I luoghi della tregenda

Incantesimi e malefici non potevano svolgersi in ogni momento e in qualsiasi luogo.
Solo alcuni erano quelli propizi perché il rito avesse successo.

Oscene perversità, orge, danze, banchetti, promiscui amplessi con il demonio erano, in sostanza, i tratti salienti di qualsiasi serio e coerente percorso di iniziazione di una strega.
Ma dove e quando avvenivano queste sacrileghe celebrazioni del male? Ovviamente le ore notturne erano le più propizie.
Le streghe della Valtellina e della Val Canonica le tenevano tra le nove di sera e le prime luci dell’alba sul monte Tonale, non per niente, indicato in molti resoconti folcloristici la loro altura, il loro preferito “per foter e balar” (per fare l’amor e ballare). A Napoli le maligne creature si davano convegno in cima al Vesuvio.
Quelle marchigiane si davano appuntamento sul promontorio del Conero prospiciente il mare Adriatico, poiché qui abbondava la crescita di certe erbe particolarmente adatte a ogni tipo di malefici.
Le emiliano-romagnole si riunivano nei dintorni della città di Ferrara, nelle Pianure della Mirandola o su Alcune colline nei pressi di Bologna.
Esistevano però anche rocce castelli, boschi, spiagge, cascate delle streghe e non certo pochi sono ancora oggi i luoghi che conservano nel nome il ricordo di queste antiche leggende.
In Sardegna le “domus de janas” erano delle fessure nella roccia in cui si diceva tenessero i loro convegni delle orribili e malvagie megere.
A “Pian delle streghe”, località nei pressi di un piccolo paese in provincia di Torino, nelle notti di luna piena si trovavano tutte quelle della Liguria.
Mentre nell’isola di Gallinara, di fronte ad Alberga, c’è chi diceva arrivassero sotto forma di uccellacci neri. Le fattucchiere di Portofino preferivano, invece, le più solitarie coste della Corsica.

La Magica Noce Di Benevento
Additati come luoghi di tregenda erano pure certi alberi di noce che si distinguevano per la loro superba bellezza e maestosità. Famosissimo da noi quello di Benevento.
“Iuxta viam qua itur, a Benevento ad Petram Pulciam (vicino alla strada per la quale si va da Benevento a Pietralcina) – si legge in una delle più antiche testimonianze che lo riguardano- iuxta nucem dictam Janaram” (vicino c’è una noce detta magica). Qui al grido di “sopra acqua e sopra vento all’albero n’andiam di Benevento2, a dispetto cioè di qualsiasi avversa condizione atmosferica, si sono date nei secoli periodicamente convegno le streghe di mezzo mondo.
Matteuccia di Francesco, guaritrice e giustaossa bruciata nelle pubblica piazza di Todi il 20 Marzo del 1428, vi si recava puntualmente nei mesi di aprile, maggio,agosto, settembre e dicembre per ricevere appunto da Lucifero in persona aggiornamenti e istruzioni su polveri ed erbe magiche con cui esplicare la sua richiestissima attività.
Di quanto avveniva sotto i rami di questo magico albero ce ne danno, inoltre, notizia numerosi trattati satirici il più famoso dei quali risulta ancora oggi essere il volume “Della superstiziosa noce di Benevento” scritto nel 1963 dall’erudito e medico campano Pietro Piperno.
In alcuni passi del libro, l’autore fa risalire l’origine di questa credenza nientemeno che alle parole del vescovo Barbato il quale, in occasione di un assedio di Benevento nel 667 da parte dell’imperatore bizantino Costante, attribuiva l’imminente rovina della città proprio all’adorazione sacrilega che in certi giorni i suoi concittadini similmente a quanto avveniva tra il popolo lombardo da cui nel VI secolo d.C. i beneventani furono appunto dominati, tributavano “ad un serpente di bronzo che a questo effetto teneano sospeso da un arbore di noce due miglia fuori della città” tanto da far supporre che un demonio avesse preso possesso delle radici di quella pianta.
Allorché il vescovo passato il pericolo, scrive ancora Piperno “fè quello tagliare anzi da fondamenti sradicare ne fu trovato e quindi ammazzato uno prorio in forma di orribilissimo serpente”.
Scomparso dalla realtà il noce cominciò però a vivere nella leggenda.
Ci fu così chi cercò di identificarlo tra quelli che , nei boschi di Benevento, perdevano anzi tempo le foglie, producevano pochi frutti oppure avevano intorno alla loro base degli spazi privi di erba. Qui si credeva accendessero i loro fuochi le streghe per preparare, come ricorda lo stesso W. Shakespeare in un passo del IV atto del suo Macbeth, i loro infernali malefici.

