Un Frate Domenichino Scellerato

Nella fine il principio: Filippo, poi Giordano, sconterà sul rogo i “peccati” di una vita d conflitto e coesistenza con le diverse forme di potere…
Di Roma, lì 19 Febbraio 1600. Giovedì mattina in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scellerato frate domenicano da Nola, di che si scrisse con le passate: eretico ostinatissimo, et avendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro nostra fede, et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi, volse ostinatamente morire in quelli lo scelerato; et diceva che moriva martire et volentieri, e che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso. Ma hora egli se ne avede se diceva verità. Stando al resoconto di Gaspar Schopp (Gaspare Scioppio), presente alla proclamazione della sentenza e al rogo di Campo de’ Fiori, Bruno “volse il viso pieno di disprezzo quando, ormai morente, gli venne posta innanzi l’immagine di Cristo crocifisso. Così morì bruciato miseramente, credo per annunciare altri mondi immaginati dalla sua fantasia in che modo gli empi e i blasfemi sono convenientemente trattati a Roma “. Diversamente dai redattori dell’Avviso del 19 febbraio, Schopp mostra d’essere informato circa le “assurdità orribili” sostenute da Bruno nei suoi scritti:
che i mondi sono innumerabili; che l’anima può passare da un corpo all’altro; che un’anima può informare due corpi ; che la magia è una cosa buona e lecita; che lo Spirito Santo altro non è che l’anima del mondo e che questo intendesse Mosè quando scrisse che lo Spirito riscaldava le acque; che il mondo è dell’eternità; che Mosè compì miracoli grazie all’arte magica nella quale fece più progressi che gli altri Egizii, che lui scrisse le sue leggi; che le sacre Scritture sono un sogno; che il diavolo cerrà salvato; che solo gli ebrei hanno origine da Adamo ed Eva mentre tutti gli altri dai due che Dio aveva creato il giorno prima; che Cristo non è Dio ma che fu invece un mago esperto e che per questo fu giustamente impiccato e non crocifisso; che i profeti e gli apostoli furono uomini dissoluti, dei maghi, e che la maggior parte di quelli fu impiccata.
Capi d’accusa a parte, la tragica fine di Bruno, in cui sembra concentrarsi e risolversi l’intero suo destino, doveva largamente contribuire alla genesi di un mito tra i più profondi della coscienza europea. L’esaltazione dello “scelerato frate Domenichino” come martire del libero pensiero, come uomo “d’ogni legge nemico, e d’ogni fede” 8per riprendere il verso d’Ariosto che era solito recitare ai compagni nel carcere di Venezia), l’attenzione crescente per il suo pensiero faranno del Nolano una delle figure più presenti nella storia della cultura europea. Come ebbe a scrivere (1889) Felice Tocco, “di esposizioni della filosofia del Bruno non è penuria”: da “panteista” precursore di Baruch Spinosa (1770-1831) a “teista” o “seminteista”, se non addirittura “filosofo monista e naturalista”, un darwiniano prima di Darwin (1809-1882), “ve n’ha per tutti i gusti”.
Il successo postumo dell’opera e della figura di Bruno, non deve far dimenticare il silenzio che circondò all’epoca la sua fine. Galileo Galilei (1564-1642) non disse parola, nel timore “forse) d’essere avviato al medesimo cammino, e ne venne rimproverato da un Keplero turbato dalla sorte sfortunata del Nolano. Nei decenni successivi, per quanto alcuni libri di Bruno fossero letti e le sue tesi dibattute, il velo calato sulla sua dipartita non venne squarciato, al punto che, nel suo Dictionnaire (1695-1697), Pierre Bayle (1647-1707) arriverà a dubitare del rogo (“Non si sa alcun modo dopo ottant’anni se un domenicano è stato bruciato a Roma, sulla pubblica piazza, per le sue posizioni blasfeme”, aggiungendo che “non c’è grande distanza in questi casi fra l’incertezza e la falsità”), guadagnandosi l’ironia dell’irlandese John Toland (1670-1722), per il quale i dubbi dello scettico francese mostravano come “dalla morte il Giordano non si ricavasse nulla a favore dello spirito pirroniano” e come non dovesse essere prestata fede all’autorità di alcun mortale, senza le dovute prove provate, dal momento che anche l’ottimo Bayle conduce in errore”.
Ancora nella seconda metà dell’Ottocento, in piena “brunomania”, Teofile Desdouits sosterrà (1885) che la testimonianza di Schopp era un falso e che il Nolano aveva consumato la fine dei suoi giorni a Roma, in un convento domenicano, quasi a rimuovere, insieme alla tragica morte, la radicalità della bruniana nova filosofia.
