Le immense distese dell'unico cielo

CONTRAPPONENDO I BUONI GEOMETRI AI CATTIVI “GEAMETRI” E GLI AUTENTICI FILOSOFI AGLI STOLTI “FILASOFI” IL NOLANO CONIUGA INSIEME ATOMISMO E INFINITA DELL’UNIVERSO.
La pubblicazione (1957) da parte di Giovanni Aquilecchia dei “dialoghi mordentiani” (due dei quali, l’Idiota trimphans e il de somnii interpretatione, erano rimasti fino ad allora sconosciuti agli studiosi) ha consentito di apprezzare come,a partire dal confronto con l’autore de Il compasso (1584), il tema del “minimo”, prefigurato in chiave ontologica – cosmologica nel De la causa e nel De l’infinito, assuma un ruolo cruciale,c sostituendo il nucleo della riforma filosofica della pratica scientifica, e in particolare di quella matematica, che, come si ribadisce nel De minimo , deve regolare il senso aiutandolo a penetrare nella secreta materia dell’Universo. Nel primo dei Dialogi (dal titolo Mordentius) Bruno aveva individuato tra i principi alla base dell’inventum mordentiano il comune assioma dei filosofi secondo il quale “nei soggetti fisici e artificiali sussistono un mino e un massimo determinati relativamente alle loro forme: ragion per cui, come accade a chi divide naturalmente così anche a chi divide artificialmente, non è possibile procedere all’infinito”. Su di esso torna nell’idiota triumphans, dichiarando di voler liberare l’invenzione di quel “puro meccanico, puerile e sprovveduto nel linguaggio e nelle arti” da una ratione estranea che al rendeva incomprensibile e inaccettabile:
bisogna perdonargli, data la sua totale ignoranza in campo filosofico, quando, credendo, di poter fare della dimostrazione razionale ciò che sa fare in modo meccanico e conformemente al senso, fonda[la propria invenzione] sull’assioma (che lo contraddice in quanto sostiene qualcosa di diametralmente opposto al suo intento) di quei filosofi che dicono che le cose naturali[..] non sono divisibili all’infinito relativamente alle loro forme: egli non capisce che la dizione “relativamente alle forme” esprime chiaramente come il pensiero di quei filosofi non riguardi il minimo della grandezza o quantità continua, che essi non credono possa mai darsi, ma il minimo soggetto in cui, per ciascuna specie, è possibile alla forma di conservarsi, vale a dire che, per esempio, la forma umana non si conserva quale che sia la quantità di materia disponibile, ma vi è una quantità minima e una quantità massima oltre i cui limiti la forma dell’uomo non c’ è più; lo stesso rapporto vi è per quanto riguarda al formica, una certa specie di frutto, e in tutte le altre cose. Il detto di quei filosofi non dunque a suo favore, non ammette al possibilità di ciò che egli presuppone, e cioè che si possano dare le ultime frazioni pervenendo così la minimo.
Tra quei filosofi rientrava Aristotele, che in più di un passo della Fisica aveva dichiarato che la “forma” di ogni sostanza corporea concreta ne limita superiormente e inferiormente al quantità di materia, determinando un massimo e un minimo al di sopra e al di sotto del quale la sostanza in questione finisce per perdere la propria natura specifica. Ma tali limiti non si danno là dove si prescinde dalla considerazione qualitativa delle “forme” specifiche: per questo Aristotele aveva potuto sostenere insieme l’indivisibilità all’infinito, relativamente alle forme, e la divisibilità all’infinito della pura materia, nonché della pura grandezza geometrica. Bruno denuncia così l’insipienza di Mordente, che sull’assioma aristotelico pretendeva di fondare il presupposto del suo procedimento meccanico, ossia la possibilità di pervenire via divisione alle “frazioni ultime” della grandezza geometrica. Piuttosto
Se ciò cui si riferisce è la superficie o la linea da dividere, quel suo presupposto, che da taluni filosofi è accolto come principio, vuol dire a questo riguardo un’altra cosa, e cioè che a chi divide in modo meccanico succede di perdere la percezione della qualità prima di quella dell’estensione o quantità, per cui alla fin fine non fa differenza se a essere intercettati siano i minimi o i quasi minimi di una linea curva e di una retta, di una figura regolare o irregolare, ed è perciò che quel che è determinato secondo la forma,non ah ancora avuto un limite secondo la materia; in questo è la ragione per cui Mordente va considerato un dio.
Nel IX capitolo del Libro primo del De minimo il Nolano distingue tra “un duplice minimo, uno sensibile, cui giunge l’arte attraverso un processo di divisione razionale e seguendo l’alto modello della natura[..], e l’altro per cui sono costituiti i corpi e ogni specie e definita”. Sarebbe vano il tentativo di passare dall’uno all’altro minimo estendendo per analogia quella procedura di divisione che trova nell’indiscernibilità del contorno sensibile della figura il suo limite. Piuttosto, bisogna assumere il minimo “altro” da quello sensibile come “fondamento e principio”, e distinguere ancora tra ” un minimo in senso semplice e assoluto, che deve essere di un unico genere” e “un minimo ammesso per ipotesi, ossia in via di supposizione e relazione, che si costituisce variamente a seconda della varietà dei soggetti e della loro determinazione”. Un tale minimo sarebbe diverso in relazione a chi lo considera, “come diverse sono le pratiche e gli ordini che si basano su un minimo”, sicchè “ciò che entro un certo ordine è assunto come composto, entro un altro è ritenuto semplice e primo”. Per esempio, se per il geometra il minimo è costituito dal punto, per il grammatico è dato dalla semplice lettera, per il logico dalla proposizione, ecc., di modo che “per ragioni diverse a seconda del diverso ordine richiesto dalla materia”, chi crea una forma (formactor), chi dipinge (pictor) e chi misura (mensor), ” individua un minimo diverso al fine di assegnare all’intero delle parti disposte secondo la maggiore o minore vicinanza ad esso”.
