Non hai bisogno di altro Dio

Ho ricevuto il sotto riportato scritto, con la sfida, che non avrei avuto il coraggio di metterlo nel sito perché contrario alla magia. Solo gli stupidi ascoltano una sola campana, ed è per questo che ho deciso di pubblicarlo nel mio sito e magari stuzzicare qualche reazione intelligente e costruttiva. Avanti…sono aperte le danze…
L’occulto impone atteggiamento di compassione ma anche chiarezza di idee nella prassi pastorale. Dio non sopporta concorrenti ma è pure vero che il diavolo può tentare anche se non annientare la libertà.
Urge una seria catechizzazione, specie sul senso del dolore e sul mistero della croce.
La pietà popolare può essere deviante se fornisce amuleti per tutti i guai e isola i Santi da Dio.
Le benedizioni non devono risultare portafortuna e le preghiere di guarigione devono orientare all’abbandono nelle mani di Dio.
Prima di procedere ad esorcismi è necessaria una lettura in sinergia con psichiatria, neurologia e psicologia.
Comunque l’antidoto migliore è costituito da preti lucidi, dolci e fermi.

Da quando esercito il ministero episcopale, da oltre ventisette anni, sono spesso interpellato su situazioni varie, collegate, a dire di chi mi accosta, a magie, fatture, vessazioni, possessioni del diavolo.
Debbo confessare che provo sentita compassione per questi fratelli e sorelle ma il “misereor super turbam” (Mc 8,2) in me, in non pochi casi, si mescola alla considerazione amara che registra il Deuteronomio (29,25) “Sono andati a servire altri dèi e si sono prostrati dinnanzi a loro: dèi che essi non avevano conosciuto e che egli non aveva dato loro in sorte”.
Vale la pena risentire la forza del linguaggio biblico sulla “prima parola” del Decalogo (Es 20, 2 5): “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.
Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso…”
La titolazione di questa riflessione: “Non hai bisogno di altro Dio” esplica il termine appassionato, ricorrente nella Bibbia, della “gelosia di Dio”.
Dio non può avere concorrenti. Nel suo Amore gratuitamente ed intensamente libero interpella, come in un dialogo nuziale, la libertà dell’uomo che ha la espressione più vera del suo essere nel rispondergli generosamente e che ha il fallimento del suo essere nella chiusura o devianza che vi è nel non amore.
“Il Signore tuo Dio è fuoco divorante, un Dio geloso” (Dt 4, 24).
Si! Dio è geloso perché è l’Amore assoluto, ama l’uomo in modo esclusivo e vuole essere da lui riamato e per questo condanna ogni “adulterio del cuore”.
Come pastore mi sento vibrare di fronte a tante devianze, a tanti ‘pasticci del cuore’ e mi viene in mente il Salmo (79,5): “Fino a quando, Signore, sarai adirato per sempre? Arderà come fuoco la tua gelosia?”.
Magico e diabolico
Imposto la mia riflessione, che tende a delle scelte pastorali, cogliendo introduttivamente, nel contesto della cultura e dell’ethos contemporaneo, il “magico” ed il “diabolico”.
Rileva Leon Dufour alla voce “magia” (in “Dizionario di Teologia biblica” 1971): “Di fronte a un mondo che lo schiaccia, a degli esseri che gli incutono paura o che desidera dominare, l’uomo cerca di acquisire un potere che oltrepassi le sue sole forze e che lo renda padrone della divinità e perciò stesso del proprio destino”.
“L’ uomo, creato libero e padrone di scegliere Dio, da Dio riceve pure il dominio nel mondo; non ha bisogno quindi di ricorrere alla magia, quest’arte ibrida che cerca di fondere artificiosamente religione e scienza esoterica, ma non riesce che a parodiare la natura e a corrompere gli effetti della fede”.
Perché, oggi, in un tempo di grandi conquiste scientifiche, di affermazione della razionalità che diviene quasi mitica, emerge come e più di prima il magico?
Sono fondamentalmente queste le ragioni: il desiderio di dominare l’ignoto, la incapacità a saper soffrire mentre tutto è edonisticamente facile, l’ignoranza religiosa, il pressare del dramma dell’esistenza e l’abdicazione alla libertà.
Acutamente osserva il Concilio Vaticano II (G.S. 4): “Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà e intanto si affermano nuove forme di schiavitù sociale e psichica”.