Nel momento in cui Bruno viene condannato nessuno sembra riconoscersi nelle sue idee: egli non è né luterano né calvinista, semmai, per dirla ancora con le parole di Schopp, una sentina di tutti gli errori dei filosofi pagani, di tutti gli eretici, antichi e moderni. Inviso agli aristotelici custodi della tradizione, è guardato con sospetto anche dai nuovi filosofi della natura. Prima che la sua morte, la solitudine riguarda la sua vita, un lungo peregrinare per l’Europa, “zimbello di fortuna”, fuggiasco, privo di favori, “premuto dall’odio della folla”. Bruno stesso ne ha dato una spiegazione d’ordine filosofico, individuando nell’ostilità verso la sua persona e i frutti della sua filosofia la sorte propria di ogni messaggero inviato dagli dei a illuminare l’umanità dopo secoli di tenebre. Nella Cena de le Ceneri (1584) si era raffigurato come quello c’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatto svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime et altre che vi s’avesse potute aggiongere sfere per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari. Cossì al cospetto d’ogni senso e raggione, co la chiave di solertissima inquisizione aperti què chiostri de la verità che da noi aprir si possano, nudata la ricoperta e velata natura: ha donato gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli ochi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli si opponeno. Sciolta la lingua a muti, che non sapevano e non ardivano esplicar gl’intricati sentimenti; riscaldati i zoppi che non valean far quel progresso con spirito, che non può far l’ignobile e dissolubile composto: le rende non men presenti che si fussero proprii abitatori del sole, de la luna, et altri nomati astri.

Già nel Candelaio (1582) si era mostrato consapevole dell’inevitabile condanna alla solitudine:
L’autore, si voi lo conosceste, dirreste ch’ave una fisionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il più lo vedrete fastidio, restio e bizzarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d’ottant’anni, fantastico com’un cane ch’ha ricevuto mille spellicciate, pasciuto di cipolla.
E che tale condizione rappresenti la possibilità stessa della ricerca, non venendo mai a tradursi in mera arte della fuga, appare chiaro dal ritratto che il Nolano offre di sé nel più tardo (1591) De monade:
Non è un disonore l’esser vinto, se ti sei dimostrato valoroso nella lotta. Come disse quel gallo:”Al termine della vita, non ingloriosamente mi addentro nelle tenebre: sebbene mi sia toccato di soccombere nel primo combattimento, per me è sufficiente questo: sono caduto in battaglia; ho messo a confronto la mia forza; la molle vecchiaia mi ha consegnato, pigro per l’età, alla morte tra le galline. Ho combattuto, è già molto: ho creduto di poter vincere (ma alle membra venne negata la forza dell’animo), e la sorte e la natura hanno represso ogni velleità e ogni sforzo. È già qualcosa l’essersi cimentati: la vittoria, mi sembra, è nelle mani del fato; per quel che mi riguarda ho fatto il possibile e ciò che mi appartiene non lo potranno negare né i secoli futuri né ciò che tocca al vincitore”.
I “secoli futuri” dovevano dimostrare come l’originale lezione di Bruno avesse di fatto segnato la nascita e lo sviluppo della modernità. Per molti versi, le linee dominanti della nostra cultura sono risultate altre rispetto a quelle tracciate dal Nolano; per esempio, la sua concezione della scienza non coincide con quella dei grandi indagatori della natura di inizio Seicento, e a fortori con quella attuale. Ciò non toglie che Bruno abbia esercitato un’incidenza profonda su una pluralità di piani: propugnatore di un Universo “senza muraglie”, il Nolano rappresenta, oltre l’Umanesimo e dopo la Rivoluzione scientifica, un termine di confronto ineludibile. Al di là di miti, vecchi e nuovi.
FILIPPO, POI GIORDANO
“Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città di Nola, vicina a Napoli dodici miglia, nato et allevato in quella città, et la professione mia è stata et è di littere et d’ogni scientia”. Così risponde agli inquisitori veneti nel costituto del 26 maggio 1592. prima d’indossare l’abito di chierico nel convento di San Domenico Maggiore a Napoli (1565), di nome Filippo. Nato a Nola nel 1548, in un sobborgo alle pendici del Monte Cicala, figlio di Giovanni, di professione soldato, e di Fraulissa Savolina, Bruno presto abbandona la “piccola patria” per recarsi a Napoli, “a imparare littere de umanità, logica et dialettica”. Qui ho occasione di ascoltare “le lettioni pubbliche d’uno che si chiamava il Sarnese”e di “sentir privatamente la logica di un padre augustiniano, chiamato fra Teofilo da Vairano”.