Lo slittamento del termine ultimo di una divisione in parti a principio di relazione (il cui significato varia a seconda del genere dei relati) fa del minimo il presupposto indispensabile della misura, in grado di coniugare la consistenza discreta del numero con l’apparenza continua della grandezza, la dimensione logica del formale con quella ontologica del reale, garantendo un referente agli altrimenti vuoti segni della matematica. Negli Articoli adversus mathematicos Bruno aveva scritto che “l’ignoranza del minimo fa che i geometri del nostro tempo siano geometri” e “i filosofi siano filasafi”; nel De minimo ribadisce come vi siano “due generi di geometri, i quali distano tra loro come la verità dalla falsità, al scienza dall’ignoranza, la luce dalle tenebre”: quelli che muovono dal minimo come da “un necessario fondamento” e quelli che lo ignorano, restando così “irretiti in spaventose ambagi, confusioni e miriadi di confessate irregolarità”.
Non è soltanto per i “geometri meccanici” che misurare (metiri) e mentire (mentiri) vanno di pari passo. Nel “repentino crollo del grande teatro dei matematici”., determinato dall’assunzione del minimo come fondamento necessario della misura, finisce coinvolta per Bruno gran parte delle tecniche calcolistiche e/o geometriche diffuse dell’epoca. Così, non senza sprezzo, egli battezza “le dottrine dell’irrazionalità e dell’asimmetria[..] madri dell’ignoranza che avvolge il minimo”. Dal momento che sono “privi del minimo”, i cattivi geometri “sono costretti ad ammettere grandezze irrazionali e, per questo, quali mai geometri saranno costoro che, senza il fondamento del minimo, sembrano farneticare (in quanto ugualmente parlano di misure) allorché tentano di avanzare a sproposito poche proprietà della monade!” Analoga condanna viene pronunciata dalle “incapaci” tavole trigonometriche:

Via di qui le incapaci tavole dei seni, poiché sai che il quadrante del cerchio delimitato dai raggi è sempre disuguale, sai che lo consideri come tutto sia che lo consideri nelle sue componenti rettilinee e curvilinee, dal momento che ciascuna di esse si trova caratterizzata da misure diverse e qualsiasi intero consta di parti siffatte per coloro che adottano questo nuovo sistema di misura, ogni volta in cui si procederà a una determinazione della parte.
Può sembrare paradossale che Bruno esorti a liberarsi di quella trigonometria il cui sviluppo doveva contribuire all’affermazione della nuova cosmologia copernicana. E tuttavia, tale invito non era che la diretta necessità, più volte ribadita dal Nolano (si ricordi lo Spaccio), di una chirificazione filosofica dei presupposti delle diverse procedure matematiche,, per limarne, per dirla oggi con Renè Thom, le “aporie fondatrici” (come quella tra continuo e discreto), gettando luce sulla portata della mathesis quale forma di ordinamento della nostra esperienza del mondo. In questo senso vanno letti i capitoli VII – XII del Libro terzo del De minimo, in cui Bruno passa in rassegna vari metodi di calcolo (da quello del “divino idiota” Mordente a quelli del “divino” Cusano e dell’ “oracolo” Maurice Bressieu, allievo di Pietro Ramo alla Sorbona e autore del Metrices astronomiae libri quator), affrontando l’antico problema della “quadratura del cerchio”.
Come aveva già rilevato Felice Tocco ( 1889), bruno da un lato sembra condannare “il concetto delle grandezze infinti e in nome del ragionamento esatto”, respingendo, conseguentemente, le tavole trigonometriche, e dichiarando “insolubili i problemi di quadratura del cerchio e della trisezione dell’angolo”; dall’altro lato, tuttavia, egli sembra combattere “la dottrina degli incommensurabili”, quasi “contentandosi del calcolo delle approssimazioni” e credendo possibile “tripartire l’arco e quadrare il cerchio”. Si tratta, a ben guardare, da una tensione che scaturisce da problemi di carattere schiettamente filosofico: basti sottolineare come le accuse rivolte dal Nolano ai “geometri” dell’epoca, che contribuiranno non poco a confinare la stessa riflessione bruniana ai margini della vicenda della scienza moderna, rientrino nel quadro più generale di una disamina dei presupposti impliciti della matematica dell’epoca, nell’intento di chiarirne l’autentica funzione cognitiva. Tanto le aporie insite nelle procedure quasi – empiriche dei “meccanici” quanto le contraddizioni soggiacenti ai raffinati calcoli dei cosiddetti “aritmogeometri” (ossia dei fautori della trigonometri) appaiono al Nolano segni evidenti della necessità di una ridefinizione dello statuto della matematica che, calandola nell’inesauribile varietà del reale, l’affranchi dall’idolo dell'”esattezza” e dalla pretesa di un’infondata “esemplarità”.