Il diavolo
Il diavolo (dal greco diabolos: colui che confonde, turba, sconcerta, disorienta) secondo l’insegnamento della Chiesa non è da guardare in una visione dualistica del cosmo. In altre parole, il diavolo non è una sostanza originaria scaturita in maniera autonoma dal caos e, quindi, il principio dei male morale.
Originariamente era una creatura di Dio buona, creatura che fece un uso cattivo ed innaturale del bene voluto da Dio (DS. 286). Il suo peccato è strutturalmente uguale a quello dell’uomo, cioè atto di una libera volontà (DS. 797).
Il Concilio Lateranense IV (1215) insegna con autorità: “Il diavolo e gli altri demoni sono stati creati per natura buoni da Dio e sono divenuti cattivi per colpa propria. E l’uomo peccò su suggerimento del diavolo” (DS. 800).
Il diavolo opera continuamente e subdolamente nella vita di ognuno e nella libertà dì tutti. Lo dice l’apostolo Pietro (1Pt 5, 8 9): “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede”.
Ma, ritengo giusto, per superare, anche pastoralmente, la tendenza a “demonizzare” tutto, ad esaltarne l’opera, che siano fissati alcuni punti fermi:
a. Gesù, respinge il tentatore all’inizio della sua missione (Mt 4, 1 11) e lo scaccia per tutti: “Se io scaccio i demoni per virtù dello spirito di Dio è certo giunto in mezzo a voi il regno di Dio” (Mt 12,24).
“Dio dice il libro degli Atti (10, 38) consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui”.
b. Gesù diede il potere agli Apostoli ed ai suoi discepoli di “cacciare i demoni” (Mt 10, 8).
Tra i segni che accompagneranno quelli che credono, ha detto, “nel mio nome scacceranno i demoni” (Mc 16,17).
Ci ha detto che lo Spirito Santo, il Paraclito, manifesterà il senso della morte di Gesù: la disfatta e la condanna del principe di questo mondo (Gv 16,11).
c. Cosa può fare il diavolo sull’uomo e cosa non può fare?
Ritengo giusto oggi, tempo subdolo, evasivo, di magismo e di diabolicità che si riaffermino due energie su cui il Maligno tenta ma che non può annientare. Sono la libertà dell’uomo e la grazia di Dio.
Anche se, nell’intreccio del cattivo uso delle libertà, disorientate dalla tentazione, egli, colui che divide, devia le opere di Dio, dell’amore e della giustizia (Cf 1 Tess. 2, 18) non può, perché non ha potere, distruggere la libertà.
d. L’opera del maligno si esprime nella tentazione, nella vessazione, nella possessione.
La tentazione è l’azione più sottile e persistente. Gesù ci ha insegnato, nel Padre nostro, la forza della preghiera contro la tentazione (Mt 6,13) e quella della vigilanza (Mc 14,38), l’unione con Lui, il Signore, il Vincitore del maligno.
La vessazione e, nei casi più seri, la possessione sono un’azione più estrema del maligno sulla totalità di un essere umano, corpo, anima, sentimenti; ma tale azione non può mai sottomettere la libertà dell’uomo; anzi tale azione del Maligno è sottomessa alla potenza dello Spirito che, ora, opera nella Chiesa ed è remotamente, nella misteriosa volontà permissiva di Dio, spazio di redenzione e segnale della vittoria del Risorto, che il Padre “ha fatto sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione” (Ef 1, 21).
e. Una parola introduttiva meritano i malefici che la gente comune chiama ‘fatture’ dì diversa motivazione ed esecuzione sino a quella che viene chiamata ‘fattura a morte’.
E’ questa un’area i cui confini tra serietà e stregoneria non sono molto chiari. C’è, anche in campo ecclesiale, chi attribuisce alla fattura una specie di ‘sacramentalità’ diabolica, per cui attraverso oggetti o altro si può generare il male su una persona. Ci sarebbe, dicono, come un feeling a rovescio tra chi ‘venduto al diavolo’ lo impegna al male sul soggetto odiato. Liberare dal suddetto oggetto è liberare la persona da un laccio di sofferenza, se non addirittura di morte.
Questo mondo del maleficio risente di una visione magica, da stregoneria che, nei secoli passati ed in aree da sottosviluppo, ha fatto da conduttrice di tante situazioni umane. E’ un campo questo da ben valutare istruendo, illuminando e confortando per non dare all’uomo i poteri di Dio sugli altri.
