Vicissitudine e libertà

Alla rivelazione dell’infinità dell’universo si accompagna il progetto di un rinnovamento etico – politico che non risparmia religioni e istituzioni.
Il legame tra etica, cosmologia e ontologia è ribadito nelle pagine dell’epistola esplicatoria ( a Sir Philip Sidney) dello Spaccio de la belva trionfante (1584), volte a presentare “gli ordinati e numerati semi della moral filosofia”:
In tutto uno infinito e sustanza sono le nature particolari infinite e innumerabili [..] che come in sustanza, essenza e natura sono uno: cossì per raggion del numero che subentrano, incorreno innumerabili vicissetudini e specie di moto e mutazione.
Dal De la causa e dal De l’infinito sappiamo che vicissitudine e moto non sono propri né dell'”uno infinito ente” né dell’infinito Universo considerato nella sua totalità; nell’Epistola dello Spaccio leggiamo che ciascuna delle “nature particolari” si trova a essere quel determinato individuo che è “per differenza che nascono dalle contrarietadi, le quali tutte si riducono ad una originale e prima, che è primo principio di tutte l’altre, che sono efficienti prossimi d’ogni mangiamento e vicissitudine”. Nel dispiegarsi della contrarietà si attua la vita nella sua multiformità infinita, irriducibile alla mera ripetitività di individui, mondi e destini: “il nascimento, l’aumento e la perfezione di quanto veggiamo, è da contrarii, per contrarii, né contrarii, a contrarii”, sicchè solo “dove è la contrarietà, è l’azione e reazione, è il moto, è la diversità, è la moltitudine, è l’ordine, son gli gradi, è la successione, è la vicissetudine”. Ma qui sta anche la radice prima dell’individuale libertà e responsabilità, la possibilità dunque del peccato e della redenzione, di “ascenso” e “discenso”, secondo un ritmo (la vicissitudine) che non può aver strutturalmente fine.
Si comprende così la centralità assunta nello Spaccio dall’analisi dell’esplicazione dei contrari a scapito della loro coincidenza nell’unità della sostanza tematizzata nel De la causa . Libertà e responsabilità presuppongono la consapevolezza che la “sustanza spirituale”, in quanto principio efficiente e informativo, sia “quella sustanza che è veramente l’uomo, e non accidente che deriva dalla composizione”. Nella prospettiva del De la causa non vi era spazio per affermare il primato di quel “lume che siede nella specola, gaggia o poppa della nostra anima”; neppure la cosmologia del DE l’infinito contemplava un qualche privilegio per l’umano, dal momento che la mutazione vicissitudinale investiva allo stesso modo ogni cosa, costituendone la legge universale di determinazione e di sviluppo”.
Nello Spaccio, invece, sarebbe un errore ricondurre l’individuazione bruniana dell’efficiente (cioè dell’anima), come principio della libertà e della responsabilità specifiche dell’uomo, al quadro delle tradizionali forme di umanesimo antropocentrico. Essa risponde invece all’esigenza di intrecciare vicissitudine e giustizia, fortuna e provvidenza, ordine umano e ordine cosmico, al fine di rendere possibile quell’armonia e quella comunicazione tra i differenti piani dell’essere (divino, naturale, umano) che rappresentano le condizioni di ogni autentica renovatio.
Non a caso lo Spaccio insiste sull’unicità e irripetibilità di ciascun individuo:”andiamo e non torniamo medesimi; e come non avemo memoria di quel che eravamo, prima che fussemo in questo essere, così non possemo aver saggio di quel che saremo poi”. La stessa dottrina della metempsicosi, prefigurata nell’Epistola esplicatoria e fondata sul predominio dell’anima su corpo, trova qui un limite intrinseco, dal momento che neanche la “sustanza spirituale” può “esser eternamente con medesimi temperamenti, perpetuando la medesima fila, e conservando quegli ordini stessi”. Certo, si potrebbero ricordare i versetti dell’Ecclesiaste (1, 9 – 11) che Bruno scriverà nel registro dell’Università di Wittenberg: “Ciò che è stato sarà / e ciò che si è fatto si rifarà; / non c’è niente di nuovo sotto il sole”. Il che vala dal punto di vista di Dio e dell’universo; non da quello del singolo e del tempo, come ribadirà nel proprio epitaffio John Toland (1670 -1722), il freethinker ammiratore dello Spaccio: “Lo Spirito si ricongiunge con il Padre eterno / dal quale un tempo si era distaccato; /e anche il corpo, cedendo alla natura ritorna al grembo materno/Egli dovrà risorgere per l’eternità/ ma non sarà ami più lo stesso Toland”.