“I grammatici – scrive Bruno – asservono il contenuto alle parole, noi invece asserviamo le parole al contenuto:; quelli seguono l’uso corrente, noi lo determiniamo”. Lo stesso, a suo parere, vale per la maggior parte dei matematici, colpevoli di aver dissolto l’intrinseca individualità e diversità delle cose nelle “angustie “di un astratto formalismo, finendo per sacrificare il significato (contenuto) al segno (parola), al verità della vicissitudine all’illusione del calcolo, al punto da accultare le ragioni del loro stesso procedere. Gli strumenti di cui si servono ( e a cui non possono non affidarsi) sono incerti e falsi, dal momento che manca un “metro stabile” che possa essere applicato ovunque come norma costante: ” non vi sono due pesi, due lunghezze, due voci, due suoni identici, due numeri uguali in tutto né vi sono due movimenti o parti di movimento completamente uguali”. In altri termini, “le cose, singolarmente e tutte, sono quello che sono in modo diverso” sicchè non è possibile non solo “denominare per due volte la stessa cosa”, poiché “le parti prime si rinnovano in modo che uno stesso nome non indicherà per due volte successive un’unica e medesima cosa”, ma neppure “tracciare per due volte la medesima circonferenza” o “imprimere per due volte due uguali impronte con le aste del compasso, pur cercando di mantenerle alla stessa distanza tra loro nel disegno”.

NUMERI E FIGURE DELLA NATURA
Nel De monade ritorna sull’analisi del senso e della portata di una matematica intesa come metodo universale, capace di combinare la “potenza dei numeri” (per cui “ogni specie si distingue dalle altre” e “le cose sono dotate di varie forme e figure esteriori”) alla “forza delle immagini” (che “emergono da tutte le cose e in tutte le cose penetrano”), così da ritrovare quell’ordine determinato secondo il quale “tutte le cose dell’Universo provengono dai principi naturali”. Il linguaggio è ora diverso da quello impiegato nel De minimo, e il confronto con i geometri dell’epoca, improntato sulla rivisitazione, sia pure critica, degli Elementi di Euclide, cede il passo a un atteggiamento prevalentemente simbolistico, caratterizzato da una consapevole ripresa della tradizione magica, cabalistica, pitagorizzante, nel solco di Marsilio Ficino (1433-1499) e Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494). E tuttavia, anche in questo caso, la rimodulazione del tema rientra in quella tecnica della variazione che per il Nolano rappresenta l’unica maniera per dipanare il complesso intreccio di livelli che concorrono a definire il volto del reale e che consentono di rintracciare in esso, grazie al mutuo gioco di esplicato e complicato, il multiforme effetto di un unico principio. Sin dalle prime battute di quello che egli stesso definisce un libro difficile per “chi non è aduso ad alcuna severa disciplina”, e “ancor più per chi è imbevuto di sole nozioni grammaticali”, Bruno prende le distanze dl “gregge dei matematici o dei geometri”, sottolineando come il suo tentativo di unire insieme (la ricerca dei numeri elementari con quella delle figure elementari”, lungi dal confondere i metodi dell’aritmetica e della geometria, risponda all’esigenza di mostrare, “in figure migliori di quelle che il volgo conosce, gli elementi delle figure sensibili di questo genere nei numeri di questo genere”. Nello spirito dell’aritmogeometria pitagorica, i “numeri della natura” appaiono organicamente connessi alle “figure naturali”, offrendo così le chiavi per decifrare la realtà, in vista non solo della conoscenza, ma anche dell’azione:

indagando i numeri della natura [naturae numeri], abbiamo rivolto la nostra attenzione alle figure naturali [naturales figurae],per mezzo delle quali l’ottima madre, configurando tutte le cose, distingue le rispettive virtù e proprietà; dipinge, scolpisce, intesse, nelle loro superficie, i rispettivi nomi. La natura esprime attraverso i numeri delle membra e delle fibre di tutte el cose la loro struttura. Essa mostra in queste immagini [imaginibus] la bellezza, l’eccellenza, i privilegi, di cui è dotata oppure i loro contrari. Essa stessa pone nelle forme delle cose [characteribus] le leggi, i modi nell’agire e nel patire evidenzia le vicissitudini. Nell’imprimere tali sigilli, quell’ottima genitrice rende chiara l’autorità e la fede in un Dio che tutto governa; per coloro che camminano nella sua luce divina si indica una via percorsa da un genio non plebeo e si apre una porta chiara per pochi indizi, anche se non avari (molto lontani dal nostro tempo, il più infelice di tutti).
Bruno riprende quasi alla lettera Ficino, ricordando come Pitagora ed Ermete avessero fatto di quei numeri, in cui è possibile ritrovare “tutte le cose, secondo la diversa disposizione degli elementi”, i “principi grazie ai quali gli uomini potevano cooperare con l’operosa natura”, impadronendosi delle strutture che ne regolano il ritmo. E come Platone avesse posto le figure naturali al di là del “mondo delle specie sensibili”, elevandole ad archetipo della conoscenza. D’altro canto, è grazie alla conoscenza di questi numeri (che rappresentano al combinazione e la varietà dei principi) e di queste figure (che definiscono “l’ordine e la disposizione delle parti prime e prossime”) che l’uomo è stato considerato il più sapiente tra gli animali: “Le specie si distinguono dalle specie, come i numeri dai numeri, poiché le forme si differenziano secondo i numeri, la virtù dei composti secondo la loro struttura, i corpi secondo le misure, tutte le cose secondo le figure manifeste o nascoste”. Numeri e figure naturali costituiscono la trama della realtà, rivelano l’ordine dell’Universo. Chi li conosce sa anche agire sulle cose: è grazie alla virtù dei numeri che il neopitagorico Apollonio di Tiana “risuscitò una fanciulla, dopo aver udito il suo nome”, ed è per la medesima ragione che “i Romani non osarono mutare nome alla città di Roma perché né essa, sotto cui altre città furono sottomesse, né essi stessi, una volta o l’altra, si trovassero assoggettati”.
