Tempi duri per i maghi

DIRETTAMENTE PROPORZIONALE ALL’AUMENTO DI INTERESSE VERSO OGNI FORMA DI MAGIA è L’ESTREMO RIGORE CON IL QUALE VENIVANO PUNITI EPISODI CON IL QUALE ESSA ENTRAVA A VARIO TITOLO.
Come si è visto in precedenza,le fonti altomedievali riservavano poco spazio alla magia “alta”, sapienziale, collegata al paganesimo dotto del mondo classico, missionari, vescovi, canonisti e legislatori apparivano piuttosto preoccupati del perdurare, soprattutto nel mondo rurale, di costumi e tradizioni per così dire “popolari”, che nei Poenintentialia venivano puniti con pene assai blande. Ciò che mancava, declinata insieme con l’eclisse della cultura ellenistico – romana, era la consapevolezza tanto filosofica quanto rituale sottesa alla cultura magica “dotta”. È certamente vero che la tradizione dei “maghi” come esperti di un’arte “colta”, lontana dal mondo folclorico e strettamente collegata con la gnosi, era stata presente nella tarda antichità attraverso gli scritti di Tertulliano e di Agostino (ripresi nel VII secolo dall'”enciclopedia” di Isidoro di Siviglia): ma a lungo essa era sembrata una realtà lontana, relegata al passato. La cosiddetta “rinascita” del XII secolo mutò radicalmente questo panorama, comportando anche la crescente diffusione di testi magici, specialmente di stampo astrologico, ricondotti dall’antichità e ravvivati dai testi ebraici e musulmani.
BIANCA E NERA
La complessa società basso – e tardo – medievale non elaborò pareri e comportamenti univoci nei confronti di tali fenomeni. Da una parte, la preoccupazione per la vanitas magicorum era rinverdita da una larga parte del mondo ecclesiastico, con in testa i Domenicani e poi anche i Francescani: ne seguiamo le idee lungo una linea che va idealmente dalle pagine della Leggenda aurea – in cui Jacopo da Varagine, o Varazze, ripropone in chiave antimagica le leggende del mago Cipriano e di Santa Giustina e della contesa fra San Pietro e Simon Mago – sino all’esperienza dei francescani dell’Osservanza, per i quali il magus va accostato ai negromanti e agli astrologi, cioè a color che oggi tendiamo a definire nell’ambito della “magia cerimoniale colta” e in particolare di forme elaborate di divinazione, ovviamente soggette a una condanna ben più dura di quella che toccava alle “superstizioni”.
D’altro canto, lo si è detto, quei secoli conobbero anche una ripresa “in positivo” della figura del magus, con quanto essa sottintendeva. La magia come scienza sperimentale e naturale, purché pura da compromissioni demonolatriche, si appoggiava al vasto consenso di numerosi intellettuali verso la cosiddetta magia “bianca”. È comunque un fatto indubbio che, fra XII e XV secolo, nei confronti della magia in tutte le sue forme interesse e inquietudine fossero atteggiamenti che crescevano di pari passo, insieme alla sollecitudine nel rilevare, perseguire e punire penalmente casi nei quali magia e superstizione paiono entrare a titolo vario.
Dalla fine del trecento e per tutto il secolo successivo, in particolare, due furono i reati connessi con la magia che più interessarono i tribunali : la “negromanzia” e la cosiddetta “stregoneria” (sulla quale torneremo)

L’Arte Necromantica
L’arte necromantica era descritta e classificata già dalle fonti cristiane più antiche. Lattanzio le annoverava tra le attività con le quali il demonio inganna gli uomini. L’episodio dell’evocazione di Samuele, al quel abbiamo già accennato, forniva il prototipo eccellente di ogni operazione necromantica : riferendosi a esso, Agostino si interrogava circa la possibilità di evocare i morti dall’inferno e sulla capacità dei demoni di pronosticare il futuro: secondo l’interpretazione agostiniana del passo biblico, infatti, i demoni non hanno capacità profetiche: tuttavia sono in grado di operare congetture più precise rispetto a quelle umane in virtù della loro maggiore acutezza percettiva, velocità e ricchezza d’esperienza.
E’ invece a Isidoro di Siviglia che si deve la definizione di “necromanzia ” utilizzata- seppur, come vedremo, fraintesa- nei secoli successivi: “I necromanti sono coloro che con i lro incantesimi sembrno in grado di divinare resuscitando i morti e facendoli rispondere alle loro domande”.
Nekròs infatti in greco è “morto” mantèia vuol dire “divinazione”.
Almeno sino al X-XI secolo sembra probabile che si conservasse memoria della corretta etimologia isidoriana.