Avulsa da una simile concezione dell’individuo, risulterebbe incomprensibile la critica di Bruno a qualsiasi forma di artificiosa uguaglianza, che non ammetta distinzione di sorte e di destini, nonché a qualsivoglia privilegio “del sangue, de la nobilitade, dè titoli, dè ricchezza”, che non rispetti le differenze per dignità e virtù. All’una e all’altro il Noalno oppone la giustizia, basata sul riconoscimento dei meriti e delle colep di ciascuno. Gli dei “non minacciano castigo e prometteno premio, per male o bene che risulta in essi: ma per quello che viene ad essere commesso negli popoli e civile conversazioni, alle quali hanno soccorso con le loro divine non bastandogli le umane leggi e statuti” Donate dagli dei o “finte”dagli uomini, le leggi mirano al “comodo” dell’umana vita., “e per ciò che alcuni non veggono il frutto de lor meriti in quella vita, però gli vien promesso e posto avanti gli occhi de l’altra vita il bene e il male, premio e castigo, secondo lor opre”. Premio e castigo non sono, dunque, “accidenti” vani e fortuiti, né “grazie” o “dannazioni” concesse agli umani da un Dio imperscrutabile, prescindere dalle loro opere o, addirittura, prima che operino. Piuttosto, spetta loro il compito di salvaguardare la comunità umana, senza distinguere tra principi e sudditi, servi e padroni. In quest’ottica va letta l’autodifesa della Fortuna accusata dagli altri dei d’esser cieca:

Alla mia giustizia conviene essere tale: alla vera giustizia non conviene, non quadra anzi ripugna et oltraggia l’opra degli occhi. Gli occhi son fatti per distinguere e conoscere le differenze [..]: io sono una giustizia che non ho da distinguere, non ho da far differenze; ma come tutti sono principalmente, realmente e finalmente uno ente, una cosa medesima [..], cossì ho da ponere tutti in certa equalità, stiamo tutti parimente, aver ogni cosa per uno, e non esser più pronta a riguardare, a chiamar uno che un altro: e non esser più disposta a donar che a uno ad un altro, et essere inclinata al prossimo che al lontano.
Benché contribuisca all’equilibrio del “convitto umano”, la Fortuna non può oltrepassare la soglia dell’astratta uguaglianza e garantire l’autentica giustizia, ai fini della quale conta quanto sta dentro “l’urna”, ossia il merito di chi vien scelto. Del resto, la Fortuna è la prima a conoscere i limiti della propria azione e ad attribuire agli altri dei la responsabilità di ogni “inegualità” e “inequitade”. È qui che per la “conversazione umana” si annida il pericolo della crisi. Ma anche la possibilità del rinnovamento, per il quale sono necessarie virtù nuove, capaci di scacciare vizi antichi.
Tra queste Bruno indica la Fatica che invita a prendere “la Fortuna pè capelli” e ad affrettare “il corso della sua ruota”, ficcandogli, quando le sembra bene, “il chiodo, acciò non scorra”. Eppoi, la Sollecitudine, che scaccia “ogni torpore, ogni ocio, ogni negligenza”; lo Zelo, che evita si tentino “cose indegne di nume da bene”, la Sagacia, che impedisce di ritirarsi “da le cose incerte e dubie” e aiuta a “menar gli passi per vie distanti da le stanze de al fortuna”; la Fortezza che “farà che dove importa l’onore; l’utilità pubblica, la dignità e perfezzion del proprio essere, la cura delle divine leggi e naturali, ivi non ti smuovi per terrori che minacciano la morte”; nonché la Dissimulazione, “di cui talvolta sogliono servirsi anco gli dei: perché talora per fuggir invidia, biasimo e oltraggio, con gli vestimenti di costei la prudenza suole occultar la verità”.