Secondo gli stilemi tipici della tradizione pitagorizzante e cabalistica, Bruno tratta il cerchio come la radice di tutte le figure, il “principio di formazione” che “in sé tutte le riassume, abbraccia, inscrive” e che in tutte è “inscritto”, riempiendole, commisurandole e uguagliandole; dal momento che è “contemporaneamente tutto, parte, punto ,termine” esso contiene in sé e indica il principio, il centro e il fine di ogni cosa. In breve, è il simbolo dell’infinito, uno immobile e identico a sé. E nella sua unità convergono i contrari: ” il sorgere e il tramontare, il destro e il sinistro, l’andare e il venire, la quiete e il movimento”.
È da questo “primo progenitore” che “fluiscono” le figure ed è in esso che “tutte si risolvono quando aumentano e diminuiscono”. Poiché “genera ogni altra figura e, generata, la determina, e, in tutte presente, si chiarisce come loro sostanza”, il cerchio va celebrato insieme con la specie della monade, la quale, come ormai sappiamo, è essenza di tutte le cose e , ricostituendosi incessantemente, da origine ai numeri, al apri e al dispari, al molto e al poco, al maggiore e al minore. E come dal cerchio derivano il digono, il trainatolo, il cetrangolo, ecc. , secondo un ordine rigoroso, fino alla decade, che non soltanto è in atto ciò che la tetrade può essere solo in potenza, ma “contiene tutte le specie degli infiniti numeri pari e dispari,e presenta tutte le differenze”.
A conferma delle fonti utilizzate, è sintomatico che Bruno, nel trattare del primo ordine della scala della decade, citi i “dieci predicati” attribuiti a Dio dai cabalisti, ossia le dieci Sephiroth, precisando che sono “predicati in quanto non esprimono la divinità innominabile e incomprensibile nell’assolutezza della sua sostanza, ma in rapporto agli aspetti esteriori”, quasi si trattasse di “velami di una luce inaccessibile”. Già nella Cabala il Nolano aveva discusso, sia pure in contesto diverso, le dieci Sephiroth. Al di là di questa coincidenza, il legame con i temi della Cabala appare evidente là dove Bruno si sofferma a considerare l’emergere delle differenti specie a partire dall’unica e omogenea materia. Se “tutte le cose risultano formate di una simile compagine e in tutte è un unico spirito che agita tutto nella misura in cui esso è agitabile e si adopra in modo da preporre a tutte le cose una specie in essa presente”, nondimeno “come è diverso l’ingegno e variamente disposto il fato, così vario è il genere”. Ciò significa che “nei principi è latente [la]discordia che la sorte del diverso ingenera nel campo della materia”, una volta che questa “si è allontanata dall’ambito della monade”; è per tale ragione che alle diverse cose spettano numeri e ordini differenti: l’uccello, il serpente, la fiera, il pesce non sono riconducibili agli stessi numeri. A ciascuno di essi”sono propri un fine, un origine e un comportamento diversi”, in virtù della differente corporeità specifica. Non sono tutti dotati dello stesso numero di dita o di articolazioni. Né l’essere umano possiede “una saggezza maggiore di quella degli altri esseri”: anzi”per molti numeri è superato da molti e anche da quelli che sono irrilevanti per la loro esigua corporeità”. E tuttavia, “l’uomo è incorso in una sorte migliore, avendo avuto il dono della mano”.
Legando al corpo il destino dell’uomo, genere confuso e misto, in quanto “dotato di parola e ingegno sotto la cui guida muove le mani”, il Nolano no fa che ribadire quanto aveva dichiarato nella Cabala, al termine dell’elogio dell'”organo de gli organi”. Ma la mano non soltanto cifra della civiltà: nel DE monad eleggiamo che essa è anche “espressione e collaboratrice del pensiero interiore, ne riporta le opere e i frutti e conferma i sensi e i disegni della mente profonda”; è simile a un libro stampato, “sebbene non lo sappia leggere ogni spirito che deve essere tessuto nel corso di questa vita”. Veicolo della prassi e del destino, la mano concentra in sé quel potere di trasformazione della natura che si dispiega tanto nella matematica quanto nella magia, rivelando così la loro connessione:

Conosciamo un genere assai esperto di maghi e di indovini: i quali si danno da fare per allontanare l’infausta fortuna o per apprestare un nuovo ordinamento; o nella ricerca di una condizione migliore, dietro i suggerimenti dello stesso nume, abbinando i mutamenti del nume al mutamento del nome. E in relazione al mutamento della figura interna e insensibile, sono iniziati i riti e le divinazioni:la figura è il numero sensibile.
Le Macchine Del Cielo
Nell’elargire i suoi tre doni al “tre volte Principe e Massimo “Enrico Giulio, il Nolano dichiara che se nel De minimo “abbiamo dato prova del nostro desiderio di ottenere la verità” e nel De monade”l’abbiamo cercata non senza incertezze”, nel De immenso” l’abbiamo trovata senza velo di dubbio”, per aggiungere che, al fine di indicare “come accedere dalle tenebre alla luce, attraverso i colori”, ha preceduto con metodo naturale all’esame degli “oggetti composti”, distinguendo tra fine, finito e infinito, tra efficiente, elemento ed effetto, tra moto, quiete e immobilità , e mostrando sia che l’acqua, la luce e l’aria sono i principali elementi dell’Universo, e che il Sole, la Terra e il Cielo costituiscono i presupposti dell’esistenza, sia che l’ostacolo della scienza naturale e la base principale dell’ignoranza consistono nel “non vedere nelle cose un principio di uniformità delle sostanze, dei moti e delle potenze”.