Dal primo maestro, oltre al giovanile aristotelismo in seguito ripudiato (“gli Peripatetici, nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù”), il Nolano trae un orientamento antiumanistico e antifilologico che costituirà uno degli assi portanti della sua filosofia; più difficile, invece, determinare l’influenza del Vairano. In una conversazione avuta a Parigi nel 1585 con Guillame Cotin, Bruno lo ricorderà come “le principal maystre [..]en philosophie”.Che nei dialoghi cosmologici sia affidato a un personaggio di nome Teofilo il compito di sostenere le posizioni del Nolano sembra confermare l’importanza del magistero del Vairano, il quale, in virtù del suo ordine di appartenenza, potrebbe aver avviato il discepolo alla lettura dell’opera di Agostino( 354 – 430), nonché allo studio della tradizione neoplatonica.
È a Napoli che Bruno entra in contatto, grazie agli scritti di Pietro Rivenante, con una tematica, l’ars memoriae, che si sarebbe presto rivelata presto decisiva e la cui importanza verrà ribadita ad anni di distanza (1583) nell’Explicatio triginta sigillorum:

Questo fu il principio che mi spinse a ricercare i principi dell’arte di ricordare. Potei conoscerlo, ancora ragazzo, dagli scritti di Pietro di Ravenna. Fu questa la piccola scintilla che divampando con una profonda riflessione appiccò il vasto incendio, dalle cui fiamme ardenti si spargono in ogni direzione innumerevoli faville.
A prescindere dalle varie interpretazioni, non c’è dubbio che le arti della memoria svolgano il loro ruolo nella filosofia di Bruno: non solo per ciò che significano dal punto di vista ontologico (dal punto di vista, cioè, del rapporto tra ordo rerum e ordo idearum, tra immagini mnemoniche e struttura del mondo, che si configura in termini di rispettiva specularità), ma perché in esse sfocia quella che è la sua originaria vocazione operativa, quella tensione alla praxis destinata a scandire la riflessione dal De umbris idearum (1582) sino alle opere magiche degli ultimi anni.
Nel giugno del 1565 Bruno entra in convento. Quali fossero le ragioni non è dato sapere; né egli sarà troppo esplicito con gli inquisitori veneti:”de 14 anni, o 15 incirca pigliai l’abito de San Domenico in Napoli; e fui vestito da un padre, che era allora prior de quel convento, nominato maestro Ambrosio Pasqua; e finito l’anno della pronazione, fui ammesso da lui medesimo alla professione”. A dire il vero, quando veste l’abito di novizio domenicano Bruno ha passato i diciassette anni. Può darsi che si fosse convinto che quella fosse l’unica via per proseguire gli studi, il che sembra trovare conferma nella testimonianza resa agli Inquisitori da Francesco Graziano, per il quale il Nolano si sarebbe fatto frate “con occasione che sentì disputare a San Domenico in Napoli, e così disse che quelli erano dij della terra”.
Ma quando entra in convento, più che dalle preoccupazioni della teologia, Bruno appare animato dalle sollecitazioni della filosofia, che considererà sempre la sua vera “professione” e che sin dall’inizio lo terrà distante dal Cattolicesimo tradizionale, orientandolo al cristocentrismo di Erasmo da Rotterdam (1469 – 1536) prima e all’eresia antintrinitaria di Ario (256 – 336) poi. Stando alle parole del citato Graziano, Bruno “si vantava che da putto cominciò a essere nemico de la fede catholica, e che non poteva vedere l’imagine dè Santi, ma che vedea bene quella di Cristo, e poi se ne cominciò a distor anco di quella”.
Nel 1565 – 1566 l’allora maestro dei novizi, Eugenio Gagliardo, preparò una scrittura contro di lui perché, come dirà Bruno agli Inquisitori veneti, “io avevo dato via alcune immagine dè santi [..] e retenuto solamente un Crocifisso; e perché avevo detto a un novizio che leggeva la Istoria delle Sette Allegrezze della Madonna , che cosa voleva legger quel libro, che era meglio che leggesse la Vita dei Santi Padri o altro libro”. Non era certo un invito innocente quello che Giordano rivolgeva ai confratelli: il Capitolo generale dell’Ordine domenicano (1569) aveva infatti vietato la lettura dei testi di Erasmo. Tuttavia, Gagliardo strappò la scrittura che aveva preparato, consentendo così al Nolano di riprendere il suo curriculum. Consacrato sacerdote nel 1572, dopo un breve periodo trascorso in altri conventi, assegnato infine a San Domenico Maggiore come “studente formale” di teologia, Bruno supera nel 1575 gli esami di licenza.