Non è difficile intravedere nella riforma delle virtù presentata dallo Spaccio una sorta di autobiografia morale e intellettuale, in cui il Nolano sembra dar conto degli atteggiamenti tenuti a Oxford e Londra; e si sarebbe quasi tentati di leggervi la giustificazione in anticipo della linea di condotta del processo, a Venezia e a Roma. Riprendendo il tema, caro a Machiavelli, della contesa fra virtù e fortuna, Bruno insiste sul potere del “virtuoso”, che è in grado di incidere sulla propria sorte, ma soltanto perché gli dei hanno dato l’intelletto e le mani. L’umana “facoltà sopra gli animali” consiste

Non solo in poter operare secondo la natura et ordinario, ma et oltre fuori le leggi di quella: acciò (formando o tossendo formare altre nature, altri corsi,altri ordini con l’ingegno, con quella libertade senza la quale non avrebbe detta similitudine) venesse ad serbarsi dio de la terra. Quella certa quando verrà ad essere ociosa, sarà frustrata e vana, come indarno è l’occhio che non vede, e mano che non apprende. E per questo ha determinato la provvidenza che venga occupato ne l’azzione per mani, e contemplazione per intelletto; de maniera che non contemple senza azione, e non opre senza contemplazione.
L’esercizio congiunto dell’intelletto e della mano consente l’istituzione della civiltà, allontanando l’uomo dall’essere bestiale e avvicinandolo all’essere divino. È solo nella prassi che si realizza quella possibilità di libertà e di giustizia che contraddistingue l’umana avventura.. Possibilità, però, non assoluta, poiché, essendo finito, l’uomo non può ami decidere interamente del suo destino; ma può, nella sua pur finita libertà, scegliere di agire e di “ascendere” verso Dio, in cui coincidono fortuna e provvidenza (giustizia e vicissitudine); oppure, non scegliere e “discendere” verso la “bestialità”, rinunciando alla sapienza per l’ignoranza, alla fatica per l’ozio.
Certo, la via per la giustizia e la civiltà è difficile e tortuosa, passa per “ingiustizie e malizie”. Non c’è da meravigliarsene:” se gli bovi e scimmie avessero tanta virtù e tanto ingegno quanto gli uomini, arrebono le medesime apprensioni, gli medesimi afferri, e gli medesimi vizii”. Occorre semmai riconoscere che chi non sceglie non è né vizioso né virtuoso, assomigliando piuttosto a quel “maschio, porcino, il quale per stupidità e durezza di complessione avien che di rado e con poco senso venga sollecitato da la libidine”. Né basta sottrarsi al vizio per raggiungere la virtù, giacchè molta è la differenza tra “il non esser vizioso e l’esser virtuoso”.

IL NUOVO MONDO ANTICO
Nella controversia tra fatica e ozio è dunque quest’ultimo che nello Spaccio ha la peggio. Prendendosela con i poeti che hanno tessuto le lodi della mitica aurea età dei fannulloni, il Nolano non risparmia “tanti vani versificatori ch’al dispetto del mondo si volgiono passar per poeti, tanti scrittori di fabole, tanti nuovi rapportatori d’istorie, mille volta da mille altri a mille doppia meglioramente referite”. Ma la famiglia dei pedani oziosi è ancora più ampia:

-Lascio gli alegbristi, quadratori di circoli, figurasti, metodici, riformatori de dialectiche, instauratori d’ortografia, contemplatori de la vita e de la morte, veri postiglioni del paradiso, novi condottier di vita eterna nuovamente corretta e ristampata con molte utilissime addizioni, buoni nuncii di meglior pane, di meglior carne e vino, che non posso esser il greco di Soma, malvagia di Candia et asprinio di Nola.
E’ noto come lo Spaccio, non diversamente dalla Cena, sia un dialogo nel dialogo: Sofia (la saggezza umana) riferisce a Saulino (ennesima maschera del Nolano, come traspare dal riferimento al cognome materno) il concilio degli dei olimpi ove Giove propone la sua riforma dei segni del cielo. Ebbene, nell’Epistola esplicatoria Bruno avvisa che quel cielo epurato da “Giove governatore” or in accordo ora in disaccordo con le altre divinità, e di cui anche discutono Sofia e Saulino, è lo scenario di cui la nuova filosofia naturale ha mostrato la vanità. Eppure
-questo mondo tolto secondo l’imaginazione de stolti matematici, et accettato da non più saggi fisici, tra quali gli Peripatetici son più vani, non senza frutto presente: prima diviso con intante sfere, e poi distinto in circa quarant’otto imagini (nella quali intendono primamente partito un cielo ottavo, stellifero, detto da volgari “firmamento”), viene ad essere principio e soggetto del nostro lavoro.