E’ possibile, solo, che il demonio, padre della menzogna, si serva di tutti questi artifici per confondere, inquietare e fare del male. Ma la liberazione non è nei contro malefici meccanici, quanto in un processo interiore di autenticazione della persona, nell’inserimento di essa nella vera fede ed in una particolare forza morale, dono dello Spirito di Dio, che rompe ogni catena e libera da ogni schiavitù.
Seria catechizzazione
E’ importante, oggi definire i comportamenti dei pastori in un campo molto delicato, diffusissimo, enfatizzato da ‘esorcisti famosi’, da raccoglitori di folle e, frequentemente, presentato in modo sensazionalistico da talune trasmissioni televisive. E’ da considerare poi che molte emittenti locali vivono sull’uso in diretta di maghi.
In alcune regioni del Sud tra i più alti fatturati, oltre quelli della mafia, c’è l’altro dei maghi.
Il primo impegno pastorale è una seria catechizzazione.
Molto del nostro catechismo rimane a livello infantile, ai sacramenti dell’iniziazione cristiana. Non c’è ancora, organica e seria, una catechizzazione per gli adulti. Sicché quando esplodono i problemi, quando tormenta l’inaccettabilità della sofferenza, quando si afferma il sopruso ci si rifugia in ‘vie di presunta liberazione’ riferendosi al magico ed al diabolico, abdicando ad una seria vita di fede, non accettando talvolta le vie mediche ed in fondo abdicando alla propria libertà e alla propria croce.
C’è una tendenza a cercare le ragioni dei soffrire che, nell’emergente visione magica e demoniaca, verrebbe esorcizzato e libererebbe il soggetto che così abdica al mistero della sua vita.
C’è anche una sottile visione di Dio come alternativo al dolore. In altri termini se c’è Dio non ci dovrebbe essere il dolore, se c’è il dolore non c’è Dio.
Non c’è la comprensione della sofferenza, come via di Dio, via redentrice, sulle orme di Cristo che ci ha rappresentato nei nostri dolori e nei nostri peccati ed ha donato loro un senso di vita, di solidarietà feconda.
Conta aprire “la mente all’intelligenza delle Scritture”, disse Gesù ai suoi Apostoli prima di tornare, con la sua umanità gloriosa, al Padre. E disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno” (Lc 24, 45 46).
Come Cristo è il crocifisso risorto, così per il credente che partecipa vitalmente a questo suo mistero, la via della sequela è la croce. “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me” (Mt 11, 38).
L’autore della Lettera agli Ebrei annota: “Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato e avete già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli: Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da Lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio. E per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli, e qual è il figlio che non è corretto dal Padre? Se siete senza correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi, non figli!” (Eb 12, 4 8).
Il dolore vissuto in questa luce di amore personale e di fecondità ecclesiale è un ‘dolce peso’, è aperto alla risurrezione. Fuori della ‘verità di Dio’ è una sconfitta. Per questo non si cerca di assumerlo ma di annientarlo.
L’evangelizzazione, nella contemplazione del mysterium crucis, deve annunziare che il Signore non ci ha salvati togliendoci dal dolore e dalla morte ma nel dolore e nella morte, che Egli ha assunto, redento, trasfigurato.
Spesso si è tormentati dal silenzio di Dio, schiacciati dalla sua trascendenza, confusi sul soprannaturale, disorientati dal mistero.
Dio è, invece, vicino all’uomo, opera continuamente nella storia, salva attraverso tutto. Noi restiamo spesso in visioni pagane della divinità, siamo conflittuali con Dio. C’è, molto emergente, la concezione fatalistica dell’esistenza. Il mistero, si dice, è il destino.
E’ opera redentiva, attraverso la catechizzazione, far passare dal fato alla scelta. Non siamo chiamati a subire ma ad interagire. Con lucidità spirituale Paolo esorta “per la misericordia di Dio ad offrire i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” e conclude: “è questo il vostro culto spirituale” (Rom 12, 1).
E’ l’offerta del peso di quanto la corporeità comporta di sacrificio.
Pietà popolare
Un’attenzione particolare nella evangelizzazione deve essere donata alla ‘pietà popolare’. Con tale espressione s’intende la maniera con la quale si sente e si esprime la fede cristiana in una determinata cultura. Così intesa, la pietà popolare è positiva, è ricchezza, è linguaggio nella molteplicità delle espressioni umane.
Ma, storicamente, essa si è molto involuta sino a contrapporsi alla tradizione della fede e ad esprimersi solamente come grido dell’uomo senza cogliere la risposta di Dio, come tensione celebrativa di angosce, sino a diventare religione di se stessi.