È tuttavia imminente una nuova tempesta. Discorrendo con i confratelli, Giordano non manca di sollevare dubbi circa la Trinità: alla fine del 1575 viene istruito nei suoi confronti un processo per eresia. Agli Inquisitori veneti bruno dirà di non sapersi immaginare “De che articuli mi processassero, se non è che, raggionando un giorno con Mont’Alcino, che era un frate del nostro ordine, lombardo in presentia de alcuni altri padri, et dicendo egli che questi eretici erano ignoranti et che non avevano termini scholastici, diss’io che si bene non procedevano nelle loro dichiarazioni scholasticamente, che dichiaravano però la loro intenzione commodamente et come facevano li padri antichi della Santa Chiesa, dando l’essempio della forma dell’heresie d’Ario, ch[e] gli scholastici dicono che intendeva la generatione del Figlio per atto di natura e non di volontà; il che medesimo si può dire con termini altro che scholastici , rifferiti da Sant’Agustino, cioè che non è di medesma substantia il Figliulo et il Padre, et che proceda come le creature dalla volontà sua. Onde saltarno quelli padri con dire che io deffendevo li heretici et che volevo che fossero dotti.”

QUEL DUBBIO AVEVA LUNGA STORIA
Parlando christianamente et secondo la theologia et che ogni fidel christiano et catholico deve creder, ho in effetto dubitato circa il nome di persona del Figliulo et del Spiritu santo, non intendendo queste due persone distinte dal padre se non nella maniera che ho detto de sopra parlando filosoficamente, et assignando l’intelletto del Padre per il Figliulo et l’amore per il Spirito santo, senza conoscer questo nome persona, che appresso sant’Agustino è dichiarato nome non antico, ma novo et di suo tempo; et questa opinione l’ho tenuta da disciotto anni della mia età sino adesso.
La lezione di Erasmo e quella di Ario dovevano portare il Nolano più lontano di quanto temevano i suoi confratelli: se incommensurabile è la distanza tra finito e infinito, tra ente e accidente, tra uomo e Dio, quale mediazione può mai darsi tra tali nature? Consapevole dei rischi cui stava andando incontro, nel febbraio del 1576 Bruno abbandona in fretta e furia Naploi, riparando a Roma, presso il convento di Santa Maria sopra Minerva. Ma anche qui la situazione prende una brutta piega: a torto accusato di “aver gettato in Tevere chi l’accusò o chi credette lui che l’avesse accusato a l’inquisizione”, è costretto a lasciare la città. È l’inizio di una pressoché interminabile peregrinatio: da Noli ( in Liguria) a Torino, da Venezia a Padova, da Brescia a Bergamo (dove riprende l’abito su consiglio di alcuni confratelli), da Milano di nuovo a Torino; infine, attraverso Chambery, a Ginevra.
Nella città di Calvino è accolto dal marchese Galeazzo Caracciolo e dai suoi amici, che gli trovano lavoro come correttore di bozze. L’esperienza ginevrina è, però, destinata a segnare negativamente il suo giudizio sulla Riforma. Di fronte agli inquisitori veneti il Nolano ricorderà come, appena giunto a Ginevra, gli venisse chiesto:

chi ero et se era andato lì per fermarmi e per professar la religione di quella città. [..] doppo che hebbi dato conto di me e della causa perché ero uscito dalla religione, soggiunsi ch’io non intendevo professar quella di essa città, perché non sapevo che religione fosse; et che per ciò desideravo più presto de star lì per viver in libertà et di esser sicuro, che per altro fine.
La testimonianza resa agli Inquisitori lascia sfumare, comprensibilmente, il fatto che a Ginevra Bruno aveva in realtà aderito al Calvinismo, foss’anche per mere ragioni di convenienza. Ciò non lo tiene lontano dai guai: pubblica un opuscoletto in cui elenca gli errori (venti, addirittura) fatti in una sola lezione dal titolare della cattedra di filosofia, Anthoyne de la Faye; non pago, bolla come pedagogues i ministri della Chiesa, accusandoli di fatto di non saper vivere nella fede di Cristo. A Ginevra chi offendeva o criticava ministri, governatori o magistrati (quali erano appunto i lettori dell’Accademia), rischiava perlomeno il carcere. Il 6 agosto 1579 Bruno venne arrestato e condannato a distruggere il “libel diffamatorio”; condotto il 13 agosto nel Concistoro, viene “sospeso dalla Cena” finchè non riconoscerà le sue colpe, cosa che il Nolano fa dopo debole resistenza. Il 27 dello stesso mese riammesso alla cena del Signore.