Da questa presentazione appare chiaro come il De immenso non rappresenti soltanto il culmine della trilogia di Francoforte, ma abbracci la maggior parte dei temi affrontati nei dialoghi italiani, intrecciando, nello stile della filosofia bruniana, indagine cosmologica, analisi ontologica, riflessione etica. Sin dall’esordio, il riferimento al Dialogo primo della Cena è evidente, come esplicita è l’allusione al terzo dei sonetti premessi al De l’infinito:

Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d’immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile disprezzare e la fortuna e la morte. Si aprono arcane porte e si spezzano le catene che solo pochi elusero e da cui solo pochi si sciolsero. Così, io sorgo impavido a solcare con l’ali l’immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinchè fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere e il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie.
Altrettanto stretto è il legame con il De la causa, come attesta la concezione della materia-vita che, mai “paga delle forme particolari assunte, aspira nondimeno in eterno al conseguimento di nuove forme”, offrendosi come “omniforme immagine dell’omniforme dio”. È con le armi approntate nelle dispute inglesi, ma anche in quelle parigine, ulteriormente affilate nell’originale rivisitazione dell’atomismo operata nel De minimo, che il Nolano muove all’assalto finale delle “adamantine muraglie” imposte all’Universo dalla filosofia di Aristotele e dei suoi più o meno consapevoli seguaci, cercando di smascherarne una volta per tutte il falso pregiudizio. Così, nel Libro primo, Bruno smonta una dopo l’altra le “sciocchezze dei Peripatetici”, criticandone sia la concezione di “luogo” (e l’idea a essa connessa che la “gravità” e la “levità” siano le cause del moto o della quiete dei corpi celesti), sia l’insostenibile congerie di “motori” che vincola gli astri a “orbite solidissime”. Solo “l’insana protervia” di voler “raggiungere con il senso ciò che non è proprio del senso” ha consegnato gli aristotelici alle tenebre del finito, costringendoli ad ammettere un unico Sole, laddove molti (anzi, innumerevoli) se ne possono intuire con ingegno e raziocinio, e a considerare fisse quelle stelle che tali appaiono alla vista soltanto perchè lontane.
Che l’immagine di un “cielo non fendibile, non penetrabile” in cui “a un sol astro [..] sono avvinti un tanto grande involucro di stelle e di epicicli” fosse ormai destinata a svanire è testimoniato per il Nolano dalle osservazioni del danese Tycho Brahe (1546 – 1601), che “molte cose scoprì con sagace ingegno e le mostrò conforme ai sensi”. Decisive si rivelano quelle relative alle comete, in quanto confutano “l’infelice delirio” dello Stagirita che, in nome dell’immutabilità del cielo, riteneva che esse potessero formarsi “solamente nella concavità dell’orbita lunare” e non potessero stare al di sopra di essa: ora, non solo “questi corpi erranti stanno al di sopra dell’orbita lunare”, ma non sono “corpi brucianti”, bensì “acque e corpi splendenti per la superficie vitrea, non meno della Terra, della Luna, di Giove e di Marte”; e non differiscono in niente dai pianeti, “se non nella disposizione rispetto alla nostra vista, per cui, talvolta, la loro luce viene riflessa a noi come da uno specchio obliquo”. D’altro canto,a detta di Bruno, le osservazioni di Tycho, oltre a ribadire cose che i fisici avevano già scoperto e il “senso interno” già provato “parecchi lustri or sono”, confermano alcune profonde intuizioni degli Antichi, derise e falsate dai sofisti. Stando allo stesso Aristotele, Eschilo e Ippocrate di Chio avrebbero sostenuto che “la cometa era un pianeta e derivava la sua chioma dall’umore vaporato a opera del Sole”riferendo così “alla medesima specie le comete, i pianeti e la Terra: che cosa è infatti, un astro, da cui gli umori evaporano ad opera del Sole, se non un mondo simile del tutto al nostro?”.
La “verità figlia del tempo” consente al Nolano di arruolare nella nova filosofia il sapere degli Antichi e l’astronomia dei moderni, intuizione e osservazione, secondo quel detto enunciato nella Cena per cui “non è cosa nova, che non possa esser vecchia; e non è cosa vecchia, che non sii stata nova” e in virtù del quale “il principio de l’inquisizione è il sapere e conoscere che la cosa sii, o sii possibile e conveniente,e da quella si cave profitto”. Poiché il sapere orienta l’osservazione, rendendone possibile una veritiera interpretazione, il senso deve seguire “il carro della ragione” sulla sacra via che porta “al di là di ogni definito sistema di stelle” per trovare “l’infinito Dio”, al cui potenza [..] secondo innumerevoli gradi si manifesta per essere onorata nelle innumerevoli cose in cui si riflette, quali sono la terra, il Sole, la Luna e il fluido Aere”. Non diversamente che nel De la causa e nel De l’infinito, dall’assoluta coincidenza in Dio di potenza e atto, di libertà e necessità, segue che “nessuna grandezza o dimensione possano convenire all’infinita causa e al principio se non l’infinito”, di modo che “se esso [..]esplica la propria grandezza nell’esistenza delle cose corporee e della molteplicità, è necessario che si manifesti in un oggetto infinito, senza dimensione e numero, a testimonianza della sua immagine e delle vestigia della sua potenza” Per e nell’infinità di Dio prende vita l’infinito Universo, a cui nulla si può aggiungere, “la monade perfetta che è intima a tutte le cose e tutte le abbraccia”, comprendendo “tutte quelle cose che, moltiplicate all’infinito, in esso si distinguono”.