Emerge in essa l’ethos del protezionismo, del miracolismo.
C’è un santo per ogni guaio. La lettura della ‘comunione dei Santi’ è molto imprigionata nel racconto delle proprie sofferenze, anziché nella celebrazione delle meraviglie di Dio, che glorifica i martiri, i sofferenti, i poveri. Su tale frontiera che, anziché chiara visione soprannaturale è aggancio ad un devozionalismo di richiesta, si spiega l’emergente ‘ritorno al sacro’. Ci sono figure di beati e di santi che hanno un diffuso, erroneo culto, in quanto sono visti come amuleti per i guai. C’è anche un’epica del pellegrinaggio, che non è sentito come un muoversi verso Dio, verso l’incontro esperienziale con Lui ma come impresa catartica, liberatrice del proprio dolore.
La vittoria cristiana del dolore non è nella sua soppressione ma nella sua assunzione, in Cristo, come ‘Si’ a Dio ed offerta redentiva per l’umanità.
Se non la s’incanala, in verità, la pietà popolare può essere deviante.
Afferma la L. G. (49): “A causa della loro più intima unione con Cristo i beati rinsaldano tutta la Chiesa nella santità… Non cessano di intercedere per noi presso il Padre, offrendo i meriti acquistati in terra mediante Gesù Cristo, unico Mediatore tra Dio e gli uomini… La nostra debolezza, quindi, è molto aiutata dalla loro fraterna sollecitudine”.
E con più completezza aggiunge (50): “Non però veneriamo la memoria dei Santi solo per il loro esempio, ma più ancora perché l’unione della Chiesa nello Spirito sia consolidata dall’esercizio della fraterna carità. Poiché come la cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più vicino a Cristo, così la comunione con i Santi ci unisce a Cristo, dal quale, come da Fonte e Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso popolo di Dio”.
Questa positività non isola i santi da Dio, non li riduce a fonte di favori ma apre a verità che si compie nella carità. I Santi rivelano la verità della vita e stimolano non all’abdicazione ma alla assunzione nella propria esistenza come risposta, scelta, esercizio di autentica vita personale.
Benedizioni
Una riflessione meritano le benedizioni. In una diffusa coscienza popolare che le cerca, le autocentralizza, esse spesso sono viste come forme liberatorie dai mali o portafortuna per gli oggetti, i mezzi del lavoro, i negozi ecc.
C’è da impostare bene questo aspetto delle benedizioni nella vita della Chiesa. Sento di riassumere come in una formula la vera impostazione da dare: Dio è benedicente quando è benedetto.
Non si tratta quindi di attirare lo sguardo di Dio sulle nostre cose ma di elevare il nostro a Lui, perché sia presente, amato nel vissuto, in tutti i suoi doni.
Nel Nuovo Benedizionale, edito dalla C.E.I. (1992) nelle premesse generali è detto (11): “La Chiesa vuole che la celebrazione di una benedizione torni veramente a lode ed esaltazione di Dio e sia ordinata al profitto spirituale del suo popolo.
E perché questa finalità risulti più evidente, per antica tradizione le formule di benedizione hanno soprattutto lo scopo di rendere gloria a Dio per i suoi doni, chiedere i suoi favori e sconfiggere il potere del maligno nel mondo”.
Alcuni formulari di benedizioni, alcune preghiere a retro di alcune immaginette dovrebbero essere meglio orientate, onde si colga che le benedizioni sono segni sensibili, non magici, per mezzo dei quali “viene significata e, nel modo ad essi proprio realizzata (S.C. n. 7), quella santificazione degli uomini in Cristo e quella glorificazione di Dio che costituisce il fine cui tendono tutte le altre attività della Chiesa” (ib. nn. 7 e 10).
E’ opportuno prima di ogni ritualità benedicente spiegare quanto sopra, onde sia superato ogni rischio magico e non ci sia la pretesa di abbassare lo sguardo di Dio a noi ma di elevare il nostro a Lui.
Guarigioni
Esprimo, ora, qualche orientamento pastorale sulla ‘guarigione’ e su quella che si chiama la ‘preghiera di guarigione’. Su tale ultima esperienza, particolarmente accentuata in alcuni gruppi ecclesiali, si affollano moltissimi fratelli e sorelle provati dalla malattia e si evidenziano non pochi presbiteri, e non solo, guaritori. Bisogna, a riguardo, avere idee chiare.