Non è difficile immaginare quanto gli sia costata simile umiliazione. Ma in questo caso, così’ come avverrà più tardi a Venezia, a Bruno preme soprattutto di chiudere la faccenda il prima possibile, così da riguadagnare libertà d’azione: allo scopo, si avvale, programmaticamente, della dissimulazione, nella quale individua una strategia lecita, almeno fin quando non entrino in gioco ragioni filosofiche di fondo (la stessa adesione al Calvinismo, del resto, parrebbe discendere da una tattica analoga); né l’indifferenza alle problematiche strettamente teologiche gli impedisce di cogliere il valore della religione dal punto di vista della vita associata. Ma è proprio sotto questo profilo che quella riformata gli appare ormai religione di pedanti e di pedagoghi, perciò peggiore della versione cattolico – romana. Pur convincendosi sempre più che “questo mondo non poteva durar così, perché non v’era se non ignoranza, e niuna religione che fosse buona”, e che “presto il mondo avrebbe veduta una riforma generale di se stesso”, Bruno resterà comunque persuaso che il Cattolicesimo sia migliore delle altre varianti del Cristianesimo, anche se “avea ancora bisogno di gran regole”. A differenza della religione dei pedanti e dei pedagoghi, esso riconosce quel valore del merito individuale senza il quale il “convitto umano” decade, fino a dissolversi…

RAIMONDO LULLO (Appendice)
“La sola logica è l’arte della memoria. Non si dà mnemotecnica al di fuori della logica. E pare che di ciò si sia accorto Raimondo Lullo che, nel suo opuscolo De auditu kabbalistico, scrisse queste parole: “Il metodo vien costituito non solo per l’esercizio dell’umano intelletto, ma anche perché fornisca un rimedio alla dimenticanza”.
In queste parole di J.D.Alsted (1588 – 1638, in Sistema mnemonicum duplex, Francoforte, 1610) risuona tutto il fascino del lullismo, particolarmente seducente per i dotti rinascimentali miranti a un sistema unitario del sapere. Ma già alla morte del catalano Ramon Lul (Palma di Majorca, 1235 – 1315) si erano costituiti a Parigi e a Montpellier, e poi a Valencia, gruppi di seguaci, fra i quali spiccava Tomas le Myesier, il quale nell’Electorimu Remundi (1325) doveva applicare le “regole di Raimondo” alla cosmologia.
Per tutto il Trecento a Lullo dovevano venire attribuite svariate opere di alchimia, astrologia e magia, al punto da provocare (1390) la reazione della facoltà di filosofia di Parigi che finì con vietare l’insegnamento del lullismo, senza peraltro riuscire a bloccarne l’impetuosa diffusione. In realtà Lullo – detto anche Doctor Illuminatus – aveva consacrato la propria esistenza alla conversione degli infedeli, dopo aver abbandonato (1263) la vita mondana in seguito a una crisi religiosa. Convinto che tanto la logica quanto l’arabo fossero strumenti essenziali per il suo programma di ricerca, aveva fondato nel 1276 il Collegio di Miramar (grazie all’appoggio del re di Majorca, Giacomo II) per formare missionari veramente capaci di operare nei paesi dell’Islam. Lui stesso si era dato a viaggiare in Asia e in Africa, salvo insegnare in varie università della Christianitas , come Parigi, Monpellier e Napoli. In particolare, nella capitale francese doveva ricevere il titolo di Magister Artium; gli fu invece rifiutato il titolo di maestro in Teologia, in quanto era stato sposato e non aveva ricevuto gli ordini sacri.
Terziario francescano nel 1292, né il Papa, né le università, lo appoggiano nella sua opera missionaria, che riceve qualcosa di più che una semplice approvazione verbale solo dal monarca francese Filippo il Bello, che favorirà la sua idea di creare collegi per lo studio delle lingue orientali, ma si mostrerà ben meno entusiasta all’esortazione lulliana di una nuova crociata in Terrasanta. Secondo una tradizione che sconfina nella leggenda, Lullo avrebbe intrapreso un’ultima missione in Africa solo per rischiare di venire lapidato dai locali ed essere imbarcato su una nave genovese ove avrebbe finito i suoi giorni, vittima della sua ricorrente ossessione che era quella di far accettare la verità rivelata a tutti coloro che fossero disposti a procedere al mero livello dell’indagine e della discussione razionali. A questo scopo, il catalano aveva concepito la sua Ars compendiosa inveniendi veritatem 81273 – 12749, nota anche come Ars maior (per distinguerla da una Ars brevis, 1308). Il nucleo del programma lulliano è una tipica combinatoria: come appare nella figura il cerchio dell’Universo viene diviso in nove settori cui corrispondono nove “dignità” contrassegnate da nove lettere dell’alfabeto (B,C,D,E,F,G,H,I,K); formando “parole” con queste lettere – ed eventualmente utilizzando più di un diagramma – l’artista può così conoscere e ricordare le cose del mondo secondo modalità tipicamente algoritmiche.
Come ha osservato Paolo Rossi nel suo Clavis universalis, “la scomposizione dei concetti composti in nozioni semplici e irriducibili; l’impiego di lettere e di simboli per indicare le nozioni semplici; la meccanizzazione della combinazioni tra i concetti operata per mezzo delle figure mobili; l’idea di un linguaggio artificiale e perfetto ( superiore al linguaggio comune e a quello delle singole scienze); la identificazione dell’arte con una specie di meccanismo concettuale che, una volta costruito, è assolutamente indipendente dal soggetto [..] hanno fatto sì che storici insigni[..]abbiano avvicinato – e non erroneamente – la combinatoria [lulliana] alla moderna logica formale”.

