L'arte della tolleranza

In Germania Bruno scopre l’altro volto del luteranesimo e risponde con quei tre “doni” che costituiscono la grandiosa trilogia di Francoforte.
“Tornando il detto Ambasciator in Francia alla Corte, l’accompagnai a Paris; dove stetti un altro anno trattenendomi con quelli signori ch’io conoscevo, a spese però mie la maggior parte del tempo”. Così, nel secondo dei suoi costituti (30 maggio 1592), bruno racconta agli Inquisitori veneti il ritorno a Parigi nell’ottobre del 1585, al seguito di Michel de Castelnau, presso il quale aveva soggiornato a Londra. Nella capitale francese trova un clima diverso da quello di due anni e mezzo prima. Nel luglio 1585 Enrico III ha revocato l’editto di pacificazione con i protestanti; nel settembre è stata pubblicata la bolla di papa Sisto V contro Enrico di Navarra ( il futuro Enrico IV). Ciò spiega perché, appena messo piede a Parigi, il Nolano cerchi di rientrare nei ranghi della Chiesa Cattolica, secondo una strategia adottata tempo addietro a Tolosa: “Sono da sedici anni incirca – dichiarerà nel quarto Costituto del 2 giugno 1592 – che io non mi sono mai presentato al confessore, eccetto dui volte; una volta in Tolosa da un iesuito; et un’altra volta in Parisi da un altro iesuito, mentre trattavo, per mezzo di monsignor Vescovo di Bergomo, allora nonio in Paris, et di don Bernardin di Mendoza, de ritornar nella religione, con intenzione di confessarmi”.
Come a Tolosa, anche a Parigi la trattativa non ah successo. “Loro me dissero che non potevano assolverme per essere apostata, et che non potevo andar a li divini offitii”. Nei suoi resoconti agli Inquisitori veneti Bruno omette due episodi che dovevano contribuire alla scelta di interrompere il secondo soggiorno parigino e trasferirsi in Germania. Il primo è legato all’incontro/ scontro con il matematico salernitano Fabrizio Mordente, inventore di un particolare compasso di proporzione che, come ha sottolineato (2002) Paolo Casini, essendo “munito di cursori scorrevoli lungo le due gambe e di una riga che recava incise varie scale proporzionali”, non soltanto “consentiva di compiere una serie di operazioni geometriche ‘euclidee’ “, ma rappresentava anche “un vero e proprio strumento di calcolo atto a ricavare radici, a duplicare il cubo e a quadrare il cerchio mediante procedimenti fondati su interi e frazioni di interi”, i quali, benché di “sommaria approssimazione”, potevano “dare l’impressione che nessun residuo fosse trascurato”.
In una pagina del suo diario Guillame Cutin, bibliotecario dell’abbazia di Saint Victor, ricorda come Bruno fosse rimasto impressionato da Mordente, al punto da considerarlo una sorta di “dio dei geometri”,e., poiché questi non conosceva il latino, si fosse fatto carico di “far stampare le sue invenzioni”. Nel 1586, presso Chevillot, il Nolano pubblica i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione ad perfectam cosmimetriae praxim, seguiti da un’appendice dal titolo Insomnium. L’uscita di questi dialoghi scatena una durissima polemica, animata non solo da riserva di carattere scientifico, ma anche da risentimenti di tipo personale e da dissensi d’ordine pubblico. Dalla ricostruzione che ne dà Jacopo Corbinelli, in una lettera del 14 aprile 1586 a Gian Vincenzo Pinelli, veniamo a sapere che, dopo aver “messo in cielo il compasso di Fabritio”, bruno avrebbe, come filosofo, modificato “il giudizio e la traditiva” del Mordente:

quasi mostrandoli ch’elli habbia bisogna d’un che dichi meglio le ragion sue. Fabritio fulminava, et voleva stampare ma s’avviluppa quando parla, et quando scrive; e’l Nolano che sapeva quanto s’era preparato a volerli ben lavar il capo nel II Dialogo. Mi par la cosa sia cessata,e t che ciascun si contenti di non passar più oltre. Al Fabritio costa parecchi scudi per comparir et far abbruciar il Dialogo del Nolano.