E’ solo perché quanto esposto nello Spaccio va tenuto “tutto per detto indefinitamente” che Bruno situa su tale scena il suo “teatro e campo de le virtudi e vizii”. Nel carattere aperto del repertorio mitologico e nella stessa natura di tentativo dello Spaccio si collocano i vari livelli di comprensione della parola bruniana. Il mito- pagano o cristiano che sia- ritorna ad essere un “detto”vero, in tanto in quanto adombra quella verità il cui diretto splendore forse accecherebbe; comunque sia, consente di dire quel che altrimenti (per vincoli ontologici o politici) resterebbe indicibile.
Alla luce della forzatura che la morale dello Spaccio opera nel tentativo di riaprire (dopo la decadenza) la via alla virtù e al merito individuali, si comprende come il velo mitologico a un tempo celi ed esprima la polemica bruniana contro il Cristianesimo, e in particolare contro la dottrina dei Riformati. Primo obiettivo è il De servo arbitrio di Lutero, con cui il Nolano ingaggia un serrato corpo a corpo, rovesciandone uno dopo l’altro i capisaldi. A partire dall’idea di iustitia sola fide che ai suoi occhi appare come l’esatto contrario del concetto di giustizia universale:

– i peccatori interiori solamente denno esser giudicati peccati, per quel che mettono o metter possono in eggetto esteriore; e le giustizie interiori mai sono giustizie senza la pratica esterna, come le piante in vano sono piante senza frutti o in presenza o in aspettazione.
Sacrificando il merito all”indifferente” grazia, che per Bruno assume i tratti della Fortuna cieca e traditrice, e la virtù all’ozio, che rivela la mancanza di ogni principio di moralità (giacchè nell'”età de l’oro per l’ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le bestie”), i Riformati hanno assicurato agli uomini che:
Non so qual giustizia d’un altro è fatta giustizia loro propria: dalla qual purità e giustizia per questo solo vegnano esclusi, che per sassini, rapine, violenze et omicidi ch’abbiano fatti, si sgomentino, e per elemenosine, atti di liberalitale , misericordia e giustizia si confideno, si attribuiscano e sperino punto.
Invece di portare ordine, armonia e pace, tale “giustizia” ha alimentato disordine, divisione, guerra e distruzione, nelle famiglie, negli Stati, nell’europa tutta:
siamo dovenuti a tale (chi mai avrì ossuto credere, che questo fusse possibile?), che quella che deve essere stimata massime religione la quale per minimo e vile, e per errore abbia l’azzione et atto di buone operazioni: dicendo alcuni che di quelle non si curano gli Dei, e per quelle, quantunque sieno grandi, non sono gli uomini giusti.
Lutero Calvino rappresentano per Bruno il segno più tangibile della decadenza e della crisi del tempo, dell’invecchiamento del mondo. Sono loro gli angeli nocentes che avendo infranto il legame tra giustizia divina e giustizia naturale provocano il lamento di Ermete:
Le tenebre si preponeranno alla luce, la morte sarà giudicata più utile che la vita, nessuno alzerà gli occhi al cielo, il religioso sarà stimato insano, l’empio sarà giudicato prudente, il furioso forte, il pessimo buono. E credetemi che ancora sarà definita pena capitale a colui che s’applicarà alla religion della mente: perché si troveranno nove giustizie, nuove leggi, nulla si troverà di santo, nulla di religioso; non si udirà cosa degna di cielo o di celesti. Solo angeli perniciosi rimarranno, lì quali meschiati con gli uomini forzeranno gli miseri all’audacia di ogni male, come fusse giustizia, donando materia a guerra, rapine, frodi, e tutte altre cose alla anima e giustizia naturale: e questa sarà la vecchiaia et il disordine e la irreligione del mondo.
Tuttavia, nell’ineludibile vicissitudine del tempo, nemmeno questa condizione di bestialità e barbarie è definitiva:
Ma non dubitare, Asclepio, perché dopo che saranno accadute queste cose, all’ora il signore e padre, Dio governatore del mondo, l’onnipotente provveditore, per diluvio d’acqua, o di fuoco, di morbi, o di pestilenze, o altri ministri della sua giustizia misericordiosa, senza dubbio donarà fine a cotal macchia, richiamando il mondo all’antico volto.