ELOGIO DELL’OMBRA
Lasciata Ginevra, dopo un breve soggiorno a Lione, Bruno arriva a Tolosa dove insegna privatamente filosofia e astronomia (” fui invitato a legger a diversi scolari la Sfera”, ossia il De sphaera mundi del Sacrobosco). Conseguito il titolo di magister artium, per circa venti mesi tiene pubbliche lezioni dul De anima di Aristotele. Nell’estate-autunno del 1581, per l’acuirsi dei contrasti tra cattolici e ugonotti (i calvinisti francesi), si trasferisce a Parigi, dove, come dichiarerà agli Inquisitori veneti: me messi a legger una lettino straordinaria per farmi conoscer et far saggio di me; et lessi trenta lettioni et pigliai per materia trenta attributi divini, tolti da Santo Thoma dalla prima parte; et doppoi essendo stà ricercato a pigliar una lettione ordinaria, restai e non volsi accettarla, perché i lettori pubblici di essa città vanno ordinariamente a messa et alli altri divini officii. Et io ho sempre fuggito questo, sapendo che ero scomunicato per esser uscito dalla religione et haver deposto l’habito.

Nella capitale del “Re cristianissimo” sembra aver trovato la pace e il riconoscimento a lungo cercati. Con l’appoggio di Enrico III riesce a coronare un vecchio sogno, venendo a far parte dei lecteurs royaux, i quali, operando fuori della Sorbona, erano in polemica con il conformismo aristotelico cui quella situazione continuava ad attenersi. La situazione, del resto, è propizia. Al Louvre l’Acadèmie du Palais ospita dibattiti su giustizia politica e pace religiosa, ispirandosi alle tesi dei politiques, per i quali anche là dove è coinvolta la religio il miglior giudice è il re, sicchè sono da respingere tanto l’obbedienza quanto il “Vangelo armato” predicato dalla fazione ugonotta: “uomini sediziosi” sono per il grande poeta Pierre de Ronsard (1524-1585) i padri della riforma, Lutero, Zwingli, Calvino. E’ in questo ambiente che Bruno, come ricorderà agli inquisitori veneti, ha trovato il suo ruolo:
Acquistai nome tale che il re Henrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che avevo et che professava era naturale o pur per arte magica: al qual diedi sodisfattione: et con quello che li dissi et feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per scientia. Et doppo questo feci stampar un libro de memoria sotto titolo De umbris idearum, il qual dedicai a Sua Maestà; et co questa occasione mi fece lettor straordinario et provvisionato; et seguitai a legger, come ho detto, forsi cinqu’anni , che per li tumulti che nacquero dopo, pigliai licentia et con littere dell’istesso Re andai in Inghilterra.
Ed è sempre a Parigi che il lettore reale pubblica l’Ars memoriae, il De compendiosa architectura et complemento Artis Lullij, il Cactus circaeus, nonché la commedia Il Candelaio. “Libro de memoria”, che per le sue argomentazioni non è affatto accessibile a tutti, il De umbris trascende il tradizionale orizzonte mnemotecnica iscrivendo l’eredità lulliana nel quadro di una prospettiva imperniata su fondamenti generali che ne hanno l’archetipo dello stesso pensiero bruniano”. Affiorano qui il tema ermetico (svolto in chiave autobiografica) dei “mercuri” inviati a tempi stabiliti dagli dei, il motivo della vicissitudine universale, abbozzi di cosmologia, nonché la consapevolezza della possibilità per la filosofia di proseguire più vie (e più lessici) a patto che tutti siano in grado di portare alla verità: ogni volta che i termini usati dai platonici risulteranno utili e risulterà utile il loro modo di procedere, li accetteremo senza timore di incorrere in una giusta accusa di contraddizione.. Se poi anche il modo di procedere proprio dei peripatetici risulterà vantaggioso per una più chiara espressione dell’argomento, lo si riporterà fedelmente. Alo stesso modo si giudichi riguardo agli altri indirizzi filosofici. Non troviamo, infatti, un unico artigiano che procuri tutto quanto è necessario a un’unica arte. Voglio dire, non è lo stesso artigiano che fonde e forgia l’elmo, lo scudo, la spada, le aste, i vessilli, il tamburo, la tromba e tutti gli armamenti del soldato. Ugualmente, anche a quanti cercano di compiere opere maggiori movendo da ritrovati originali non sarà sufficiente l’officina del solo Platone o del solo Aristotele: se poi noi sembreremo usare (anche se ciò accade raramente) dei termini non consueti, certamente lo facciamo perché con essi vogliamo esprimere dei contenuti non consueti.