Nel timore che Bruno potesse essere considerato l’inventore del compasso, Mordente aveva acquistato e distrutto tutte le copie disponibili dei Dialogi (tranne le due, una completa e una incompleta, che sono giunte a noi). D’altro canto, che lo scontro fosse destinato a durare è lo stesso Corbinelli a riconoscerlo in una lettera del 6 giugno: “Il Nolano sempre contra il Mordente, et nuovi dialoghi”. Si allude qui all’ Idiota triumphans seu de Moerdentio inter geometras Deo dialogus e al de somnii interpretatione seu Geometrica silva inscribitur – due titoli che non hanno bisogno di commento. Alla querelle filosofico – geometrica si affianca ,l’ostilità politica: bruno aveva dedicato la figuratio aristotelici physici auditus, in cui esponeva gli otto libri della Fisica con immagini mnemoniche di carattere mitico, a Piero del Bene, paladino della politica conciliatrice di Enrico III e noto per le simpatie per il re di Navarra (il “terzo Enrico”); il Mordente, dal canto suo, si era rivolto a Enrico di Guisa (“vuole ch’egli pigli il mondo coi suoi ingegni”), mettendosi a disposizione della fazione opposta a quella in cui il Nolano aveva cercato il sostegno fin dal primo soggiorno parigino.
A indebolire ulteriormente Bruno interviene la disputa che presenti i lecteurs royaux , egli ha al Colelge de Cambrai il 28 maggio 1586, sulla base dei Centum et vigenti articoli de natura et mundo adversus Peripateticos da poco stampati sotto il nome dels uo discepolo Jean Hennequin. È ancora Corbinelli a osservare, nella lettera del 6 giugno, come il Nolano, “piacevol compagnetto, epicureo per la vita”, fosse “dreto a distruggere tutta la filosofia peripatetica et per qule poco ch’io ne intendo mi par che è dica molto bene le ragion sue” Bruno sceglie una tattica diversa da quella di Oxford (dove, secondo il resoconto di George Abbot, “aveva occupato il posto più alto nella nostra migliore e più famosa scuola”), lasciando a Hennequin l’onore (e l’onere) della scena. Ma per uno spirito come il suo le cautele non sono mai troppe: al termine della requisitorie di Hennequin, il Nolano si alza invitando a gran voce i difensori d’Aristotele a farsi avanti. Come ricorda Cotin, tra questi vi è un giovane avvocato, Roger Collier, il quale, dopo avere dichiarato Bruno indegno di risposta, lo invita a ribattere alle sue obiezioni; non pago, mentre “gli studenti tenevano il Nolano per le mani, dicendo che non lo avrebbero lasciato andare se egli non avesse risposto o se non avesse ritirato le calunnie lanciate contro Aristotele”, balza sulla cattedra per continuare la difesa dello Stagirita e denunciare le “imposture e vanità di Bruno”, sfidandolo a tornare l’indomani per rispondergli. Il Nolano lascia cadere la sfida, “e da allora non si è più visto in città”.
È probabile che a spingere Bruno ad abbandonare Parigi, più che la delusione per la sconfitta, sia statat l’amarezza di dover constatare che alla guida degli aristotelici si era schierato Collier, aderente al suo stesso gruppo, quello dei politiques. Senza l’appoggio di costoro, mal visto dai Guisa sobillati dal Mordente e trattato come apostata dalla Chiesa di Roma, non gli restava che partire. Corbinelli era ben informato, quando scriveva a Pinelli: “Penso che sarà lapidato da questa Università. Ma presto se n’andrà in Alemagna”.
Bruno vi si reca davvero, nel giugno 1586. Come dichiarerà nel secondo Costituto del 30 maggio 1592:

feci prima recapito a Menz, alias Magonza, che è una città archiepiscopale et il primo elector dell’Imperio, dove stetti fino 12 giorni. Et non trovando né qui, né in Vispure [ Wiesbaden], luoco pocco lontano de lì, trattenimento a mio modo, andai a Vittiberg [Wittemberg] in Sassonia; doove trovai due fattioni, una de filosofi che erano Calvinisti , et l’altra di teologi, che erano Luterani. Et in questi uno dottore che si chiamava Alberigo Gentile marchigiano, il quale haveva conosciuto in Inghilterra, professor di legge, che me favorì et me introdusse a legger una letione dell’organo di Aristotile; la qual lessi con altre lettioni di filosofia dui anni.