Non bisogna farsi dunque soffocare dalle inutili chiacchiere dei Peripatetici, bensì rilevare in tutte le cose che si vedono l’impronta dell’infinito, la quale è testimoniata dalla stessa “potenza naturale attiva dei principi”, poiché “una sola favilla è sufficiente per accendere innumerevoli cose e per accendere un soggetto infinito”. Né ci si deve lasciar ingannare dall’argomento aristotelico per cui, una volta ammesso che sia mobile, L’universo risulta necessariamente finito, dal momento che l’infinito attuale escluderebbe la possibilità del movimento, inteso come passaggio da un luogo all’altro: “nessuno”, ribatte Bruno, “mai ha detto l’infinito mobile; nessuno potrà, a ragione, negare la presenza di infinti mobili per l’Universo”. In altri termini, nell’Universo “gli infiniti generi universali sono mobili, ciascuno di essi si trova racchiuso dai propri limiti e regioni e ciascun astro percorre la propria orbita circolare, e non erra all’infinito”.
Ritorna qui la distinzione tra Universo e mondi, o meglio quella tra infinito considerato “infinitivamente, cioè intensivamente”, che “non agisce né patisce”. Mentre l’intero Universo è Uno, immobile ed eterno, i singoli mondi sono innumerabili, mobili e sottomessi alla vicissitudine del mutamento, scandita della trasformazione senza fine della materia (che “stanca dell’antica specie, sta in agguato, bramosa della nuova, poiché desidera divenire ogni cosa, essere simile a ogni ente”), cioè dall’infinito moto degli atomi (per il cui flusso e deflusso “si alternano le sorti stabilite”). Ma diversamente dalla Cena e dal De l’infinito, Bruno sembra ora ammettere, sai pure in forma dubitativa, che i mondi si dissolvano e muoiano, ribadendo però che “tutta la natura[..] mostra [..] il permanere della potenza e provvidenza dell’infinita virtù, al quale, con giustizia, governa il tutto nell’infinito”.
Comunque sia, in tale Universo, infinito e popolato da innumerevoli mondi, svanisce, per riprendere le parole del De la causa, l’illusione di un “mezzo” e di un “estremo”; e “groviglio della fantasia” appare l’opinione di chi, “contro la testimonianza degli astri e di ogni luce”, vuole che “ogni cosa si muova intorno alla Terra come intorno al proprio centro”, così come supposizioni escogitate “più per comodità di calcolo che per omaggio alla verità”, si rivelano “gli eccentrici e gli epicicli”, introdotti da filosofi inetti, allorché “si accorsero che, rispetto alla Terra, i diametri dei corpi erranti variavano e, per conseguenza, cadevano le ragioni del mezzo, del centro”. Invano essi hanno tormentato il loro animo inventando epicicli ed eccentrici che “rendessero ben salde le orbite”; non solo “non esiste nella natura alcun cerchio tale per cui talvolta possano ripresentarsi simili e medesimi effetti”, né vi è “alcuna prova che gli asti tutti siano disposti in modo da ritornare, una volta o l’altra nella stessa posizione rispetto alla Terra”; ma quest’ultima è un “abitante del cielo” che vaga nell’unico ed etereo spazio “senza alcun sostegno”, ruotando intorno al suo Sole e riflettendone i raggi. È qui che Bruno invoca la luce del “generoso Copernico”, ricordando in chiave autobiografica l’importanza della scoperta del De revolutionibus ed esponendone con cura la teoria dei moti della terra. Già si è detto come, diversamente che nella Cena, il Nolano collochi ora l’opera dell’astronomo polacco nell’alveo della lunga tradizione che annovera i suoi padri tra i seguaci di Pitagora. Ma le differenze rispetto al primo dialogo londinese non si fermano qui. Nell’ultimo capitolo del Libro terzo del De immenso Bruno avanza varie critiche a quelle che lui stesso definisce “affermazioni sorprendenti” di Copernico, prospettando un modello della “macchina del mondo” diverso da quello avanzato nella Cena. Anzitutto, il Nolano osserva come l’autore del De revolutionibus, nonostante la profonda intuizione, non abbia “preso in esame l’orbita centrale che il Sole percorre, splendendo tra i limpidi astri”, attribuendo piuttosto alla Terra un movimento inclinato e cercando di “mantenere fisso l’ordine dei due poli, con una difficile soluzione”. Sviluppando quanto accennato nella Cena, bruno sembra individuare un duplice movimento del Sole: il primo, di rotazione,a spirale, intorno la proprio asse; il secondo, di rivoluzione intorno al centro del sistema dei pianeti, su di un’orbita obliqua rispetto ai poli celesti e le cui estremità si trovino su linee parallele ai due tropici della Terra. Come ha scritto (1999) Hilary Gatti, tale soluzione “sostituisce l’inclinazione dell’eclittica (che nell’ambito dell’astronomia copernicana è definita come il percorso della Terra intorno al Sole) con l’orientamento obliquo di un’eclittica solare di dimensioni ridotte al centro del sistema planetario”: ciò avrebbe per Bruno il vantaggio di “eliminare il problema del terzo moto della Terra, e dunque al necessità di postulare l’esistenza di orbi celesti”, spiegando la precessione nei termini di “un lievissimo aumento nell’inclinazione dell’asse terrestre rispetto a una posizione parallela ai poli celesti”.