Anzitutto, il De umbris rivela il carattere strutturalmente “umbratile” della conoscenza umana, connettendolo strettamente a quella sproporzione tra finito e infinito, che il Nolano aveva cominciato a scoprire nel chiuso del convento svolgendo in chiave filosofica il nodo teologico dell’antitrinitarismo. L’opera è divisa in due parti: nella prima (più generale) si analizzano le idee in rapporto alle ombre e in se stesse; nella seconda (più sintetica) si sviluppa un’arte della memoria. Fin dall’inizio, Bruno insiste sullo scarto tra uomo e Dio: come può accadere che ciò il cui essere non è propriamente il vero e la cui essenza non è propriamente la verità, abbia ugualmente atto ed efficacia di verità? Per lui è sufficiente, e anche molto, sedersi all’ombra del bene e del vero. Non dico all’ombra del vero e del bene naturale e razionale [..], ma del vero e del bene metafisico, ideale e soprasostanziale.
Dio non può avere idee al di fuori di sé; gli esseri umani, invece, debbono ricercarle al di fuori e al di sopra, giacchè non ne posseggono che le “ombre”. In altre parole, non possono conoscere direttamente la verità. Le ombre delle idee possono essere pensate e ricordate solo in quanto rivestite di forme sensibili adeguate alle possibilità conoscitive di creature limitate. “Siamo un’ombra profonda”, scrive Bruno parafrasando Orazio; nel De la causa, principio et uno ribadirà (1584) che “non possiamo conoscere nulla, se non per modo di vestigio, come dicono i platonici, di remoto effetto, come dicono i peripatetici, di indumenti come dicono i cabalisti, di spalli o posteriori, come dicono i thalmuthisti, di specchio, ombra ed enigma, come dicono gli apocaliptici”. Né luce né tenebra, distinte da entrambe in quanto “traccia di luce nella tenebra” o “traccia di tenebra nella luce”, le ombre consentono di cogliere l’unità della realtà e gli intimi legami di cui è permeata, mostrando come in ciò stia il fondamento della conoscenza di ogni cosa: “uno solo è lo splendore della bellezza in tutte le cose”, “un solo fulgore luccica nella moltitudine della specie”. Vengono così meno le gerarchie della metafisica tradizionale. Polemizzando con Platone, il quale “non stabilì idee delle singole cose”, e facendo sua la lezione di quei teologi che asserivano che “Dio è causa totale e per quanto attiene alla materia e per quanto attiene alla forma”, Bruno afferma che “esistono idee di tutte le cose”: “da ogni cosa concepibile possiamo ascendere fino a queste stesse idee”, dal momento che “di tutte le cose formiamo le ombre ideali”.
Il motivo dell’ombra non inciderà soltanto sul piano gnoseologico, ma definirà strutturalmente anche quello ontologico e quello cosmologico. Così, nei dialoghi italiani verrà precisata la differenza tra Dio (luce) e Universo (ombra), mostrando come l’infinità dell’Universo – ombra sia effetto e testimonianza dell’infinità divina, al punto che si potrebbe dire che senza fondamento “umbratile” la concezione dei mondi innumerabili e dell’Universo infinito apparirebbe inconcepibile. Sempre l’umbratilità sarà alla base del rifiuto bruniano di attribuire all’uomo un qualsiasi primato ontologico sulla scena del mondo: accidente finito, come la pietra o la pianta, è iscritto nel ciclo della mutazione vicissitudinale, scandita dal ritmo incessante della vita e della morte, u ritmo che tocca qualunque ente che” è quel che può essere,ma non è tutto quel che può essere”, mai la sostanza, l’ente infinito, Dio.
Infine, è all’interno di questo quadro che il Nolano individuerà sul piano etico il limite specifico dell’uomo, da cui germinano da un alto l'”eroico furore”, dall’altro la possibilità stessa delle nostre civiltà.

PORCI E CANDELE
Se nel De umbris viene prefigurata una vera e propria metafisica dell’ombra, nel Cactus appare centrale la tematica etica, imperniata sulla riflessione, avviata fin dagli anni napoletani, sui caratteri della crisi e della decadenza degli ordini del mondo. Il testo è diviso in due dialoghi: quello tra Circe e l’ancella Meri e quello tra Alberico e Borista. Mentre i secondo dialogo offre una versione sintetica dell’ars memoriae del De umbris e corrispondente all’Ars reminescendi ripubblicata (1583) con alcuni tagli in Inghilterra, il primo si apre con il lamento con cui Circe denuncia il caos che travolge consorzio umano e natura tutta: Dove sono le leggi che per diritto governano le cose?Dov’ è il lecito, e dove l’illecito per la natura[..] Ecco che siamo caduti in potere di un Chaos nient’affatto occulto.. Perché i mari non si mescolano ai fuochi, gli astri lucenti alle terre nere, se nelle terre stesse e in chi le governa non c’è niente che mostri chiaro il proprio aspetto? Non è forse la stessa madre natura che ci inganna? Madre, avrei dovuto definirla, oppure matrigna?