Il ciclo ebraico-cristiano, che trova nella Riforma il suo compimento, è giunto alla fine. Quel mondo ormai irrimediabilmente “vecchio” deve cedere il passo a uno “giovane”, nuovo e antico insieme. Questo è per Bruno il senso celato nella profezia contenuta nel Lamento ermetico, di cui la versione offerta nello Spaccio non rappresenta, come a lungo si è creduto, una semplice traduzione, bensì un’originale riattualizzazione, non priva di varianti decisive, incentrate, non a caso, sul termine “giustizia” e a volte a definire il senso dell’autentica renovatio. Quest’ultima non ha i tratti dell’Apocalisse cristiana, e nemmeno di quella ermetica; né può essere letta come rifiuto di ogni forma di religione, poiché, al contrario, presuppone il recupero della religio nella sua originaria eccezione, la riscoperta della sua funzione civile, sul fondamento di un concetto di giustizia capace di rimettere in comunicazione l’umano con il divino.
Non c’è dubbio che Bruno faccia qui propria la lezione del Machiavelli dei Discorsi. Ma, a differenza di quest’ultimo. Egli guarda, oltre e ancor più che alla religione “civile” dei Romani, alla religione “naturale” degli Egizi. Non si fraintenda il richiamo dell’antico volto del mondo: la riforma è per il Nolano un semplice ritorno al passato; né può esserlo, dal momento che nella ruota del tempo nulla torna uguale. Piuttosto, la religione egizia diviene l’archetipo della filosofia bruniana:

Conoscevano què savii Dio essere nelle cose, e la divinità, latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche con certi ordini venir a far parte di sé, dico de l’essere, della vita et intelletto: e però con gli medesimamente diversi ordini si disponevano alla recepzion de tanti e tali doni, quali e quanti bramavano. Quindi per la vittoria libavano a Giove magnanimo nell’aquila, dove secondo tale tributo è ascosa la divinità: per la prudenza nelle operazioni a Giove sagace libavano nel serpente; contra la produzione a Giove minace nel crocodillo; cossì per altri innumerevoli fini libavano in altre specie innumerevoli. Il che tutto non si faceva senza magica et efficientissima ragione.
Non sfugga il riferimento alla “magica ragione”: nello Spaccio comincia a delinearsi quello scenario che connoterà le opere finali del Nolano, in cui la magia svolgerà un ruolo fondamentale. Essa non è altro che
Quella sapienza e giudizio, quella arte, industria et uso di lume intellettuale, che da sole intelligibile a certi tempi più et a certi tempi meno, quando massima e quando minimamente viene rivelato al mondo. Il quale abito si chiama Magia: e questa per quanto versa in principii sopra naturali, è divina; e quanto che versa circa la contemplazion della natura e perscrutazione si suoi secreti, è naturale; ed è detta mezzana e matematica in quanto che consiste circa le ragioni et atti de l’anima che è nell’orizzonte del corporale e spirituale, spirituale et intellettuale.
Ciò spiega l’attenzione che Bruno dedica alle tecniche usate dagli Egizi per comunicare con le divinità. Certo, di quella religione non sono rimaste che “favole ancor incredibili”, e non pochi beffeggiano del quel “magico e divino culto” in cui venivano adorati “crocodrilli, galli, cipolle e rape”. Ma per il Nolano sono quelli che irridono a essere “stolti e insensati idolatri” poiché non hanno compreso che gli Egizi adorano “gli Dei e le divinità in crocodilli, galli e altri” e che
In tutte le cose et in tutti gli effetti secondo le proprie ragioni di ciascuno contemplavano la divinità; e sapevano per mezzo delle specie che sono nel grembo della natura ricevere que’ beneficii che desideravano da quella; la quale come dal mare e fiumi dona i pesci, da gli deserti gli salvatici animali, da le miniere gli metalli, da gli arbori le poma: cossì da certe parti, da certi animali, da certe bestie, da certe piante porgono certe sorti, virtudi, fortune et impressioni.