Moto del Sole e orbi celesti a parte, vi è ancora un terzo punto che sarebbe sfuggito a Copernico, ossia quanto “temerario” fosse il moto di Mercurio e di Venere, i quali “non percorrono orbite minori comprese da quelle della Terra e della Luna”, bensì, come volevano i Pitagorici, “errano in eterno[..] in un’altra parte della regione, rispetto al Sole, lontani e vicini come lo sono in questa regione la Terra e la Luna”. Bruno sembra così tornare all’ “errore” della Cena, riformulando al soluzione allora prospettata in un modello in base al quale il movimento del sistema Terra – Luna risulta coordinato a quello del sistema Mercurio – Venere. Non senza difficoltà: in un primo momento Bruno pose Mercurio sulla stessa orbita della Terra e in posizione sempre opposta rispetto ad essa, collocando Venere su un epiciclo con centro in Mercurio, analogo a quello disegnato dalla Luna intorno al nostro pianeta; in seguito, considera le coppie Terra – Luna e Mercurio -Venere come due pianeti doppi, orbitanti insieme sui rispettivi epicicli. D’altro canto, Bruno riconosce che il suo schema è alquanto sintetico e confuso; e invita “gli astronomi più solleciti” a indagare ulteriormente, dal momento che, “data la moltiplicazione dei cerchi o spirali”, non facile “giungere a una felice composizione, specialmente perchè è necessario molto studio per poter chiarire nelle cose questo aspetto,da un punto di vista fisico”.
Una simile conclusione è in linea con la concezione bruniana dei moti fisici dei pianeti, di cui ogni teorizzazione matematica non può che essere versione approssimata, rivedibile e migliorabile. D’altro canto, per quanto confuso, soprattutto se confrontato con l’originale copernicano, quel modello non rappresenta all’epoca una novità assoluta, e Bruno lo sa bene. Come ah ricordato (2000) Wolfgang Wildgen, “già nel 1578 l’astronomo tedesco Paul Wittich [..] aveva abbozzato un sistema in cui Venere e Mercurio orbitano intorno al Sole, ma in cui il Sole orbita intorno al sistema Terra – Luna. Numerosi altri sistemi ibridi di questo tipo sistemi ibridi di questo tipo si sarebbero sviluppati in seguito nel corso del secolo. Così, per esempio [l’astronomo] Ursus propone nel 1588 un sistema con due componenti: da una parte Terra e Luna, dall’altra il Sole con mercurio e Venere”. Bruno non avrebbe fatto altro che negare la tendenza geocentrica comune a queste soluzioni, isolando dal Sole, posto ora al centro del sistema fisico, i subsistemi Terra – Luna e Mercurio – Venere; per quanto erroneo possa oggi sembrarci, il modello era comunque compatibile con i dati osservativi dell’epoca (elongazioni appaiate e distinte di Venere e Mercurio, assenza di transito davanti al Sole, difficoltà nella rideterminazione dei tempi di rivoluzione intorno al Sole dei pianeti,ecc.)

Ascensus Lunae
Terminato l’excursus copernicano, nel Libro quarto del De immenso Bruno riprende il confronto con Aristotele, “l’infelice sofista” che “ricorrendo all’alto e al basso” ha condannato gli astri del cielo sopralunare a una perfezione eterna e rinchiuso la Terra la centro di un universo finito. E per mostrare come tutti gli astri siano formati dai medesimi elementi e quanto assurde siano, se prese in senso assoluto, qualificazioni come “alto e basso”, immagina di compiere idealmente lo stesso viaggio che Luciano di Samosata (II secolo a.C.) aveva attribuito al suo esploratore e che invece Ariosto aveva imposto ad Astolfo per recuperare l’intelletto perduto del “furioso” Orlando:

Orsù, dunque, sali, ti porterò sulla Luna: disponi i sensi come i dispongo le ali della ragione; orsù, và avanti tranquillo, segui una guida sicura, non una dedala mano con le ali spalmate di cera, non gli artefici dello stolto menippeo, per cui potresti a ragione temere la caduta di Icaro o le sciocche smorfie di Luciano di Samosata, ti sollevano; ma l’immagine del vero e l’inclito ordine della natura sono per te, incerto, guida, e ti ricondurranno sano e salvo.