Ritorno All’Occulto
Tuttavia, in seguito, in assenza di una esatta comprensione del greco, si verificò quel progressivo fraintendimento che condusse il termine “necromanzia “. Tommaso D’Aquino, sbagliando nell’interpretare il passo di Isidoro, scriveva che “nigrum in greco vuol dire “morto”. Nekròs, trasformandosi in nigrum, non comportava solo un mutamento lessicale, ma poneva le basi perché l’ambito magico sul quale si dibatteva assumesse connotati nuovi, che accostavano la “negromanzia” alla cosiddetta “arte notoria”, cioè a quell’insieme di pratiche magiche ritual-cerimoniali della quali si servivano quanti non volevano raggiungere scopi occulti e illeciti. Tommaso la poneva tra le superstitiosae observantiae, reputandola al contempo illecita e inutile. Sostanzialmente simile il parere di Ruggero Bacone, a cui l’arte notoria appariva una inutile truffa.

Preoccupata Denuncia
Se abbandoniamo l’ambito colto in cui si muovevano tanto l’Aquinate quanto Bacone, per rivolgerci a quei predicatori che erano tramite diretto tra la dottrina e il grande pubblico delle piazze tardo medievali, troviamo toni di preoccupata denuncia sull’illiceità di tali pratiche, piuttosto che sulla loro inutilità. Il predicatore domenicano Jacopo Passivanti, richiamandosi esplicitamente a San Tommaso, affermava “ch’è interdetta e vietata come gli altri libri magici e diabolici; imperò che contiene caratteri e figure dè patti taciti fatti col diavolo, col quale non è lecito d’avere patto o convegna o compagnia o amistà alcuna. Anche prova San Tommaso che quella arte notoria non ha efficacia veruna.

I POTERI DI RE SALOMONE
Ma di quali strumenti si servivano i “negromanti” ( o “negromanti”), di cosa era fatta la loro arte?Se è vero che le testimonianze in negativo sono forse prevalenti, è comunque possibile identificarne certi caratteri di fondo a partire da alcuni libri che venivano usati dagli stessi “maghi”. Fra questi, i più celebri sono quelli che si riteneva tramandassero notizie sui presunti poteri magici del re Salomone. Al leggendario sovrano si attribuiva infatti la stesura di parecchi testi magici, come il cosiddetto Testamentum Salomonis,che descrive i demoni principali e il modo per sottometterli al proprio volere; abbiamo notizia anche di un Liber Salomonis , bruciato nel 1350 su ordine di papa Innocenzo VI. Nel suo Speculum astronomiae Alberto Magno ne ricordava numerosi, al gran parte dei quali non è giunta sino a noi.
La Clavicola Salomonis era forse il più noto di tutti: la copia manoscritta più antica, in greco, risalente al XII – XIII secolo, è oggi conservata presso il British Museum di Londra. Ne esistono tuttavia numerose varianti, molte delle quali pubblicate a stampa nei secoli successivi. L’origine sembra esser stata prevalentemente ebraica, con interpolazioni greco – egiziane, e più in generale orientali, e solo remotamente cristiane.
Le preghiere devote a Dio si accompagnavano a un’accentuazione della necessità per l’officiante il rito di requisiti di castità, digiuno e nitore; tuttavia al finalità appariva tutt’altro che devota, essendo sovente rivolta a procurarsi mezzi magici per seminare morte, discordia e distruzione. L’appello ai demoni perché conferiscano volontà e potere si accompagna in modo blasfemo ai richiami – attraverso preghiere e formule – ai profeti dell’Antico Testamento e allo stesso Dio, chiamati a maledire i demoni, al fine di costringerli a obbedire alla volontà dell’evocatore.