Agli Inquisitori veneti Bruno tacerà di aver soggiornato, dopo Magonza e Wiesbaden, per un qualche tempo a Marburgo, alla cui Università venne immatricolato il 25 luglio 1586 come Theologiae doctor romensis . Quasi subito si era visto costretto a dare le dimissioni, per l’stilità delle autorità accademiche che gli avevano, tra l’altro, impedito di tenere pubbliche lezioni. È solo a Wittenberg che il Nolano trova la pace a lungo cercata, trascorrendovi uno dei periodi più tranquilli e fecondi di tutta la sua vita. A differenza che a Parigi, viene accolto nel corpo dell’università ( come doctor italus) , dove insegna dall’agosto del 1586 fino al marzo del 1588. è in tale periodo che scrive opere importanti, tra cui la cosiddetta “trilogia delle lampade” – il De lampade combinatoria lulliana (1587), il de progressu et lampade venatoria logicorum (1587) e, soprattutto, la Lampas triginta statuarum (che sarà pubblicata nel 1891,, nell’edizione nazionale degli Opera) , Oltre a vari commenti ad Aristotele (pubblicati nel 1891, sotto il titolo di Libri Physicorum Aristoteli explanati).Prepara, infine, una nuova edizione, ampiamente riveduta, dei centum et vigenti articoli che pubblica accompagnata da un discorso apologetico di Mannequin, Iordani Bruni Volani Camoeracensis Acrostimus.
Tolleranza e verità
A riprova della felice esperienza di Wittemberg valgano le parole con cui nella prefazione al De lampade combinatoria lulliana Bruno si rivolge ai colleghi professori, i quali non avevano “storto il naso”, “affialto le zanne” o “gonfiato le bocche”, né “schiamazzato dai pulpiti” o incitato contro di lui “il furor dei pedanti”; ma, pur ascoltando le dottrine che avevano suscitato scalpore a Tolosa, a Parigi e a Oxford, avevano serbato “illibata la libertà filosofica”, concedendo “a un uomo esule e straniero di dedicarsi a quelle lezioni private e a quelli studi grazie ai quali egli ha potuto almeno respingere fino a questo giorno le ingiurie della povertà”, un uomo, aggiungeva il Nolano, “di nessuna fama, gloria o rinomanza presso di voi, sfuggito ai tumulti della Francia, non sostenuto da alcuna raccomandazione di Principi, senza alcun ornamento esteriore”, il cui unico titolo è quello “della professione filosofica”, di cui “voglio massimamente gloriarmi e rallegrarmi perché da esso non scaturiscono scismi o divisioni”.
Altrettanto commossa è l’Oratio valedictoria, pronunciata l’8 marzo 1588, con cui il “dottore italiano” esprime al propria gratitudine a quelli dell’Università tedesca, prima di prendere congedo:

accoglieste me, cieco per l’amore della nostra Minerva, dico di quella vergine che è la vostra madre di famiglia, cieco e desipiente; ed entro i vostri lari per lo spazio di circa due anni mi proteggeste, e con certa giovial mente mi sosteneste, e non porgeste affatto orecchie ai nemici miei, sicchè potei solo esservi occasione, materia, subbietto in cui dar l’esempio e mostrar le ricchezze delle vostre virtù di moderazione, urbanità e longanimità, provandole al cospetto del mondo.
Non meno degne di nota sono le pagine sulla sapienza, che non può adattarsi agli occhi della mente umana se non “in ombra di luce”, e sulle vicissitudini, che nel corso di una vicenda millenaria l’hanno condotta a cambiar paese e “mutar sede”, passando dagli Egizi e dagli Assiri ai Persiani e agli Indiani, quindi ai Traci e ai Libici, ai Greci e ai Romani, per accasarsi infine in Germania. Certo, nel porre la Germania al culmine della mutazione vicissitudinale della sapienza il Nolano non poteva non aver tenuto conto dell’occasione dell’ Oratio; non va però dimenticato che in lui sempre viva era stata al considerazione per la cultura tedesca, passata e presente; da Alberto Magno a Cusano, da Copernico a Palingenio, per non dire di Paracelso.