In tale “folle volo” ala conquista dell’infinita e omogenea macchina dell’Universo – in cui tutti i corpi appaiono composti dai medesimi elementi (differenziandosi in soli e terre unicamente in virtù del predominio, rispettivamente del fuoco o dell’acqua) e determinati in tutti loro movimenti dall’ “impulso interno” della loro anima, secondo legge inviolabile – il Nolano prende posizione non soltanto contro la tradizione aristotelica, ma anche contro altre versioni del copernicanesimo, solo in apparenza affini alla propria: nel libro quinto, per esempio, bruno ironizza su coloro che ascendono ai cieli, salendo “su una scala[.] con ali platoniche, divine, matematiche, astratte, effimere”, e li paragona al cane di Esopo che “lasciata la carne che aveva in bocca, spinto dall’avidità dell’ombra più grande, si lanciò precipitosamente nel fiume”. Benché obiettivo polemico immediato sia la dottrina ficiniana del triplex mundum(sublunare, supralunare, empireo), spicca, nella filigrana del testo, una forte critica contro ogni tentativo di conciliare – secondo la strategia teorica adottata, tra gli altri, da Thomas Digges (1546 – 1595) – la dottrina del moto terreste con l’esistenza dell’empireo della tradizione cristiana”. Non è un caso che nel Libro ottavo del De immenso il Nolano critichi duramente il poema di Palingenio, così popolare nell’Inghilterra elisabettiana e amato dallo stesso Digges. L’autore dello Zodiacus vitae ha sì il merito di aver confutato “colui che riteneva che nulla si potesse pensare oltre i cielo e che nella sommità dell’etere fosse posto il limite delle cose, oltre il quale la natura non può estendere le proprie forze”, riconoscendo che un Dio di potenza infinita deve essere necessariamente anche di atto infinito: diversamente , vana sarebbe la sua potenza e lui indegno del nome di artefice. E tuttavia, dopo aver ammesso l’infinito, Palingenio sposa i dogmi di Platone, negando la possibilità di un “corpo” infinito e credendo che “vi sia, oltre la suprema convessità dell’etere finito, una luce pura, infinita senza corpo”. In altre parole, “inveisce contro il senso fisico” aprendo le porte al mistero. Distinguendo tre tipi di luce ( una ” circonda i corpi ed è visibile ai nostri sensi, un’altra che è al di là di questi confini, una terza che è parte del regno mondano ed essa rifulge con un mirabile splendore, sopra il cielo”) e confrontando quella del Sole con quella che “Dio diffonde da sé”. Palingenio incorre per Bruno in uno sciocco errore, dal momento che, se si ammette “un uno continuo e immenso”, o si pone la materia in nessun luogo, oppure la si pone ovunque:
Nemmeno Platone ha osato affermare che il finito sia continuo con l’infinito: l’ente incorporeo non può coesistere con l’ente corporeo, poiché a essi è negato un genere comune. Solo per chi avrà definito il continuo e l’immenso nello spazio immenso come vero, ente, uno e bene e per chi considera un’unica luce che, omogenea, si diffonde per ogni dove, ma che variamente è percepita, più e meno, in relazione al substrato, rimane un’unica specie, risulta un medesimo genere.
Non vi sono differenze nella “potenza” dello spazio, né sono individuabili distinzioni nel “potere manifesto” del sublime efficiente. Piuttosto, vi è un “unico aspetto delle cose”; ovunque sono disseminati mondi innumerabili, secondo “un unico principio in ordine continuo”. Né potrebbe essere diversamente, giacchè non è pensabile lo spazio senza il corpo, come non sono immaginabili lo spazio e la materia senza la forma. Ovunque agisce “una simile potenza generativa, un unico padre e un medesimo spirito”. È in nome dell’ontologia che sottende la nova filosofia che Bruno rigetta le distinzioni care a Palingenio: esiste un’unica luce, la sola possibile, quella fisica. Ammetterne una incorporea significherebbe distinguere tra essere ed essenza, tra forma e materia; se è possibile in astratto, ciò però non ha alcuna consistenza nella realtà: “distingua pure il fisico la materia dalla forma e definisca quanto vuole esattamente entrambe, ma non creda che esse siano in realtà separate”. Analogamente, non è immaginabile “un artefice che presieda dall’alto e che dall’esterno predisponga e configuri”. Sono cose queste che può credere solo ” un volgare scrittore”, un “cantastorie”, un “dilettante”: Dio, infatti, è ” infinito nell’infinito, dovunque in tutte le cose, non al disopra o al di fuori di esse”.
La cosmologia bruniana ha con ciò stesso eliminato – più tagliente di qualunque rasoio di Occam – il Signore che si librerebbe (nel vuoto?) sopra la sua (misera) creazione, il mondo chiuso non solo di tanta speculazione teologico – metafisica, ma anche di tanta rappresentazione poetica e pittorica: non c’è un pittore – cosmologo (né uomo né Dio) che possa uscire dall’Universo. La lezione del De la causa viene così ribadita a sostegno della rivisitazione bruniana del copernicanesimo, contro qualunque retaggio della tradizione aristotelica, ma anche contro quelle ” fantastiche idee di Platone” che a troppi hanno impedito di cogliere il senso autentico dell’infinità dell’Universo. “La materia fa scaturire ogni cosa dal proprio grembo, al sua intima natura è abile artefice, arte vivente, mirabile potenza dotata di mente,che esplica un atto relativo alla propria materia non a un’altra”. Intima alla materia, la natura è, nella sua eterna facoltà creatrice, “principio dell’essere, fonte di tutte le specie, mente , Dio, Essere, Unità, verità, Fato, Ragione, ordine”. Ciò significa che “Dio e la luce[..] sono presenti in questo mondo, tutti, non meno di quanto lo sia lo spazio di questo sensibile Universo”; invece di “speculare sulla volontà dell’efficiente”, cercando di glorificarla in un’incorporea luce, occorre ritrovarla là dove si mostra, ossia

Nell’inviolabile e sacra legge della natura, nello scrupolo dell’animo bendisposto verso la medesima legge, nello splendore del Sole, nella specie delle cose che si generano dalle viscere di questa nostra madre, nella sua vera immagine esplicata in modo corporeo nel volto degli innumerevoli esseri animati, che nelle immense distese di un unico cielo brillano, vivono, sentono, intendono, plaudono all’uno, ottimo e massimo. 

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