IL LAGO DI PILATO
Le leggende magiche non riguardavano solo particolari individui, come nel caso di Virgilio, ma potevano legarsi a luoghi fisici. È il caso della sinistra fama, attestata con certezza nei secoli tardi del Medioevo, del Lago di Pilato, situato sui Monti Sibillini non lontano da Norcia: la reputazione demoniaca del lago, nata forse sulla base di una leggenda che voleva che voleva vi fosse stato gettato il corpo maledetto di Ponzio Pilato – leggende simili, comunque, erano riferite anche per altri laghi d’Europa -, attirava a quanto pare numerosi negromanti, che consacravano i loro libri di magia nelle acque. Le prime testimonianze, all’incirca della metà del secolo XIV, ci vengono dal Reductorium morale di Pietro Bersuire e dal Dittamondo di Fazio degli Uberti. Già in questo periodo, preoccupati per il continuo arrivo di questi oscuri praticanti, gli abitanti del luogo avevano chiuso l’accesso al lago con alte mura. Ma il pellegrinaggio continuava e andava anzi intensificandosi, come testimoniano nel secolo successivo prima il viaggiatore francese Antoine de la Sale, poi BIondo Flavio e infine – nel 1498 – il frate francescano osservante Bernardino di Bonavoglia. Benvenuto Cellini, nella sua autobiografia, ricorda la figura di un “mago” che l’avrebbe introdotto ai misteri di questo luogo.
Alla fama del lagosi aggiungeva anche quella del cosiddetto antro della Sibilla, una grotta che avrebbe fornito l’accesso a un regno incantato, popolato di splendide fate che in realtà celavano la loro natura demoniaca. Ne parlano ampiamente – fra gli altri – soprattutto il La Sale e, soprattutto Andrea da Barberino nel suo celebre Guerrin Meschino. Anche se questa leggenda non sembra aver avuto un forte nesso con le pratiche di necromanzia che avevano luogo presso le sponde del lago, essa rimane interessante per comprendere il composito mondo “magico” della fine del medioevo, in quanto al suo interno si mescolano inestricabilmente temi folclorici locali insieme a motivi letterari di importazione oltralpina, e forse di lontana origine celtico germanica.

LO SPECCHIO DI VIRGILIO MAGO
Per il periodo tra XIV e XV secolo gli studi più recenti mostrano la diffusione nella società di rituali di magia “nera”. Oltre alle evocazioni demoniache descritte nei testi attribuiti a Salomone, conosciamo alcune altre tecniche “magiche”.Molto frequente, e diretta alla previsione del futuro, era la divinazione esercitata attraverso l’osservazione delle unghie, della superficie dei bacili pieni d’acqua e degli specchi.
Il servirsi di superfici riflettenti è un uso ampiamente attestato in tutto l’ambito mediterraneo, bel al di là del Medioevo. Una delle leggende su Virgilio mago e necromante, narrava di come egli avesse costruito a Roma un enorme specchio per mezzo del quale vedere ciò che accadeva a grandi distanze e prevedere il futuro. E anche l’uso di spalmare unguenti oleosi sulle unghie – spesso di bambini, in base a un’idea di “purezza” che la giovane età suggerisce – per poi guardare le ombre che vi si formavano e divinare in base a esse, è una tecnica che trovava numerose attestazioni.
L’astrologia non presentava in apparenza le stesse minacciose incognite della magia negromantica.
Tuttavia essa divenne, in modo crescente a partire dal Duecento, un fenomeno preoccupante.

ASTROLOGI AL SERVIZIO DELLA POLITICA
In seno alla Chiesa la tradizione antiastrologica aveva radici lontane. Ma contro di essa, e l’interesse che suscitava, si era espresso chiaramente soprattutto Tommaso d’Aquino, sottolineandone l’incompatibilità con il libero arbitrio; le sue tesi erano state ampiamente accolte in una compagine importante della cultura tardomedievale, qual’era la corrente umanistica che faceva capo a Coluccio Salutati; in particolare, si denunciava la cosiddetta astrologia “catarchica” – che ribaltava il principio generale di quella “genetliaca”, in cui l’uomo è soggetto agli influssi astrali; grazie alla teoria delle electiones( Katarchai), l’astrologo sceglieva il momento più favorevole per compiere un’azione, sottraendosi all’egemonia degli astri -, propugnata fra Tre e Quattrocento da astrologi come Guido Monatti e Pietro d’Abano.
Ma ciò che colpiva non erano tanto le teorie o le applicazioni di singoli astrologi, quanto l’ampio consenso che queste tecniche andavano raccogliendo presso le elites di potere. L’uso della magia e dell’astrologia a scopi politici era diffuso in molti Comuni e Signorie medievali, sono stati pubblicati gli elenchi dei pagamenti che la città di Siena effettuava tra Due e Trecento a maghi e astrologi, alcuni ei quali incaricati di operare malefici contro le città rivali. Molte testimonianze, tuttavia, ci vengono ancora dagli ultimi secoli del Medioevo. È noto e significativo il carteggio intercorso nel 1474 tra Galeazzo Maria Sforza e i suoi ambasciatori, nel quale il duca di Milano commentava con ira e preoccupazione i pronostici a lui sfavorevoli elaborati dagli astrologi Girolamo Manfredi, Marsilio da Bologna e Pietro Bono Avogaro.

