Le divinazioni pericolose

LA RELIGIOSITA’ DELL’ANTICA ROMA ABBONDAVA DI ELEMENTI MAGICI. AL PUNTO CHE LE LEGGI IMPERIALI DOVETTERO PROVVEDERE AD ARGINARE IL FENOMENO CON DUREZZA.
Caratteristica della civiltà romana fu il mantenimento, accanto a una profonda vocazione dell’universalismo e all’assorbimento dei costumi dei popoli con i quali entrava in rapporto, delle proprie peculiari caratteristiche storico-culturali cittadine. Dai tempi dell’espansione romana nel bacino del Mediterraneo fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, tutta la storia di Roma si caratterizzo come storia della tensione fra un’istanza universalistica, orientalizzante, sincretistica e un’istanza tradizionalista, cittadina: la prima aperta alle innovazioni e pronta a creare nuove sintesi con le civiltà con le quali entrava in contatto, la seconda stretta intorno ai costumi e alle tradizioni antiche.
Tante realtà locali
Al termine della fase che si può definire “preistorica”, quella precedente al VII-VI secolo a.C, la Penisola italica si presentava articolata in quattro grandi aree, a loro volta suddivise in numerose e difformi realtà locali: quella padana era occupata da un gruppo di ceppo linguistico indoeuropeo affine ai Celti; l’area centro-tirrenica era invece abitata dagli Etruschi, l’unica etnia della penisola non riconducibile al quadro etno-linguistico indoeuropeo; sul versante adriatico dell’Appennino e a sud del Tevere erano dominanti le cosiddette genti italiche, con preponderanza degli Unbri e dei Sabini, di comune famiglia linguistica (cui appartiene anche il latino); infine, nel Meridione- soprattutto sulle coste salentine, lucane, calabre e sicule- erano insediate da oltre un secolo vaste colonie di Greci.
Non mancavano minoranze che sfuggivano a tale ripartizioni, come i Fenici che popolavano la Sicilia occidentale e il litorale sardo-occidentale e i Messapi ( e forse anche i Daini e i Peuceti) di Puglia, affini agli illiri, tuttavia esse erano destinate a lasciar tracce meno evidenti nella cultura dell’Impero.

Il popolo degli stregoni
In Italia esiste un’area appenninica, più o meno compresa tra i Monti Sibillini a Nord e il Matese a sud, che sino a poco tempo fa ha costituito un’autentica riserva folclorica, e in cui soprattutto sopravvivevano sia la magia ofidica (cioè legata al culto dei serpenti), sia quella tempestarla. E’ la zona al cui centro si trova la Marsica. I Marsi erano, già per i Romani, il popolo degli stregoni per eccellenza, così come gli Etruschi erano il popolo dei divinatori. E dai Marsi provenivano ed erano penetrate in Roma, stando almeno a Ovidio- il quale, nativo di Sulmona, dei vicini ,arsi se ne intendeva-, la credenza e la paura nelle striges, le donne simboleggiate da uccelli rapaci o in grado di mutarsi in essi, che insidiavano la vita degli uomini, e soprattutto dei bambini. I Marsi, sconfitti dai Romani alla fine del IV secolo a.C, cessarono di ribellarsi solo nel secondo decennio del I.

Un Panteon condiviso
Il pantheon dell’Italia preromana era condiviso da gran parte delle comunità presenti: Giove, Marte, Cerere e molte altre divinità erano oggetto di culti simili, così come la figura di Ercole, il cui nome si ritrova con varie forme in tutta la Penisola, pur derivando dall’eroe greco Eracle; d’altra parte, fin dall’Età del bronzo con la civiltà micenea, e con maggior sicurezza a partire dal VII secolo a.C., i culti e i miti greci influenzarono profondamente la vita religiosa italica, inducendo un avvicinamento delle divinità locali a quelle greche, come nei casi di Zeus -Iuppiter e di Afrodite- Venus. Accanto ai culti comuni erano tuttavia presenti anche ampie differenze e insomma una pluralità di tendenze e atteggiamenti religiosi che non caratterizzavano solo i grandi raggruppamenti etnici, ma anche le più piccole comunità. I frequenti contatti favorivano gli scambi di elementi mito- cultuali, spesso incentivati anche dalla presenza di santuari cui afferivano comunità e gruppi etnici differenti.