Ma se analoghi giudizi si possono ritrovare nei dialoghi italiani o nelle opere latine, diverso è il caso di Lutero. Il padre della Riforma ha ormai smesso i panni del pedante per assumere quelli dell’Ercole trionfatore delle “adamantine porte dell’Inferno, di quella città circondata di triplice muro, stretta dai nove giri dello Stige”. Il rovesciamento del giudizio su quello che è ora il difensore della libertà tedesca contro il pontefice romano pare dettato, più che da considerazioni teologiche o da ragioni d’opportunismo sociale, da vere e proprie motivazioni civili. La libertà e la tolleranza che il Nolano respira a Wittemberg gli sembrano il frutto maturo della strategia politica del ceto dirigente di matrice luterana:

Voi non mi disprezzaste, e lo studio mio, non del tutto alieno dallo studio di tutti i dotti della vostra nazione, non lo riprovaste in guisa da permettere che fosse violata la libertà filosofica e macchiato il concetto della vostra insigne umanità; al contrario, accoglieste me, cieco per l’amore della vostra Minerva.
Come lo stesso Bruno racconterà agli Inquisitori veneti, sarà solo il prevalere della fazione calvinista su quella luterana ( ” essendo successo duca il figliolo del Vecchio, che era calvinista, et il padre luterano, cominciò a favorire la parte contraria a quelli che favorivano me”) a spingerlo a lasciare Wittemberg e a trasferirsi per circa esimesi a Praga, dove ha la sua corte l’imperatore Rodolfo II: “et mentre che mi trattenni là, feci stampar un libro di geometria, il qual presentai all’Imperator, dal qual hebbi in dono trecento talari”. Si tratta degli Articuli contra mathematicos, in cui il Nolano delinea, in polemica con la diffusa visione meccanica della natura, quella concezione della mathesis che troverà più articolata espressione nel De minimo ( sotto questo aspetto, eè forse qualcosa di più di una coincidenza il fatto che in quel periodo si trovasse a Praga, in qualità d’astronomo imperiale, il tanto vituperato mordente!). E nella professione di fede contenuta nella dedica all’Imperatore presenta una delle più alte formulazioni della “religione della tolleranza” e della libertà di pensiero che mai siano state scritte.
La distinzione tra luce e tenebre ha generato un sempre più acuto conflitto d’opinioni: ma bruno osserva come i più ottenebrati tra gli uomini siano coloro i quali ringraziano dio per aver concesso loro la “rivelazione della luce, al conquista del porto e la dimora nella casa della verità”, come se Egli si fosse dimenticato degli altri esseri umani, “condannandoli all’eterna morte e aborrendoli, giudice senza indulgenza e vendicatore senza pietà”. Tra le “tante sette che professano così diverse opinioni” non ve ne è stata una che non si sia attribuita il primato e non abbia disprezzato le altre, ritenendo peccato e “delitto” avere una qualche comunione con loro:

si è arrivati così al punto che l’uomo discorda dall’uomo più cha da ogni altro essere, e è nemico all’uomo più che a tutti gli altri esseri viventi. Dovunque giace negletta quella legge d’amore, pur tanto diffusamente celebrata, al quale, nata non dal malvagio demone di una singola gente, ma, in verità, da Dio padre di tutti, in quanto conforme alla natura universale, proclama l’amore del genere umano [generalem philantrophiam], per cui dobbiamo amare anche i nostri nemici, onde non essere simili ai bruti e ai barbari, e diventare, invece, immagine di colui che fa nascer e il suo sole sui buoni e sui cattivi, e piovere le sue grazie sui giusti e sugli ingiusti. Questa è al religione che io osservo senza alcuna controversia e prima ancora di ogni disputa, sai per convincimento dell’animo, sia per antico costume della mia patria e della mia gente.
Se questi sono i caratteri della vera religione, non meno importanti sono i principi che devono presiedere alla ricerca della verità:
nel dibattito è pregiudizievole definire una cosa che non sia stata ben considerata, è iniquo consentire solo per ossequio ad altri, è mercenario, servile, contrario alla dignità della libertà umana consacrarsi e sottomettersi a qualcuno, è stupidissimo credere per consuetudine, è irragionevole assecondare l’opinione della maggioranza, quasi che il numero dei sapienti debba superare o avvicinarsi all’infinito numero degli stolti.