IL PARERE DELLE STELLE
D’altra parte, tra Tre e Quattrocento – e il XVI secolo non sarebbe stato differente – Università e corti erano state aperte e interessate alla scienza astrologica, così come nei secoli precedenti avevano mostrato le esperienze di Federico II nel Mezzogiorno d’Italia e di Alfonso X in Castiglia; gli atenei bolognese, pavese, parmense, padovano; i Medici a Firenze, i d’Este a Ferrara, i Gonzaga a Mantova, i Montefeltro a Urbino, i Visconti e già citati Sforza a Milano, i sovrani aragonesi a Napoli e gli stessi pontefici provenienti dalle più nobili famiglie italiane: tutti si avvalsero dell’opera dei più famosi astrologi.
Nelle corti europee alcune forme divinatorie, connesse soprattutto con l’astrologia, avevano anche un ruolo pubblico e ufficiale: il “punto” stellare si rilevava sempre quando si fondavano cinte murarie o edifici, prima di un viaggio o di una battaglia; nel Trecento Carlo V di Francia volle a Parigi un collegio di astrologi per formulare oroscopi e tradurre in volgare i migliori testi sull’argomento; e nel secolo successivo Mattia Corvino d’Ungheria fece lo stesso con la sua corte di Buda.

IN NOME DELLA SCIENZA
Interesse e avversione per l’astrologia proseguirono anche nel tardo Quattrocento; nella Firenze rinascimentale un Leon Battista Alberti, per esempio, riprendeva le idee del Salutati, insistendo nella convinzione di una natura retta da leggi e principi razionali, sottratta dunque alle influenze astrali. Lo stesso Ficino (sulla cui importanza, comunque, nell’ambito del pensiero magico del Rinascimento diremo tra breve) muoveva agli astrologi serrate critiche, difendendo la Provvidenza divina contro la minaccia deterministica dei corsi stellari. La polemica sull’astrologia verteva insomma sul conflitto tra un fato stellare inevitabile, per quanto conoscibile, e la libertà umana, libera da ogni fato.
La figura di Giovanni Pico della Mirandola (1463- 1494)e la sua riflessione su questo tema risultano importanti per comprendere la complessità del problema magico – astrologico alla fine del Medioevo. Nelle sue Disputationes adversum astrologiam divinatricem egli condannava fermamente la teoria delle electiones, nella quale altro non scorgeva se non l’astuzia degli astrologi per far quattrini, attaccando non già la scienza matematica dei moti degli astri, bensì l’illusione divinatrice di tanti astrologi. D’altro canto, e sempre nel nome di un rigoroso sentire scientifico, nel momento stesso in cui condannava l’astrologia divinatrice il Pico esaltava la magia.
Quel che allo studioso premeva salvaguardare era soprattutto l’assoluta libertà dell’uomo; libertà che deputava la prescienza del futuro non alla divinazione, bensì invece alla profezia. In questo modo, il Pico si ricollegava evidentemente all’antica opposizione ebraico – cristiana tra il profeta e l’indovino.