La grandezza degli Egizi risiede nella loro capacità di conoscere le forme infinite in cui si comunica la divinità, di coglierne l’esplicarsi senza fine attraverso specie e figure innumerabili, al di fuori di ordini stabiliti una volta per tutte:
Vedi dunque come una semplice divinità che si trova in tutte le cose, una feconda madre natura madre conservatrice de l’universo, secondo che diversamente si comunica, riluce in diversi soggetti, e prende diversi nomi; vedi come a quell’una diversamente bisogna ascendere per la partecipazione de diversi doni: altrimenti in vano si tenta comprendere l’acqua con le reti, e pescar i pesci con la pala.
Le “favole” dell’Egitto offrono così al Nolano la possibilità di restituire un’idea generale di religio e di civiltà che è diametralmente opposta a quella cristiana, in particolare di matrice luterana. Incentrata sul principio secondo cui Natura est deus in rebus, la religio degli Egizi appare infatti a Bruno naturale e civile insieme, costituendo il modello in mone del quale finalmente attuare lo “spaccio” della “bestia” cristiana, il cui “trionfo” sul piano storico è lordo del sangue versato nelle guerre fratricide che diliananol’Europa. Dietro la maschera egiziana del Nolano si scorgono i volti sia di Machiavelli che lanciava i suoi strali contro i profeti, armati e disarmati, sia dell’Erasmo, che difendeva il valore delle opere e la rilevanza dell’impegno politico contro la concezione della salvezza di tipo luterano. Non a caso Bruno conclude la sua morale con l’elogio di Enrico III, “Re cristianissimo, santo, religioso e puro”, che “ama la pace, conserva quanto si può tranquillitade e devozione il suo popolo diletto”, detestando “gli rumori, strepiti e fragori d’instrumenti marziali, che administrano al cieco acquisto d’instabili tirannie e principati de la terra”, e ammirando soltanto “le giustizie e santitadi che mostrano il diritto cammino al regno eterno”
LO SPECCHIO DELL’ASINO
La pubblicazione dello Speccio rinsalda l’immagine di un Bruno ateo e senza alcuna fede, e ciò accrescerà nel Nolano quel senso di impotenza e di isolamento sperimentato a suo tempo negli scontri con i dottori di Oxford la consapevolezza dell’ennesimo fallimento lo spinge a ribaltare l’apertura delle pagine fnali dello Spaccio nella chiusura radicale e definitiva della Cabala. In questa “operetta” riprendendo motivi dell’erasmiano Elogio della follia, Bruno pronuncia un elogio, “vero” e “serioso”, dell’ “asino et asinitade” che, a prima vista, si configura come una sorta di controcanto delle virtù celebrate nello Spaccio. Nel Sonetto in lode de l’Asino che segue l’Epistola dedicatoria rivolta a un immaginario Don Salatino, leggiamo:

O sant’asinità, santa ignoranza
Santa stolcizia e pia devozione,
qual sola puoi far l’anime si buone,
ch’umano ingegno e studio non l’avanza;
non giunge faticosa vigilanza
d’arte qualunque sia, o ‘nvenzione,
né de sofossi contemplazione,
al ciel dove t’edifichi la stanza.
Chi vi val curiosi il studiare,
voler saper quel che fa la natura,
e gli astri son pur terra, fuoco e mare?
La santa asinità di ciò non si cura;
ma con mani gionte e n’ginocchion vuol stare
aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura,
eccetto il frutto de l’eterna requie
la qual ne done Dio dopo l’essequie.

Con un preciso rovesciamento tematico rispetto allo Spaccio, la fatica, l’arte e l’invenzione devono dunque cedere il passo all’ignoranza, alla stoltezza, alla pia devozione; né c’è più spazio per la “sapienza de sapienti, e la prudenza de prudenti?”. Si celebrano “quelli ch’han formata la religione, gli cerimoni, la legge la regola di vita”, mentre si condannan “quelli con empia curiosità vanno o pur mai andaro perseguitando gli arcani della natura, computaro le vicissitudini de le stelle”.