Si è dunque incrinato il rapporto tra essere e apparire, anima e corpo.”Sotto una scorza umana sono celati animi ferini. Conviene forse che un’anima bestiale abiti un corpo d’uomo come se questo fosse una dimora cieca e ingannevole?”. Spetta allora a Circe strappare “da ciascun individuo di specie bestiali le sembianza umane”, sicchè “questi esseri si mostrino nelle loro figure esteriori e veritiere”. Quella della maga dell’Odissea e delle Metamorfosi è una vera e propria riforma degli “ordini” umani e naturali, intesa a restituire l’armonia tra ciò che è e ciò che appare. Privati delle armi (la lingua e la mano) con cui avevano spezzato le leggi naturali, schiudendo lo spazio dell’inganno e della frode, gli uomini – bestie vengono rimodellati a seconda della loro effettiva natura. L’incantesimo di Circe permette così di comprendere quale tipo di uomo si celi sotto le diverse forme animalesche: Per cominciare ricercheremo il vestigio dei porci che hanno preso a fuggire verso la casa: certo avresti potuto scorgerne la presenza sotto la scorza umana molto più facilmente di ogni altro animale.[..] Il porco infatti è un animale A. avaro, B. barbaro, C. coperto di fango, D. duro, E. errante qua e là, G. goloso, H. ha un debole senno, K. Cocciuto, L.lascivo, M. molesto, N. non è buono a nulla, O. ocioso, P. pertinace, Q. querulo, R. rude, S. stolto, T. turgido, V. vile, X. Lunatico, Y. Auricolato, Z. volubile (non si dice buono se non quando è morto)
Su questo passo Giovanni Mocenigo richiamerà l’attenzione degli Inquisitori veneti, testimoniando (due anni dopo la prima denuncia) che il Nolano gli aveva detto: ch’in certo suo libretto intitolato Cactus circeus […] haveva avuta intenzione di parlare di tutte le dignità ecclesiastiche, e che per la figura del porco haveva voluto intendere il pontefice, e che per questo l’haveva in termine d’honore rappresentato con un cerchio pieno di epiteti, [..] e così di mano in mano applicando altre figure all’altre dignità dè sacerdoti, come in legendo il libro con avvertenza s’intende facilmente con questo lume, ch’egli diede, e me lo diede, e me lo disse mentre stanzava in casa mia, con occasione che io li dicevo ch’aveva fatto male a fare le sue opere così oscure; né vi fu alcuno presente, e mentre ciò diceva, rideva quanto più poteva.
Per quanto pretestuosa posa sembrare tale lettura, non è un caso che Bruno, nel rievocare di fronte agli Inquisitori l’esperienza parigina, si guardi dal menzionare il Cantus. Né è casuale il suo silenzio sul Candelaio e non solo per il linguaggio osceno che domina la commedia, per il registro della beffa e dell’inganno tipico della commedia napoletana. Non diversamente dal Cantus ,il Candelaio è segnato dalla consapevolezza dell’asimmetria tra essere e apparire. In un mondo senza legge e senza ordine, in cui si affrontano astuti plebei pronti a ricorrere a ogni trucco per sopravvivere e stolti disposti (per vanità o per cupidigia) a farsi beffare dall’astuzia, il solo a realizzare i propri scopi è Gio. Bernardo ,pittore alter ego di Bruno, l’unico a comprendere la natura “traditora”della fortuna: Tutti gli errori che accadeno, sono per questa fortuna tradetora[..]. Questa che fa onorato chi non merita, dà buon campo a chi nol semina, buon orto a chi nol pianta, molti scudi a chi non le sa prendere, molti figli a chi non può allevarli, buon appetito a chi non sa mangiare, biscotti a chi non ha denti.
Chi non lo capisce è destinato a soccombere. Come capita all'”insipido amante” (Bonifacio), al “sordido avaro” (Bartolomeo) e al “goffo pedante” (Manfurio), i quali non sono che tre aspetti di un’unica crisi (del resto, “l’insipido non è senza goffaria e sordidezza, il sordido è parimenti insipido e goffo, e il goffo non è men sordido che avaro”). Tocca al savio volgere lo sguardo oltre l’apparenza, ritrovando al fondo della disarmonia che sconvolge la vita degli uomini un principio di verità e giustizia. Nel Cantus la riforma di Circe riequilibra il rapporto tra anime e corpi; nel Candelaio la vicissitudine rappresenta la leva che eguaglia ogni umano destino, al di là dei tradimenti della fortuna: “Il tempo tutto toglie e tutto dà”, scrive il Nolano.
E così prosegue, avviando il tema che troverà piena espressione nei dialoghi cosmologici: ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisse, e me si magnifica l’intelletto. Però, qualunque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte; tutto quel ch’è, o o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi. 

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