Noi siamo sotto la grazia e la salvezza operata dal Signore Gesù.
Nell’antico oriente la malattia si considerava come un flagello causato da spiriti malefici e si praticavano esorcismi per scacciare i demoni. La medicina rimaneva così legata alla magia. Un po’ alla volta, con lo spirito di osservazione dei greci la malattia fu vista con metodo scientifico. Nella visione cristiana essa è un evento da assumere come prova purificazione, via di redenzione non solo personale, ma ecclesiale, universale.
Gesù trova e cerca ammalati sulla sua strada. Li guarisce manifestando sempre un’esigenza nell’infermo: credere, perché tutto è possibile alla fede. (Mt 9, 28; Mc 5,36; 9,23).
I miracoli di guarigione si rivelano come un anticipo dello stato di perfezione che l’umanità ritroverà nel regno di Dio compiuto.
Gesù riporta sempre l’attenzione alla guarigione dei cuore, come nel caso del paralitico (Mc 2,1 12) cui rimette dapprima i peccati e poi, per dimostrare che ne ha il potere, lo guarisce.
Il vangelo, poi, annota: “Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità” (Lc 9, 1).
Paolo poi ricorda tra i ‘carismi’ quello della guarigione. (I Cor 12, 9 28 30).
C’è un sacramento per l’infermità (Gc 5,14).
La malattia è nella economia di salvezza. Rivela P. Grelot (voce “Malattia – Guarigione” in Dizionario di Teologia Biblica): “Il malato, nel mondo cristiano, non è un maledetto dal quale ci si scosta, è l’immagine ed il segno di Gesù Cristo”.
La pastorale degli infermi è una delle più concrete ed efficaci.
La visita agli infermi è richiesta dal Signore (Mt 25, 36) ed è fonte di salvezza, perché esercizio di carità.
Tuttavia sul ‘segreto’ della malattia c’è molto da evangelizzare.
Certamente si può invocare da Dio la guarigione, ma sempre nell’abbandono alla Sua Volontà. Una parola, sul piano pastorale, dobbiamo dire sulle forme comunitarie, organizzate, presiedute da leaders carismatici che celebrano la ‘preghiera di guarigione’.
Un’attenzione da prestare come fatto primario è lo sguardo a Cristo, il Sofferente per tutti e, di riflesso, non creare l’ansia, talvolta miracolistica, della guarigione: orientare piuttosto all’abbandono a Dio, alla sanità del cuore che procede dall’adesione umile e purificante alla sua volontà.
Seguendo alcune intuizioni espresse in una dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede, ritengo siano tre gli atteggiamenti da evitare: la collettivizzazione dell’angoscia, il sensazionalistico dell’evento, la gestione enfatica, generatrice di emozione, del ‘passare di Dio’.
Senza vigilanza si può correre il rischio, anziché di sanare i cuori ed i corpi, di idealizzare alcuni leaders carismatici, sottacendo tutto il segreto profondo e sacramentale della Chiesa e, quindi, di snaturare l’incontro di fede, che è un silenzioso e profondo rapporto con Cristo, unico medico dell’uomo, di tutto l’uomo.
Queste forme che ho definito “collettivizzate ed enfatizzate” possono deviare nel ‘magico’ che ha un suo volto nel sensazionale. Oggi abbiamo smarrito il silenzio di Dio e per Dio nel quale si può ascoltare, in verità, ogni sua Parola sanante e vivificante.
Esorcismi
Tratto, ora, dell’esorcismo. Che cosa è?
Il Catechismo della Chiesa cattolica così lo definisce: “Quando la Chiesa domanda pubblicamente e con autorità, in nome di Gesù Cristo, che una persona o un oggetto sia protetto contro l’influenza del maligno e sottratto al suo dominio, si parla di esorcismo” (1673). E prosegue: “Gesù l’ha praticato (Mc 1, 251): è da Lui che la Chiesa deriva il potere e il compito di esorcizzare (Mc 3,15; 6, 7 13; 16,17). In una forma semplice, l’esorcismo è praticato durante la celebrazione del Battesimo. L’esorcismo solenne, chiamato ‘grande esorcismo’ può essere praticato solo da un presbitero e con il permesso del Vescovo”.
Per arrivare all’esorcismo ci vuole un serio discernimento. Sono due le pratiche da superare per arrivare all’esorcismo: dapprima considerare quanto può essere riferito a psicopatologia o a disturbo psichiatrico e poi non allargare l’influsso demoniaco in ciò che può essere una semplice, anche se forte, vessazione.