ATTENTATO CONTRO LA FEDE
La sua polemica antiastrologica si incontrava in fondo con le istanze religiose e morali che percorrevano la società sul finire del secolo e che sembrarono incarnarsi nelle polemiche prese di posizione di Girolamo Savonarola, il predicatore Domenicano che nella seconda metà del Quattrocento contribuì alla temporanea cacciata dei Medici, instaurò in città un clima di attesa millenaristica e sferzò Roma con le sue critiche alla corruzione pontificia (e che, come noto, perso il favore popolare, fu condannato all’impiccagione e al rogo nel 1498). Se Pico vedeva nell’astrologia divinatrice una mistificazione antiscientifica e antifilosofica, il frate vi scorgeva un attentato alla fede. Infatti, poco prima della condanna a morte, Savonarola redasse un Trattato contro gli astrologi (1497), in cui si riallacciava a Pico.
Tuttavia, la novità dell’opera di Pico risiedeva nella considerazione che, se nel testo biblico era fissato il patto del Signore con gli uomini, nel cosmo si leggeva il segno della potenza divina: in entrambi i casi, si trattava di saper interpretare correttamente, di saper leggere. Scienza e filologia coincidevano e, in quanto letture della sacra pagina della Bibbia e della natura, divenivano arti sacre. Egli, insomma, rifiutava l’immagine di un cosmo dominato da pure forze fisiche – come quelle astrali – , e la sua visione di un universo improntato all’armonia includeva la certezza del dominio dello spirito umano sulle cose, quale condizione e garanzia dell’assoluta libertà delle scelte dell’uomo. Questo comportava una piena fiducia nella capacità umana di investigare le leggi che regolano il creato, non più assunte dall’esterno grazie all’adesione a una tradizione, bensì rivelate dall’interno grazie allo studio e alla ricerca. La meditazione sulla cabala ebraica e la valutazione positiva della magia naturale divenivano in fondo un tutt’uno con i presupposti stessi del moderno metodo scientifico.

MICHELE SCOTO, L’ANIMA NERA DI FILIPPO II
Nell’Italia duecentesca, il rapporto tra magia e eresia si legava strettamente ai problemi di ordine politico che vedevano opporsi il mondo ghibellino al pontefice e a larga parte della Chiesa; nonostante la polemica ecclesiastica fosse spesso pretestuosa ed eccessiva nei toni e nelle argomentazioni usate, è vero che la contrapposizione induceva nei ghibellini atteggiamenti che potevano andare dall’anticlericalismo sino all’adesione ai gruppi ereticali o a certe forme di magia. È forse anche in questa chiave che può essere letto l’interessamento di molti fra i principi ghibellini per l’astrologia, che attirava presso le loro corti numerosi praticanti, più o meno celebri, di tale arte. Già allora cominciavano a circolare voci sul carattere demoniaco di certe pratiche e di quanti vi aderivano, è il caso del ghibellino Ezzelino III da Romano, che nella tragedia Ecerinis di Albertino Mussato si diceva esser nato dall’unione della madre, la nobile toscana Adelaita degli Alberti, con il diavolo. Ma l’esempio più celebre, in tal senso, è offerto dalla corte italo- meridionale di Federico II di Svevia, il cui regno fiorì tra il 1215 e il 1250. A fronte della relativa brevità dell’esperienza dello Svevo, è nota la profonda traccia lasciata dalla sua figura tanto nei contemporanei quanto nei secoli successivi. La sua politica verso i Comuni del centro -nord e la contesa con il Papato, che finì con scomunicarlo, pesarono sulla “leggenda nera”dell’imperatore, accusato di aver praticato le arti magiche, indottrinato dal suo astrologo Michele Scoto.
Proprio Michele Scoto fu il personaggio di maggior rilievo scientifico alla corte di Federico; la sua figura è ancora in parte misteriosa: sappiamo tuttavia che prima di arrivare a Palermo aveva soggiornato a Toledo e a Bologna, dove si era già distinto per la sua opera di traduttore e per gli studi in campo astrologico. Su di lui fiorirono storie di magia, in cui egli era spesso associato al suo Imperatore. Si disse, ad esempio, che una volta a Bologna Michele aveva invitato a un banchetto molti gentiluomini senza apparecchiare alcuna vivanda, e all’improvviso spiriti da lui evocati avevano servito pietanze prese dalla mensa dei principali re d’Europa.In altre storie Michele si è trasformato in un mago tempestarlo. Quale fosse il reale rapporto dello Scoto con le pratiche magiche non è del tutto chiaro; è certo., però, che la damnatio memoriae ne ha accentuato i caratteri di “mago nero”, contraddetti almeno indirettamente dalla fitta serie di legami che lo Scoto intrattenne con la Curia papale, presso la quale risiedette nel 1215; Onorio III e Gregorio IX si erano anche interessati a fargli ottenere benefici ecclesiastici. Non si trattava comunque di pure e semplici invenzioni prive di fondamento. Difatti, nel Liber introductorius si dimostrò profondo conoscitore di pratiche di magia cerimoniale alle quali, ancorché ammettendone il contrasto con la dottrina cattolica e il segno demoniaco, credeva fermamente, pur lasciandoci nel dubbio se egli le praticasse in prima persona o invece se ne astenesse.