Nel corpo dell’umana Repubblica i sapienti hanno al funzione di tutelare la “città dell’anima”, facendo sì che in essa viga “la legge che si richieda la ragione la ragione vera e necessaria” e che mai valga, “al posto dell’argomentazione, l’autorità di un uomo, per quanto illustre ed eccellente”. Perciò, conclude Bruno, in materia di filosofia,
ascolterò soltanto quei maestri che insegnano nona chiudere gli occhi, ma ad aprirli più che è possibile. Così solleviamo il capo al dilettoso folgore della luce, ascoltiamo la natura che parla a voce spiegata, seguiamo con semplicità e purezza di cuore la sapienza [..]. così fin da principio deliberammo che invano gli altrui clamori ci avrebbero chiesto di chiudere e abbassare quegli occhi, che Dio ci ah dati aperti e rivolti in alto.
Attrazione e vincoli della magia
Incassati i ” trecento talari”, il Nolano lascia nell’autunno del 1588 Praga alla volta di Helmstedt, dove il 13 gennaio 1589 viene immatricolato all’Accaddemia Iulia, fondata oltre un decennio prima dal duca Giulio di Brunswick- Wolfensbuttel, un vecchio protestante,a differenza del figlio, Enrico Giulio, nominalmente cattolico. Come racconterà durante il processo, “occorrendo in questo tempo la morte del duca, quale era eretico, feci un horatione alle sue esequie, in concorso con molti altri dell’Università; per la qual il figliolo successore mi donò ottanta scudi de quelle parti”. In quell’ Oratio consolatoria Bruno non si limita a tessere le lodi del defunto “eretico”, bensì prospetta un progetta di riforma del diritto naturale e di quello celeste, volto a sovvertire la tirannide papale e le sue “blasfeme lingue” che infettano il mondo con il veleno del vizio e dell’ignoranza. Sembrano lontani gli anni dello Spaccio , in cui le speranze della riforma nolana erano riposte nel “cristianissimo”, santo, religioso e puro [..] re della magnanima, potente e bellicosa Francia”: nello stesso 1589 Enrico III è assassinato da un fanatico cattolico e Parigi sta per cadere sotto l’assedio delle armate di Enrico di Navarra.
È nel nuovo quadro politico – religioso che si colloca l’elogio del duca Giulio, anche se, come dichiarerà lo stesso Bruno nel quinto costituto del 3 giugno 1592, la sua ammirazione non andava all’eretico in quanto tale, bensì alle virtù morali che questi aveva saputo incarnare. D’altro canto, che i rapporti con i protestanti non fossero più quelli di Wittenberg lo testimonia la scomunica pronunciata contro il Nolano dal sovrintendente e pastore della chiesa luterana, Gilbert Voet. Senza l’intercessione del cattolico Enrico Giulio, difficilmente Bruno avrebbe potuto pronunciare l’Oratio e proseguire i suoi studi a Helmstedt, impegnandosi nella composizione dei tre grandi poemi latini, pubblicati nel 1591 a Francoforte e non a caso dedicati all'”illustrissimo e Reverendissimo Duca di Brunswick e di Luneburg, Vescovo di Halbertstadt”, in nome non tanto della di lui adesione al cattolicesimo, quanto dell’antica consuetudine, affermatasi “presso gli Egizi prima e successivamente presso i Persiani e i Romani”, secondo cui ” i re devono essere scelti tra i sapienti e i sacerdoti entro al casta regale; e giustamente erano denominati Trismegisti in virtù della loro scienza, potenza e autorità”.
