire allo scoperto lo stesso diavolo che aveva preso possesso di un corpo innocente, come si può ammirare nella Scena di predicazione a L’Aquila di Sebastiano di Cola.
Al sermone seguiva il Tempus gratiae, momento di riflessione durante il quale il popolo era indotto alla meditazione e al pentimento, che in genere significava delazione.

Colpevoli fino a prova contraria
Notai,vicari e lo stesso inquisitore si davano un gran da fare a raccogliere le confessioni, soprattutto a stilare una lista di sospetti, gli sfortunati che entreranno presto nelle aule, raramente congedati per “insufficienza di prove”. Davanti al giudice, l’imputato deve innanzitutto prestare giuramento. Ma la sua posizione è già compromessa: il solo fatto di non essersi presentato spontaneamente è un pesante indizio di colpevolezza. Quindi rende la sua confessione (confessio) religiosa, avendo cura di non omettere nulla: qualsiasi particolare potrebbe ritorcersi contro di lui, rendendolo spergiuro. Se accusato di eresia, il colpevole deve dire se ha visto altri eretici, i compagnia di chi, di dove erano e dove erano diretti. Deve inoltre rendere noto all’inquisitore dove è avvenuta la riunione degli eretici: se in una casa, scatta allora il reato di recepito, o accoglienza con l’immediata conseguenza che questa deve assolutamente essere distrutta. Bisogna anche accertare se ci sia stata adorazione, cioè partecipazione a una predica e se si siano offerti o ricevuti doni dai “perfetti”, soprattutto in occasione di un battesimo cataro, in genere definito “ereticazione”, reato considerato tra i più gravi.

Lo spettacolo della condanna
Il processo terminava con l’abiura e il giuramento “nel quale si impegnavano la propria parola e i propri beni “. Nel caso di accusati relapsi, i recidivi, c’era invece la condanna al rogo, come abbiamo visto per Pierina e Sibillia. Una volta terminata la propria attività, lo stesso inquisitore pronunciava pubblicamente le condanne, dopo un ultimo sermone generale: da quelle più lievi fino a quelle capitali, secondo un tipo spettacolarità che culminerà nei posteriori autodafè.
Riguardo al caso dei relapsi, poi, c’è da aggiungere che era di fondamentale importanza conoscere se l’imputato era già stato sospettato o accusato dello stesso reato, e il fatto che questi, dopo lo scampato pericolo, decidesse spesso di cambiare città e diocesi rendeva difficile l’accertamento. Da ciò derivò l’importanza degli archivi, in cui venivano raccolti i registri con i presunti sospetti o i loro successori, visto che essere discendente di un eretico era considerata un’altra prova per l’accusa. Altro strumento micidiale, l’archivio diviene obbligatorio a partire dal concilio di Beziers del 1246: tutti i verbali dei processi devono essere conservati e archiviati da personale competente e spesso appositamente assoldato. Nove anni dopo, inoltre, il concilio di Albi stabilì che si facessero dei duplicai di ogni verbale e che dovessero essere conservati in luoghi sicuri e separati dagli originali, in modo tale che la distruzione dolosa di un archivio non dovesse significare la decadenza di un processo o di un’accusa.

I formulari per gli interrogatori
Per avere un’idea di che tipo fossero i formulari impiegati per gli interrogatori dei presunti colpevoli di stregoneria, e a quali domande l’imputato avrebbe dovuto rispondere, vediamone uno, risalente al 1270 circa: Forma et modus interrogandi augures et ydolatras.
“Si chieda: se ha fatto qualche cosa relativa al culto dei demoni o se lo ha fatto fare;
se ha fatto l’esperimento dello specchio, della spada, dell’unghia, della sfera, del manico d’avorio, o ha invocato l’aiuto dei demoni su qualche erba, uccello o altra creatura;
se ha fatto qualche sortilegio per ottenere l’amore delle donne, o degli uomini, ovvero per odio, ir o discordia di qualcuno, ovvero per trovare cose rubate o tesori, per ottenere onori, ricchezze o favori;
se ha fatto l’esperimento dell’acqua o del fuoco o con altri artifici o con il piombo;
se con il sangue di uomo o donna ha scritto cose sull’ostia o i altre parti; se ha tentato di conoscere il destino attraverso gli intestini degli animali, ovvero mediante spalle o mediante mani degli uomini;
se ha rispettato l’osservanza dei giorni egiziani, credendo che essi siano infausti per cominciare qualcosa, o per finirla e cose simili; se nel primo giorno di gennaio ha fatto qualche cosa per assicurarsi un buon anno nuovo, dando qualche offerta per le strenne; se ha rispettato l’osservanza dei mesi, dei tempi, delle ore del giorno del corso della luna e del sole, delle stagioni, credendo che giorni, ore, punti celesti o tempi siano sfortunati o fortunati per cominciare, iniziare o omettere un’azione come nel caso di un viaggio, di un matrimonio o di inizio di una costruzione;
se ha fatturato o fatto fatturare un bambino o se ha consigliato qualcun altro di farlo, o se ha fatto preparare la mensa con vivande e candele fatturate o se ha osservato gli starnuti o altri auspici, ritenendoli cause o segni di disgrazia in quel determinato giorno, mese o anno;
se ha osservato segni del destino come l’uccello che cova un uovo, ritenendo che da questo gli deriverà fecondità e abbondanza, o se ha notato il casuale ritrovamento di un pezzo di ferro, di un ago, di una moneta, l’apparire di un lupo, di un serpente e di altre cose del genere, ritenendo che esse causino fortuna o sfortuna.”
Come si vede, siamo ancora nel mondo delle credenze da “connette” (mulierculae) o “vecchiette” (vetulae), lontani da futuri e stereotipi sabba delle streghe, dalle orge, dai pasti cannibalici. La Diana di Pierina e Sibilla deve ancora comparire, ma l’ambientazione “innocente” e popolare sembra essere la stessa. E similmente, si avverte già la “professionalità” che sarà di Beltramino.