COSI’ IN CIELO COME IN TERRA
Che le città e i monumenti seguano, sulla superficie terrestre, una mappa già disegnata in cielo dalle stelle, è vero ed è noto fin dall’antichità. Alla base della necessità del calcolo astronomico – astrologico all’atto della fondazione di edifici tanto sacri quanto profani, vi sono due esigenze. Primo: la necessità di accordare la dimora che sta per nascere a un disegno cosmico del quale essa stessa fa parte. Secondo:il raccordare i ritmi del cielo alle vicende e alle fortune delle creature, dal momento che ciò che è in alto è come ciò che è in basso e l’universo è retto da una rigorosa, implacabile rete di analogie. La stessa presenza costante dei segni zodiacali nella concezione simbolica degli edifici sacri ne ribadisce il significato cosmico.
Osservazioni fondate su calcoli astronomici, e con una sempre presente valenza astronomica – astrologica, hanno interessato già i primissimi edifici sacri della cristianità. I riferimenti alle costellazioni negli edifici sacri medievali riguardano soprattutto le cattedrali francesi dei secoli XII – XIII dedicate a Maria. Ma anche fuori di Francia si possono proporre analoghi rilievi. Come nel caso della Piazza dei Miracoli a Pisa, a proposito della quale è stato rilevato che i tre monumenti fondamentali del complesso, cioè il battistero, la cattedrale e la torre, avrebbero( calcolando per la cattedrale l’asse verticale della cupola) la stessa disposizione reciproca delle tre stelle che in cielo compongono la costellazione dell’Ariete. In effetti la cattedrale venne fondata appunto nel giorno dell’Annunciazione e quindi dell’Incarnazione, il 25 marzo del 1064, sotto la costellazione dell’ariete. La fondazione delle città, come quella degli edifici, è un atto sacro: per questo non solo si sceglievano i giorni, ma anche ore e addirittura istanti appropriati. Proprio perché l’astrologia è concepita come scienza che non vuol affatto piegarsi passivamente alle fredde ragioni delle stelle, ma che attraverso interrogationes e electiones insegna a cogliere il momento migliore per l’avvio di una qualunque opera o attività (intraprendere un viaggio, attacar battaglia, iniziare un assedio, avviare un lavoro, concepire un figlio), appunto in tale misura il momento della fondazione, l’atto fondante, era rigorosamente subordinato al “punto” stellare. Sappiamo che nella fondazione degli edifici rinascimentali, che ci sono più e meglio documentati, il momento della posa della prima pietra, o della deposizione al suo interno di oggetti beneaugurati, doveva essere con molta attenzione calcolato da un astrologo.

I Testi Ermetici
Ma non era solo l’astrologia. E le polemiche intorno alla liceità della stessa- ad attrarre l’attenzione degli intellettuali alla fine del Quattrocento. Si deve anzi osservare che fu soprattutto la rinascita platonica e neoplatonica (più propriamente plotiniano), insieme con l’arrivo dei testi ermetici, a giustificare un rilancio della magia che, partito da Firenze, sarebbe dilagato nei due secoli successivi per l’intero continente. Lo stesso tema millenaristico della fine dei tempi, che dominava la congiunzionistica (cioè la scienza degli astri) e che- collegato al malessere sociale e religioso- accompagnava i movimenti popolari di allora, al contatto con le tesi ermetiche si traduceva in una tensione verso la renovatio speculi caria di profondi valori positivi; alla quale per altra via conduceva anche una rinnovata meditazione sui testi classici e sulla Bibbia. Parve ad alcuni, in questo clima, che fosse sul punto di cedere la stessa secolare certezza che le arti magiche il loro studio costituissero qualcosa, se non di sempre necessariamente negativo, quanto meno rischioso.
Cos’erano dunque i testi ermetici? Il manoscritto greco degli Hieroglyphica di Orapollo, recato nel 1419 a Firenze, accese l’interesse per la letteratura misteriosofica alessandrina e fondò le basi per quel “mito egizio” che avrebbe conosciuto straordinaria fortuna e lunghissima vita nella cultura moderna, specie nell’esoterismo settecentesco.
L’astrologia era ancora in prima linea. Tra i vari classici scoperti e resuscitati dagli umanisti vi era infatti, fin dal primo quarto del XV secolo, il poema Astronomica di Marco Manilo. Al tempo del concilio di Firenze l’umanista Gemisto Pietone, annunziando il prossimo ritorno degli dei dell’Ellade, diffondeva al contempo le dottrine degli Oracoli caldaci, il libro sacro dei neoplatonici dopo Porfirio, mentre l’Orazione al Sole dell’imperatore Giuliano (il giovane imperatore che nel IV secolo aveva rigettato il cristianesimo per tornare al culto degli antichi dei) diveniva uno dei testi più cari nel circolo umanistico protetto da Cosimo il Vecchio.