Culti espropriati
Tra IV e III secolo Roma unificò sotto il suo potere la Penisola; le diverse forme di annessione adottate consentirono la sopravvivenza di molti elementi tanto religiosi quanto civici preromani. I popoli dai quali si era ottenuta la resa totale erano espropriati dei propri culti locali (così come di tutti gli altri diritti), parecchi fra i quali venivano trasferiti a Roma, dove trovavano posto tra il pantheon dei vincitori. Le comunità che riuscivano invece a mantenere una formale autonomia e che si dichiaravano quindi foederatae di Roma, conservavano anche i propri santuari, alcuni dei quali resistettero, ancora frequentati, nei secoli successivi.
A sua volta, Roma esportava nei nuovi domini italici i propri culti – non solo quelli della triade capitolina – , erigendo santuari e promuovendone così varie forme di acculturazione. Il rituale noto come evocatio, con il quale Roma “traeva a sé” le divinità dei nemici, presentava inequivocabili caratteri magici.
In particolare, il rapporto con i culti etruschi apportò nella religiosità romana primitiva numerosi caratteri magici: difatti, le pratiche divinatorie costituivano una parte non indifferente della religione etrusca. Le pratiche divinatorie e sacrificali di ascendenza etrusca, nella misura in cui costituivano un fatto pubblico, volto al bene comune, erano assolutamente lecite. Da qui la crescente importanza a Roma di pratiche quali gli auspicia, gli auguria,l’haruspicina:tutti riti e procedimenti magico- religiosi a carattere divinatorio.

Auspicia e aruspicina(appendice)
Nel mondo romano erano conosciute e praticate diverse forme di divinazione ufficiale. Attraverso gli auspicia (il termine deriva da avis “uccello”, e specio, “osservo”), per esempio, si osservava si osservava il volo degli uccelli o il comportamento di altri animali, al apri di fenomeni naturali quali tuoni o fulmini, al fine di determinare la volontà degli dei e rendersela favorevole. Gli auspicia venivano presi generalmente in un tempio rettangolare, da un magistrato assistito da un sacerdote detto “augure”.
Un altro tipo di divinazione era l’aruspicina (l’etrusca disciplina, dalla sua origine), anch’essa compiuta dagli auguri, che consisteva nell’esame delle viscere degli animali, la cui funzione era di garantire che le azioni compiute dagli uomini fossero gradite agli dei. Gli auguri erano costituiti in collegi, di enorme importanza nella vita politica e sociale della città.
Tuttavia già al tempo di Cicerone dovevano circolare numerosi auguri del tutto estranei al collegio ufficiale, che trasformavano la disciplina in una “superstizione” – è il parere dello stesso Cicerone -, attinta da popoli estranei alla tradizione romana. Si deve infine ricordare la divinazione attraverso i Libri sibillini, attribuiti alla Sibilla romana e risalenti al VI secolo a.C., affidati a un collegio sacerdotale di quindici membri.