La scienza viene ripudiata in nome della fede, la giustizia è sacrificata alla grazia, la civiltà all’aurea età della bestiale innocenza, e il discorso alla follia. Sicchè l’uomo sembra poter trovare salvezza, non nella conoscenza e nell'”opre, quantumque grandi”, bensì soltanto all’asinità:
Non è, non è (dico) miglior specchio messo davanti agli occhi umani che l’asinitade et asino: il qual più esplicatamente secondo tutti gli numeri dimostre qual esser debba colui, che faticandosi nella vigna del Signore debba aspettar la retribuzione del danaro diurno, il gusto della beatifica cena, il riposo che segue il corso di questa transitoria vita. Non è conformità migliore o simile che ne amene, guide e conduca alla salute eterna più attamente che far possa questa sapienza approvata dalla divina voce: come per il contrario non è cosa che ne faccia impiombar al centro et al barbareo tartareo, che le filosofie e le razionali contemplazioni, quali nascono da gli sensi, crescono nella facoltà discorsiva e si maturano nell’intelletto umano.
Con uno sguardo più attento, il lettore comprende come quello specchio della condizione umana finisca per rovesciarsi nel suo contrario, fornendo a Bruno lo strumento per una critica radicale di tutte le varianti dell’asinità cristiana, di ascendenza romana o riformata che siano. Così, Onorio, che si ricorda d’esser stato asino ed “aver portato la soma”, dichiara (nel miglior spirito della filosofia nolana) non solo che “nel geno della materia corporale” è “indifferente il corpo dell’uomo da quel de l’asino, et il corpo de gli animali dal corpo di cose stimate senz’anima”, ma anche che “nel geno della materia spirituale”, è “indifferente l’anima asinina da l’umana, è l’anima che costituisce gli detti animali da quella che si trova in tutte le cose”. In altri termini, l’anima umana sarebbe “medesima in essenza specifica e generica con quella de le mosche, ostriche marine e piante”; analogamente, non vi sarebbe corpo che “non abbia o più p meno vivace e perfettamente communicazion, di spirito in se stesso”. E’ solo per il fato o provvidenza che un tal spirito “viene a giungersi ora ad una specie di corpo, ora ad un’altra”, sicchè se “si trovasse che d’un serpente il capo si formasse in figura d’una testa umana, et il busto crescesse in tanta qualità quanta può contenersinel periodo di cotal specie”, e se inoltre “gli si allargasse la lingua, ampliassero le spalli, ramificassero le braccia e mani, et a lungo dove è la terminata coda, andassero a ingeminarsi le gambe”, non si potrebbe fare di notare che egli “intenderebbe,apparirebbe, spirerebbe, oprarebbe e camminerebbe” non diversamente da un uomo, poiché “non sarebbe altro che uomo”. Di contro, “l’uomo non sarebbe altro che serpente” se venisse a contrarre “come dentro un ceppo le braccia e le gambe, e l’osse tutte concorressero alla formazione d’una spina, si incolubrasse e prendesse tutte quelle figure de membre et abiti de complessioni”. Poiché dalla specie asinina dipendono “non solamente gli asini, ma e gli uomini e le stelle e gli mondi e egli mondani animali”, per Bruno l’asinità finisce per rappresentare il fondamento dell’unità spirituale e materiale di tutti gli esseri animati o meno, trasformandosi al contempo nel principio costitutivo della vicissitudine universale, scandita dal ritmo della “metamfisicos”, dell “trasformazione”, della “transcorporazione”. Non a caso il parere asinino d’Onorio vien avvicinato a quel “profetico dogma” che dice:
il tutto essere in mano dell’universale efficiente come la medesima luta in mano del medesimo figulo, che con la ruota di questa vertigine degli astri vien a essere fatto e disfatto secondo le vicissitudini della generazione e corrozione delle cose, or vase onorato, or vase contumelioso di medesima pezza
Il termine “figolo” (vasaio), ripreso più volte da Bruno, aveva assunto un ruolo centrale nella polemica tra Erasmo e Lutero sul libero arbitrio, in riferimento ad alcuni passi biblici, quale per esempio Geremia 18,6 : “Oracolo del Signore. Ecco: come la ceta nella mani del vasaio, così voi siete nella mia mano, o casa di Israele”. Ma nella Cbala- in cui il primato del principio spirituale e la specificità della responsabilità umana rivendicati dallo Spaccio vengono integralmente riassorbiti nella ruota delle mutazioni- il problema del libero arbitrio, nei termini posti dalla condanna radicale dell’intero Cristianesimo. La possibilità di una libertà, e dunque di una civiltà, per l’essere umano è radicata in quella corporeità che, se da un lato è indifferente nel “geno della materia corporale”, dall’altro rappresenta, nella sua esplicazione, l’autentico principio di individuazione:
molti animali possono aver ingegno e molto maggior lume d’intelletto che l’uomo; ma per penuria d’istrumenti gli viene ad essere inferiore, come quello per ricchezza e dono di medesimi gli è tanto superiore. E che ciò sia la verità, considera un poco al sottile, et esamina entro te stesso quel che sarebbe se posto che l’uomo avesse al doppio d’ingegno che non have, e l’intelletto agente gli splendesse tanto più chiaro che non gli splende, e con tutto ciò le mani gli venisser trasformate in forma de doi piedi, rimanendogli tutto l’altro nel suo ordinario intiero: dimmi dove potrebbe insituirsi e durar le famiglie et unioni di costoro parimente o più che de cavalli, cervi, porci? E per famiglie et unioni di costoro le istituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le concrezioni de cittadini, le strutture de gli edificii, et altre cose assai che significano la grandezza et eccellenza umana, e fanno l’uomo trionfator versamente invitto sopra l’altra specie? Tutto questo, se oculatamente guardi, si riferisce non tanto principalmente al dettato de l’ingegno, quando a quello della mano, organo de gli organi.