Il Mondo Magico Musulmano
Per gli Europei del Medioevo la terra d’elezione della magia e delle scienze occulte era la Spagna, e più propriamente la città di Toledo.l In effetti, il mondo magico musulmano è estremamente ricco per quanto anche assai composto. Disponiamo di due fondamentali classificazioni delle arti magiche. Si tratta di quelle di Hajji Khalifa e di Ibn Khaldun. Secondo la prima, la magia fa parte delle scienze fisiche e comprende una serie di concetti e di tecniche, tra cui la divinazione, gli incantesimi, i carmina. La seconda si basa sulla prima per distinguere la magia nelle tre grandi sezioni della magia “nera”, della eurogia e della magia “bianca” o naturale. Gli autori islamici insistono molto sulla distinzione tra una magia lecita e una illecita. In Avicenna, nello pseudo-Makrizi, in Ibn Khaldun, per citare solo qualche autore tra i più noti, appare chiaro il legame, strettissimo, tra la magia islamica e quella ellenistica; comuni le credenze riguardanti i filtri erotici, la magia tempestarla, il malocchio, nonché l’anima del defunto per morte violenta che vaga reclamando vendetta e che, talora identifica con il gufo maschio, ricorda in certo senso la “strega” italo-americana.

La Simpatia Universale
La riscoperta dei testi ermetici, che trovò il suo apogeo nella traduzione ficiniana del Corpus hermeticum nella Firenze del 1463, costituiva il punto d’arrivo di una concezione, sviluppatasi lentamente nei due-tre secoli precedenti, faceva dell’uomo il centro dell’universo: era insomma il completamento della vecchia idea dell’uomo come microcosmo, specchio e sintesi del macrocosmo. Secondo Marsilio Ficino 81433-1499), appunto, il mago capta, coordina, organizza le forze celesti, finalizzandole all’interesse dell’uomo e della sua salute, fisica quanto spirituale: un dato importante per lo studioso, medico e figlio di medico.
Rivendicando la piena dignità della magia come arte benefica e come scienza divina. Ficino si rifaceva ai maghi evangelici, per ricordare che mago non significava “operatore di malefici”, bensì “sapiente” e “sacerdote”.
Sulla scorta del magistero di Platone e dei neoplatonici, il formare mediante un’immagine simile al suo modello superiore, significava esercitare una forza, un’attrazione, su quel modello stesso: era il principio della “simpatia universale” della catena degli esseri collegati dalla somiglianza e dalla corrispondenza mimetica. Il cosmo, agli occhi di Ficino, non è più un coacervo di elementi passivi, bensì un essere, un tutto animato.
Nell’armonia del cosmo, dagli astri alle pietre, vi è dunque un continuo richiamarsi e rispondersi di occulte virtù che a vicenda si integrano e si completano: l’universo è vivo e composto di segrete corrispondenze, che è compito dell’uomo- di un particolare tipo di uomo- indagare.

Anche Questa E’ Un ‘arte
Attento alle implicazioni illecite che l’arte magica poteva contenere, Ficino sottolineava che le creature demoniache potevano si essere attirate, inviate, indotte a porsi in contatto con l’uomo: non già però da lui costrette. Rimaneva comunque, in comune con le tradizionali figure di operatori “magici”, il carattere non solo teoretico e speculativo della riflessione ficiniana.
L’atto magico non ha luogo laddove non vi sia anche il “fare” concreto: disegnare e plasmare effigi , tracciare segni, bruciare aromi, forgiare talismani. Il mago di Ficino è quindi non solo medico e sacerdote, bensì anche conoscitore di sostanze fisiche e di metalli, plasmatore di oggetti, insomma artefice e artista: non sfuggirà certo il nesso di questa riflessione, condotta nella Firenze del secondo Quattrocento, con quel medesimo ambiente nel quale si affermava un concetto dell’artista come essere quasi sovrumano. E non a caso proprio nell’ambiente artistico la magia avrebbe trovato nel corso del secolo successivo alcuni fra i suoi più fedeli e fervidi cultori. 

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