In equilibrio con il cosmo
La divinazione, operazione squisitamente magica, che si basava sul dominio conoscitivo della natura attraverso la scienza delle sue leggi e dei segni che le enunziavano, costituiva anche la via per l’uomo di adeguarsi nel modo migliore al ritmo delle cose, sfruttandone al massimo i lati positivi e riducendo al minimo le conseguenze dell’azione di potenze infauste. La magia divinatoria garantica pertanto garante dell’equilibrio tra il cosmo e l’universo.
Man mano però che Roma procedeva nelle sue conquiste – appropriandosi tra l’altro, come abbiamo visto, delle divinità dei vinti – si inquinava la primitiva purezza del culto etrusco – latino. Questo non mancava di preoccupare i patrizi, custodi delle antiche tradizioni e con esse del prisco sociale e civile: il tradizionalismo religioso -cultuale si sposò per tempo, nella storia romana, al conservatorismo socio -politico. Già durante la seconda metà del V secolo, mentre le lotte sociali si profilavano all’orizzonte, manifestazioni di magia turbarono la vita della città, e nel 428 Livio ci dice che gli edili furono impegnati a che il culto degli dei tradizionali non fosse turbato da superstizioni straniere.

Le dodici tavole
Questa precoce tendenza al sincretismo non poteva non avere ripercussioni sul complesso magico della religione romana. La legge romana era attenta alla magia e prevenuta contro i malvagi effetti di essa, cioè contro quell’aspetto che più da vicino assomiglia a ciò che noi intendiamo come magia “nera “e stregoneria. Ma la normativa romana non si preoccupava della natura del fenomeno: ne definiva piuttosto gli effetti, dichiarandoli crimini. Un monumento delle prische credenze romane relative alla magia si ebbe con le cosiddette Dodici Tavole, la prima grande fonte del diritto romano, che risale al 451-449 a. C. Esse contengono presumibilmente influenze etrusche e antico-italiche.
La caratteristica delle azioni magiche denunziate dalle Dodici Tavole, appartengono in parte al quadro rurale. Era difatti punito nelle Tavole, con gravi pene, chi praticava una malia consistente nel catturare le messe altrui trasferendole nel proprio campo. Uno dei modi più comuni per danneggiare i raccolti era l’invocarvi la pioggia dannosa, la grandine , la tempesta; così com’era opera di magia bianca invocare sulla campagna assolata e arida il bene della pioggia ristoratrice. La magia rivelava a questo punto il suo carattere ambiguo: poiché i suoi effetti potevano essere positivi o negativi, era necessario l’intervento della legge per distinguere nel magico una sfera pubblica e lecita da quella privata, delittuosa e dunque illecita.
La legislazione imperiale tornò più volte su quest’ordine di problemi: certe forme di divinazione, certi riti misterici particolarmente immorali o pericolosi per la società, la fabbricazione di veleni, i malefici, gli incantesimi.

Il tempio della fortuna a palestrina
Tra i santuari preromani inglobati nel sistema culturale dei vincitori si può ricordare il caso dell’immenso Tempio della Fortuna primigenia di Preneste (l’attuale Palestrina), molto noto grazie alle pagine di Cicerone, sopravvissuto alla sottomissione romana e a lungo meta di imponenti pellegrinaggi, almeno sino al I secolo a.C. nel tempio Predestino si traevano le sortes, come racconta Cicerone; al tempo del quale, tuttavia, il santuario raccoglieva soprattutto pellegrini dei ceti medio-bassi ed era invece scarsamente considerato ai livelli più elevati:”Oggi quel luogo è chiuso da un recinto, in segno di venerazione, presso il tempio di Giove bambino (..). E dicono che in quel medesimo tempo, dove ora è situato il tempio della Fortuna fluì miele da un ulivo, e gli aurispici dissero che quelle sorti avrebbero goduto di grande fama; e per loro volontà con il legno di quell’ulivo fu fabbricata un’urna, e vi furono riposte le sorti, che ai nostri giorni vengono estratte, si dice, per ispirazione della Dea Fortuna. Cosa può esservi dunque di sicuro in queste sorti, che per ispirazione della Fortuna vengono mescolate e tirate da un bambino?E in che modo queste sorti furono riposte entro quella rupe? Chi tagliò, squadrò e incise di scritture quel legno di quercia? Rispondono: “Non c’è nulla che la divinità non possa fare”. Magari avesse infuso la saggezza negli stoici, per evitare che prestassero fede a tutto con superstiziosa sollecitudine e infelicità! Ma ormai l’opinione comune non dà più credito a tal genere di divinazione: la bellezza e l’antichità tengono ancora in vita il nome delle sorti prenestine, e solo tra il popolino”.