A Helmstedt il nolano comincia ad accendere la grande “luminaria” delle “opere magiche”, mettendo mano a una serie di testi che rimarrannoa lungo inediti e saranno pubblicati solo nel 1891: il De magia, le theses de magia, il De magia mathematica, il de rerum principis et elementis et causis, la medicina lulliana e il De vinculis in genere. Dal punto di vista sistematico, essi riprendono (e sviluppano) i cardini fondamentali della filosofia bruniana; nel De magia, in particolare, il Nolano pone alla base dell’azione magica l’assioma per cui “da Dio c’è discesa all’essere vivente attraverso il mondo, e dall’essere vivente ascesa attraverso il mondo fino a Dio”; come già nello Spaccio , sottolinea l’onnipresenza dell’anima del mondo, riconoscendo al contempo come essa non agisca ugualmente ovunque, ma si dispieghi ora in un modo ora in un altro. Si tratta del principio fondamentale della magia, che è alla “radice di tutti i principi atti a render ragione di tutte le meraviglie che sono nella natura ” e in virtù del quale

Dalla parte del principio attivo e dello spirito anima universale, non c’è nulla di tanto incompleto, manchevole e imperfetto e insomma trascurabilissimo agli occhi dell’opinione,c eh non possa essere principio di grandi operazioni; anzi, per lo più bisogna che abbia luogo al dissoluzione di cose di questo genere, perché da esse si generi quasi un nuovo mondo.
Come si legge anche nelle Theses de magia , è per la “continuità con lo spirito e l’anima dell’universo” che ogni singola anima ha il potere di operare effetti irriducibili alle qualità attive e passive, nonché quello di agire a distanza, anzitutto attraverso l’attrazione:
ogni anima è in tutto l’orizzonte, e riceve influsso da tutto l’orizzonte e a sua volta lo esercita a tutto l’orizzonte: si apre qui il campo delle operazioni magiche che restano operazioni fisiche e tuttavia il soggetto,a grande distanza, per un qualche genere di potenza spirituale, è in condizione di imprimere effetti e passioni su un soggetto lontano.
A differenza che nelle opere precedenti, bruno non si limita più a enucleare i principi della magia, ma mira a individuare le condizioni (vincoli) che ne rendono efficaci gli interventi. Anzitutto, occorre rilevare la loro appropriatezza, ossia “il rispetto delle circostanze di tempo, di luogo e di tutti gli altri aspetti concomitanti”; bisogna poi prestare attenzione al potere attrattivo della voce (secondo vincolo), sia essa anche un “sussurro segreto”; al ruolo della vista (terzo vincolo), giacchè “molte cose, passando clandestinamente per gli occhi, giungono a imprigionare[..] gli spiriti sino alla morte dell’anima”; alla forza della fantasia (quarto vincolo), che “fa da porta e da ingresso principale alle azioni e alle passioni a tutti gli stati d’animo che han luogo nell’essere animato”; infine, all’azione della facoltà cognitiva (quinto vincolo), che è la “sola porta degli affetti interni e il vero vincolo dei vincoli”, in quanto instilla quella fede senza la quale i maghi, come i profeti e i medici, non riuscirebbero con i loro spettri a incatenare, oltre agli ignoranti e ai creduloni, anche gli ingegni ben disciplinati. Tutto ciò consente al mago di agire sull’anima di ciascun uomo, dotto o insipiente che sia, permettendo
L’accesso di quelle impressioni che l’arte del vincolante richiede per introdurre poi i vincoli successivi, che sono speranza, compassione, timore, amore, odio, indignazione, ira, gioia , pazienza, disprezzo di vita, di morte e fortuna, e tutti gli altri stati d’animo le cui energie passano dall’animo a modificare il corpo.
Bruno sa bene che la considerazione delle tecniche magiche di convincimento e di persuasione non può prescindere dall’analisi sistematica delle implicazioni politiche e civili della magia, nonché dal riconoscimento della necessità di una “teoria universale delle cose” capace di dar ragione delle differenze sussistenti tra gli esseri umani, in modo da ottenerne volta per volta il consenso. Così, nel De vinculis dichiara che il buon mago deve esser buon filosofo, poiché i suoi vincoli presuppongono la conoscenza dei nessi che legano le cose e delle differenza che le separano, ossia dei rapporti di amicizia e di inimicizia, di simpatia e di antipatia che le animano. È infatti nel superamento della “filautia”., cioè nell’amore di sé, che risiede il successo del vincolare: solo chi sa estinguere tale amore è “in condizione di legare e sciogliere in qualsiasi modo”; ma solchi sa accenderlo meglio di altri può imbrigliare i soggetti in questione nei tipi di vincoli che sono loro naturali.Più della ragione, che non ha “carte per legare”, conta qui la passione: senza di essa non si riesce a legare nessuno, né con vincoli di civile conversazione né con vincoli magici. D’altro canto, nessuno vincola se, a sua volta, non si vincola; cioè se non si stabilisce una “simpatia”profonda tra vincolato e vincolante. Ciò vale anche sul piano dei rapporti sociali: “l’oratore non suscita passione senza passione”. Né l’efficacia del vincolare si misura con il metro della verità; anzi, “l’immaginazione senza verità può vincolare veramente, imbrigliare veramente il destinatario del vincolo per via immaginaria”. Sicchè, ai fini del consenso, non è il vero a decidere, bensì al forza della passione, la capacità di legare con l’immaginazione.