Opere di riferimento
Oltre a questi strumenti, gli inquisitori potevano contare su opere che dessero spiegazioni, consigli e fungessero da punti di riferimento stabili e uniformi: i manuali. Tra i più noti, ricordiamo i due scritti da Bernardo Gui e Nicolau Eymerich, entrambi fondamentali per i loro colleghi: la Pratica officii Inquisitionis heretice pravitatis, scritto dal primo autore tra il 1323 e il 1325, e il notissimo Directorium inquisitorium, che circolò manoscritto (dal 1376) in lungo e in largo per i tribunali europei, prima di essere stampato, nel 1500, a Siviglia.
Entrambi si distinguono dagli altri, oltre che per la levatura dei loro autori, anche perché affrontano il problema della magia e della stregoneria, che ora cominceranno a interessare anche il tribunale dell’inquisizione. Gui, per primo, tenta di dare una definizione degli indovini, stregoni e invocatori di demoni, giudicati “peste ed errore vario e molteplice in diverse regioni e terre, a seconda delle molte invenzioni e false informazioni della vanità di uomini superstiziosi.

Le domande di Bernardo Gui
E’ interessante leggere l’interrogatorio suggerito agli inquisitori, ricco di informazioni sullo “stato della credenza” magica e stregonica che riprende superstizioni molto vicine a quelle che ritroverà il nostro inquisitore Beltramino alla fine del secolo: “Allo stregone, all’indovino e all’invocatore di demoni da esaminare si chiederà quali e quanti sortilegi o divinazioni o invocazioni conosca, e da chi l’abbia imparate. Così, scendendo nel particolare, considerando la qualità e la condizione delle persone, poiché l’interrogatorio non vada condotto per tutti nello stesso modo, siano essi uomini o donne, potranno essere poste all’imputato le seguenti domande: che cosa sappia, che cosa abbia imparato, a quali pratiche sia ricorso per stregare o liberare dal maleficio i fanciulli.
Si faranno domande sulle anime perse, cioè dannate; sui ladri da incarcerare; sulla concordia o discordia fra coniugi; sulla fecondazione delle donne sterili; sulle sostanze che gli stregoni fanno inghiottire, come peli, unghie e altro; sulla condizione delle anime dei defunti; sulla predizione del futuro; sulle fate che sono dette (quas vocant) “bonae res” e che si dice (ut dicunt) vadano la notte…
Già nel manuale di Gui troviamo quegli argomenti sui quali certamente Beltramino ebbe a fare domande, solo, qui sembrano gettate lì a caso tra tante altre. Non c’è nulla che ancora faccia pensare a una ricerca, a un’inquisitio, su quei particolari aspetti che saranno propri della “stregoneria” successiva.

L’Inflessibile Eymerich
Lo spostamento di interesse degli inquisitori possiamo vederlo anche nel Directorium di Nicolau Eymerich, inqusitore generale dell’Aragona dal 1357. Quest’inflessibile domenicano di Gerona, in Catalogna, si dedicò con tanto zelo al suo incarico di correzione degli eretici da esserne allontanato dai suoi stessi superiori. Il suo può essere considerato il primo, vero manuale dell’inquisitore, nella sostanza e nelle intenzioni. Eymerich scrive per i suoi colleghi presenti e che verranno, e sa che è di fondamentale importanza, di fronte alle tante deviazioni della fede che proliferano in Europa, ordinare la procedura e riportare tutti i possibili casi. Come scrive egli stesso, e riporta nell’introduzione il curatore dell’edizione italiana del “manuale” Louis Sala Molins, è necessario “raggruppare in un unico libro i testi sparsi, e non a caso, ma in modo tale che non vi manchi nulla e che tutto sia armoniosamente ordinato”
Di certo Eymerich fu teorico scrupoloso, probabilmente maniacale, non molto lontano da come lo descrive Valerio Evangelisti nei suoi romanzi (Nicolas Eymerich inquisitore, 1994; le catene di Eymerich 1995, il corpo e il sangue di Eymerich 1996, Cherudek 1997, Picatrix, la scala per l’inferno 1998, il castello di Eymerich 2001).
Ma la sua monumentale opera, mille pagine in folio dalla scrittura molto fitta, ci assicura Sala Molins, fu il risultato non solo di una psicologia individuale, bensì di una sentita necessità, da parte dei suoi colleghi, di avere un loro codice penale, un manuale, appunto, che tentasse di mettere un po’ di ordine in quella congerie confusa delle confessioni degli imputati. Consapevole della sua importanza, Eymerich non pecca di presunzione quando scongiura “tutti gli inquisitori di consultare con devozione la raccolta, di studiarla attentamente, di imprimere il contenuto nei loro cuori, di non dubitare punto della sua veridicità, d’imporne lo studio ai teologi e ai giuristi loro consiglieri, insomma di conformarvisi totalmente nelle scelta delle sentenze. 

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