Nel primo caso, si esorti il ricorso ai medici che, purtroppo, è spesso sfuggito, perché molte persone non accettano di essere inferme e quasi quasi gradirebbero l’azione satanica per un discorso di taglio magico, riducibile a questo ragionamento: se sono esorcizzato, starò bene. à un semplicismo amaro. Nel secondo caso, bisogna immettere nella preghiera, nella vita sacramentale, nell’accogliente potenza dello Spirito e nell’esercizio della carità. Nella editio typica: De exorcismis et supplicationibus quibusdám della Congregazione del culto divino e della disciplina dei sacramenti, approvato dal S. Padre (26 gennaio 1999) sono indicati, secondo prassi comprovate, alcuni segni della possessione diabolica: parlare lingue non conosciute, mostrare una forza superiore all’età ed alla propria condizione naturale, unitamente a veemente avversione verso Dio, verso il Santissimo Nome di Gesù, la Beata Vergine Maria, i Santi, la Chiesa, verso la Parola di Dio ed i sacramenti.
Perché l’esorcismo sia serio e non si entri nel gioco di satana ritengo giusto che, in ogni Diocesi, è bene che ci sia una o più commissioni, composte oltreché da esorcisti saggi e di provata moralità, da medici psichiatri, psicologi, neurologi, endocrinologi, i quali esaminino collegialmente la situazione prima di addivenire all’azione dell’esorcismo.
Comunque con le persone turbate, anche se malate, bisogna usare molta misericordia, ed orientare con ferma dolcezza ad una dignità personale che si apra, nella pazienza, all’opera di Dio. Non bisogna essere né razionalisti né faciloni.
La Chiesa porta la potenza di Dio per la miseria umana ma non deve mostrarsi credulona e fragile di fronte al gioco di Satana che è già vittorioso quando inganna, intrappola e, mi sia consentita la banalizzazione, quando ‘porta a spasso’.
Preti liberanti
In tutto questo mondo del magico, del superstizioso, del demoniaco, una figura importantissima, ineludibile è quella del presbitero che, ordinariamente, è prima o poi accostato.
Abbiamo bisogno di preti chiari, dolci e fermi, veri profeti della verità di Dio e della dignità dell’uomo contro tanti ‘santoni’, ‘maghi sfruttatori’ ma anche contro frange ecclesiali che mal credenti nel ‘vero’ soprannaturale, offendono la verità del naturale e cadono in un soprannaturalismo disorientato e decisamente magico.
Servire l’uomo, in nome di Cristo, è anzitutto rispettarlo, orientarlo ad essere se stesso ed a trovare in sé l’energia di Dio, la potenza della risurrezione che c’investe nel Battesimo.
Bisogna poi presentarsi pastoralmente ben misurati riguardo all’uso intelligente e catechizzante dei benedizionale. t molto importante mostrarsi ed essere maestri di spiritualità, veri ed attesi direttori e guide di coscienze.
Il prete non è ovviamente un santone. Lo deve mostrare con la sua vita, intensamente umana perché ancorata al divino.
Deve apparire forte della potenza di Dio, pur nella sua fragilità; uomo della Parola che discerne e giudica, della grazia che purifica e libera e soprattutto uomo per l’uomo, che sa ‘consoffrire’ ma che opera per formare e plasmare ‘uomini liberi’.
Il prete è il mediatore del Dio che salva e santifica.
Più egli esistenzialmente è libero da pastoie devozionalistiche, da enfasi miracolistiche, da ricette salvifiche e più è liberante.
Satana è già stato giudicato. à drammatico quando, seguendo la sua subdola presunzione, ci lasciamo asservire, ma è parimenti negativo quando ci esaltiamo, facendo il suo gioco, di fronte a lui.
Alla via satanica bisogna contrapporre la via angelica che è adorazione, umiltà che si fa carità, servizio.
Il nome di angelo è nome di missione cui tutti siamo chiamati annunziando la verità, la libertà e l’amore di Dio.
In questa ottica mi piace chiudere questa riflessione con una provocante pericope evangelica, che rivela che cosa non dobbiamo temere e di che cosa dobbiamo gioire perché credenti.
Dice il Vangelo di Luca (10, 17 20): “I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: ‘Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome’. Egli disse: ‘Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti in cielo'”.
+ GIUSEPPE AGOSTINO
Arcivescovo di COSENZA-BISIGNANO

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