Insistendo sulla connessione tra magia e “civile conversazione” BRuno delinea una concezione della politica come” tecnica dei comportamenti civili” che investe i vari livelli della società, dalla corte all’amministrazione, e che coincide essenzialmente con la prudenza, ovvero con al capacità di distinguere volta per volta gli strumenti più adatti per ottenere il consenso, ricorrendo, laddove è necessario, anche alla dissimulazione. Non diversamente dall’operare magico, l’arte del vincolare presuppone un mondo di passioni elementari, oscure, sostanzialmente ignoto nelle sue dinamiche profonde: è una tecnica di governo imperniata nella conoscenza, per quanto è possibile, dei moventi che agitano l’animo umano e ne dirigono azioni e passioni.
L’analisi del fenomeno magico offre infine sa Bruno l’occasione per gettare un ponte tra la dimensione etico- civile, già prefigurata nei dialoghi morali londinesi, e l’ontologia della vita – materia infinita professata nel De la causa . Il Nolano non solo ribadisce “come la materia contenga nel proprio seno l’avvio di tutte le forme, sicchè da esso tutte le produce e le emette”, ma dichiara che chiunque “rifletta sul vincolo dal punto di vista delle sue applicazioni civili e secondo tutte le prospettive” deve aver chiaro che ” in tutta la materia o in una parte della materia, in ogni individuo o nell’individuo singolo, vivono allo stato latente tutti i semi delle cose”, sicchè, “con accorto sacrificio, si possono attivare le applicazioni di tutti i vincoli”. In altri termini: la realtà, al apri della società, si configura come un campo di straordinarie potenzialità, spezzando ogni confine rigido, ogni incomunicabilità. Attraverso l’applicazione dei vincoli si può dunque dar vita a un processo generale di renovatio dell’esistente, intervenendo nel destino di ogni cosa.
Ciò traspare nel caso dell’amore, che Bruno considera fondamento di tutte le passioni, e il cui vincolo testimonia ovunque al perfezione, dal momento che “quando una cosa imperfetta ama esser condotta alla perfezione”, consegue “il suo oggetto certo attraverso imperfezione, ma non da imperfezione, bensì da una qualche forma di partecipazione alla perfezione”. Né si deve pensare che la riflessione sull’amore “sia troppo lontana dall’impegno civile, solo perché il suo orizzonte è più ampio di ciò che l’impegno civile richiede”; se così fosse, essa non sarebbe in grado di rivelare quel “principio perfettissimo” che “aspira a divenire tutte le cose ed è rapito non verso una forma particolare e una perfezione particolare, ma verso al forma universale e la perfezione universale”. E questa, scrive Bruno , è

La materia in universale, fuori dalla quale non si da forma e nella cui potenza ed energia desiderante e disposizione stanno tutte le forme; ed essa, che non ne potrebbe accogliere simultaneamente neanche due, le accoglie tutte in sé in una sorta di eterna vicenda. Dunque, alcunchè di divino è la materia, come alcunché di divino è ritenuta la forma, al quale o è nulla o è parte della materia: nulla fuori della materia o senza la materia, così come il poter fare o il poter essere fatto sono una sola e identica cosa e poggiano su un solo indivisibile fondamento e assieme si dà e assieme si toglie ciò che può fare tutto e ciò che può esser fatto tutto. E una sola è la potenza assoluta e in sé presa[..] come abbiamo argomentato più analiticamente nello scritto De l’infinito e l’universo e più rigorosamente nei Dialoghi del principio e dell’uno.