Nel Cantus Circe privava l’uomo della mano, trasformandolo in bestia, perché non infrangesse l’ordine del mondo; nello Spaccio, al contrario, era la possibilità di trascendere l’ordine naturale a consentire all’uomo di “serbarsi dio de la terra”; e a tal fine occorreva che alla mano si aggiungesse l’intelletto. Di una simile aggiunta la Cabala non ha bisogno: celebra la sola mano come “organo de gli organi”, come strumento precipuo di libertà e civiltà. Ed è tramite la rivendicazione di questa impurità della ragione, del carattere cioè essenzialmente pratico dell’ingegno, che Bruno giunge a una radicalizzazione della critica dell’asinità cristiana. Il suo elogiodella mano suona, infatti, come replica diretta all’apologia dell’udito (ex auditu fides) fatta dagli “asini” cristianai, da Paolo di Tarso a Martin Lutero:
Fermaro i passi, piegaro o dismesero le braccia, chiusero gli occhi, bandiro ogni propria attenzione e studio, riprovaro qualsivoglia uman pensiero, riniegaro ogni sentimento naturale: et infine si tennero asini; e quei che non erano, si trasformarono in questo animale; alzaro, distesero, acuminaro, ingrossaro e magnificorno l’orecchie; e tutte le potenze dell’anima riportarono et uniro nell’udire, come ascoltare solamente e credere. Là concentradosi e cattivandosi la vegetativa, sensitiva et intellettiva facultade, hanno inceppate le cinque dita in un’unghia. Perché non potessero come l’Adamo stender le mani ad apprender il frutto vetato della scienza, per cui venissero a esser privi de frutti de l’arbore de la vita.
Solo se riarticola le dita e dispiega con la mano tutte le facoltà dell’anima, l’uomo può riaffermare la propria grandezza ed eccellenza, rinnovare vita e scienza, dar corpo a quella libertà che è l’autentica responsabile della costruzione di ogni civiltà e al cui possibilità è negata ab origine dall’asinità cristiana. Per dirla con una battuta di Cristiane de Duve, premio Nobel per la medicina (1974), “gli ingeneri vengon prima dei filosofi” e (soprattutto) dei “teologi”. La sublime inutilità di questi ultimi, nel gioco di specchi che attraversa l’intera Cabala e in cui si riflettono i multiformi volti dell’essere asinino (quello cristiano, ma anche quelli di filosofie come l’aristotelica o la scettica), fa per così dire toccar con mano come l’asinità si riveli condizione della decadenza. A differenza che nello Spaccio (almeno a una prima lettura), questa non rappresenta più un tratto distintivo della Riforma (in particolare dell’esperienza luterana), ma investe l’intera vicenda cristiana. Bruno si stacca anche dall’insegnamento di uno dei suoi più grandi maestri, Erasmo; alla tesi, cara all’umanista degli Antibarbari, di una riforma della Chiesa basata sul ritorno della pura lezione evangelica e alla follia della Croce, replica che è proprio in quelle origini che si radica il germe asinino della decadenza universale. 

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