Ragioni Di Stato
Tuttavia se di “contenuti antimagici” nelle leggi imperiali si può parlare, ciò non è da intendere come un generale e onnicomprensivo “atteggiamento antimagico” delle stesse leggi. Come avrebbero mai potuto esprimere una legislazione “antimagica” quegli imperatori che, quali pontifices maximi, si trovano di continuo impegnati in culti che, per il loro carattere divinatorio, hanno ai nostri occhi un aspetto più magico che religioso? In questo senso, la religione romana era piena di elementi magici; l’opposizione riguardava i contenuti concreti di atti volti a nuocere con l’aiuto di tecniche particolari, poteri sovrasensoriali e addirittura entità extraumane; il tutto usato a fini individuali, privati e leciti in quanto proibiti dalla legge.
Una pesante “ragione di stato” si sovrapponeva a queste considerazioni. L’atteggiamento concreto e razionale dei Romani non si smarriva nell’esaminare se si potesse veramente credere nell’efficacia dei riti magici: l’importante era che il darsi a un rito del genere a fini criminali fosse già in sé un reato nella misura in cui mostrava la volontà di violare la legge e di commettere un atto proibito; si trattava già in sé di un delitto tentato; ai fini del giudizio era relativamente di scarso rilievo il fatto che la tecnica scelta per consumarlo (quella magica appunto) fosse difettosa.
La questione, comunque da giuridica diveniva appunto politica. Se la magia poteva davvero danneggiare a distanza , anche l’imperatore era in pericolo: e d’altro canto, in quel senso, la magia stessa poteva divenire un crimine di lesa maestà. La stessa divinazione si poteva configurare come tale, e l’indovino rendersi colpevole di attentato alla sicurezza dello Stato allorché, per esempio, avesse indagato sulla durata della vita e quindi sul momento della morte dell’imperatore, magari per consigliare ad aspiranti usurpatori o a forze sovversive il momento più opportuno per agire; sovvertitore dell’ordine costituito poteva essere l’astrologo che andava cercando nelle stelle l’istante più favorevole alla riuscita di un attentato, di una congiura. I poteri costituiti erediteranno in pieno nel Medioevo questo atteggiamento antimagico giustificato dalla preoccupazione di stabilità politica.

Libri Al Rogo
A cavallo fra il I secolo a.C e il I d.C l’imperatore Augusto , in qualità di pontefice massimo, aveva ordinato il rogo di oltre duemila libri di divinazione: è assai arduo dire quali criteri filologico-testuali, tradizionali o religiosi egli avesse usato questa operazione. Poco più tardi Tiberio, che pure, specie alla fine della sua esistenza, viveva circondato da indovini, proseguì come un crimine la divinazione professionale (contrapponendola quindi a quella di Stato, per la quale vi erano cerimonie stabilite e precisi collegia di sacerdoti) e cacciando dall’Italia i divinatori stranieri. Ma erano i malefici a scopo politico a preoccupare: nel I secolo I Tacito informava che, dopo la misteriosa morte del principe Germanico, furono trovati dietro le mura e sotto il pavimento della sua dimora strumenti che indicavano la consumazione di un maleficio. Naturalmente la paura di simili fatti variava da periodo a periodo e da sovrano a sovrano: alla fine del I secolo Domiziano, accordando un’udienza al Taumaturgo Apollonio di Tania, in fama di grande mago, lo aveva costretto a deporre qualunque amuleto, libro o scritto portasse indosso prima di ammetterlo alla sua presenza; sotto Caracolla, era proibito perfino portare amuleti contro le malattie. 

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