I Strega:
Tutte intorno alla caldaia
Ne attoschiamo la vetraia.
Questo rospo che dormì,
Trentun notti e trentun dì,
A far fiel sotto una proda.
Bolla primo in questa broda.

Tutte:
Dai e ridai rimesta e attizza
Bolle il brodo e il fuoco guizza.

II Strega:
Questa biscia di pantano,
bolla e cuocia a mano a mano,
D’un ramarro aggiungo
Un occhio,
E la zampa d’un ranocchio,
Con il pel d’un pipistrello
E d’un verme col pungello,
D’una serpe il doppio stocco
Ed un’ala d’un allocco,
Di lucerta un piè rimane
Ed infin lingua di cane:
Perché il filtro sia potente,
Bolla e bolla ogni ingrediente.

Tutte:
Dai e ridai, rimesta e attizza
Bolle il brodo e il fuoco guizza.

III Strega:
D’un dragon l’aspra scaglia
U’no squalo la ventaglia
D’una lupa zanna acuta
Con radici di cicuta
Colte al buio,
mummia di strega
Fiel d’ebreo che Dio rinnega
Ed ancor fegato di becco
E d’un tasso il ramo secco
Che eclissandosi la luna
Colto fu nell’aria bruna;
Naso d’uomo di Turchia
Labbra d’un di tartaria
Di un fanciullo il tronco dito
In un fosso partorito
E strozzato ancora in fascia
Da una squallida bagascia:
Tutto questo addensa
E aggruma
La miscela che bolle e spuma
Ma di un tigre la vetraia
Scenda ancor nella caldaia.

Tutte:
Dai e ridai, rimesta e attizza
Bolle il brodo e il fuoco guizza.

II Strega:
Con del sangue di babbuino
Fredda il brodo sopraffino
Ecate loro regina entrando
Così le elogia.
Molto bene! Di voi
Non mi lagno,
Ed ognuno
O ne avrà il guadagno.
Adesso qui attorno cantate
Al par di folletti e di fate
Ed ogni ingrediente
Ammaliate.

E NEL RESTO D’ITALIA…
In Italia, alberi di noce altrettanto efficaci per esplicare simili attività se ne trovano pure in alcune località dell’Umbria, della Toscana, delle Marche e a Todi, per esempio.Per non parlare poi della Sicilia dove ognuno d questi alberi era considerato “luogo di gradito convegno e natural fermata delle streghe”.
Sembrava li preferissero proprio perché evocavano nel loro nome il significato di nuocere.
Questo, a tal punto che il piantar noci veniva considerato di così cattivo augurio da lasciarlo sempre alle persone più anziane. Ricredeva infatti che, non appena il fusto avesse raggiunto il diametro della persona che l’aveva piantato, questa sarebbe morta subito.
Altrettanto nocivo era inoltre considerato l’addormentarsi all’ombra delle sue foglie.
Chiunque l’avesse fatto, si legge in “Leggende popolari Siciliane” di Salomone Marino poteva risvegliarsi malato o deforme.

“Lassativi li nuci a li agari,
nun cci fati rizzettu né violu;
la scapolasti a Dio nni laudati,
quanto nni sacciu morti
e stroppiati!”

Traduzione:
Lasciate i noci alle streghe
Non vi ci fermate o passate
Sotto se l’avete scampata
Ringraziate Dio,
quanti ne sono morti
e storpiati.

Inoltre, di non minore diabolicità venivano considerati i mezzi con cui si credeva che le streghe potessero raggiungere questi loro terribili luoghi di raccolta.
La tradizione napoletana riportata dal Bonomo ci riferisce,ad esempio, che erano in grado di farlo addirittura volando:

“…a cavallo a ‘no caprio
e chi a ‘no porco, chi portata da ‘n urzo e chi
da ‘n uorco”

Traduzione:
A cavallo di un caprone e chi
Di un porco,
chi portata da un orso e chi
d un porco.

GLI OGGETTI MAGICI
Facevano parte di questo magico armamentario persino panche, madie, sgabelli, secchi per attingere l’acqua.
Molto affidabili e sicuri erano pure fusi, conocchie, bastoni biforcuti, manici di scope che per il loro evidente simbolismo fallico ben si addicevano a cerimonie intrise di sessualità.
Per volare “ut fulgur sufflando” (veloci come una folgore) si diceva, invece, dovessero cospargersi il corpo di viscidi unguenti in cui tutt’altro che secondario era l’uso di sostanze vegetali dall’effetto altamente narcotizzante. 

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