Non pochi studiosi, richiamandosi alla nota interpretazione di Franco Yates, hanno considerato le opere magiche come l’esito ultimo di un interesse ricorrente nel pensiero bruniano fin dall’inizio. Tuttavia, c’è differenza tra il Sigillus e lo Spaccio, e il De magia o il DE vinculis; solo in questi ultimi testi assumono rilievo centrale (anche se non esclusivo) problemi e lessici di carattere magico. Sicchè, l’interpretazione di Bruno come “mago ermetico” appare per lo meno unilaterale, anche se ha avuto il merito di focalizzare l’attenzione su quella attenzione alla prassi che è tratto fondativi della ricerca bruniana e che trova nelle opere magiche un organico punto d’approdo.
La trilogia di Francoforte
Che l’esperienza della mafia si inscriva nella più generale impresa della filosofia bruniana è confermato dal fatto che contemporaneamente alle opere magiche il Nolano abbia lavorato ai tre grandi poemi latini, il De triplici minimo et censura ad trium speculativarum scientarum et multarum activarum artium principia libri V, il De monade, numero et figura liber consequens quinte De mino magno e il De innumerabilibus, immenso et infigurabilis, seu de Universo et mundis libri octo che, insieme al De iamginum composizione (l’ultimo testo di cui egli abbai curato direttamente l’edizione), vengono pubblicati enl corso del 1591 a Francoforte, dove Bruno si reca una volta abbandonata Helmstedt nel giugno del 1590. è il momento in cui delinea una unificazione delle componenti principali della propria riflessione, gettando nuova luce sul progetto, ami abbandonato, di una riforma universale dell’ordine umano, naturale e divino. A un tale progetto il Nolano allude sin dalle prime battute dell’Epistola dedicatoria che, pur posteriore al De minimo, rappresenta l’ideale proemio dell’intera trilogia francofortese. Si è ricordato il riferimento all’antica consuetudine egizia secondo cui i re dovessero essere scelti tra i sapienti e i sacerdoti entro la casta regale; ora, Bruno aggiunge che “il filosofo non deve mai sopprimere la luce della ragione per paura dei più potenti, mostrandosi insensibile alla voce della natura”; né deve camuffare la verità per ricevere il consenso degli uomini di Chiesa. Si tratta di una dichiarazione paradigmatica, sotto lo stesso profilo politico; “il re non deve mai asservirsi al volere di un insolente e stupido sicofante, mosso dal desiderio del cielo e dalla paura del tartaro”. Guai a quel governante che si lasci tramutare in “idolo, braccio,strumento di ignoranza, stoltezza, malizia”. Facendo sua la retorica antiidolatrica dell’estremismo protestante, il Nolano lancia il suo strale polemico contro i fanatici religiosi di ogni colore, lasciando intuire quale sia l’autentica valenza del modello egizio. Parla al passato, ha di mira il presente, disegna il futuro:

Così la prudenza delle cose, la potenza dell’azione e al ragione del compimento (come una triplice combinazione) si distinguevano, eccellevano, rifulgevano altamente a gloria del principe, all’utilità dello Stato e a modello di un’epoca. E così il Sapiente, potente e spregiatore della potenza allo stesso tempo, non si vendeva al denaro altrui; il Sacerdote, orgoglioso della sua dignità, non era mosso da basse passioni; e il re,al fine di diffondere la saggezza e al bontà nel cuore degli uomini, dotato della luce della verità, di probità di costumi, del senso della propria dignità, testimoniava in terra la vera immagine della divinità (in nessuna cosa inferiore ad alcuno).
Questa “triplice combinazione” risponde allo stile trinitario dell’Epistola, dedicata a Enrico Giulio, sapiente, vescovo e principe, da un filosofo che, mentre chiede d’esser difeso “dal disprezzo, dalle calunnie, dalla violenza degli ignoranti,dei malvagi e degli ignobili”, si presenta come colui che ha “combattuto, vinto, dissipato le tenebre con il comportamento, con al parola, con lo scritto: assistito dalla luce della ragione, guidato dal sole della natura, predestinato dal favore di Dio ottimo”. – in una sorta di autoritratto dalle fattezze volutamente giovannee ( e si ricordi il tono dell’autoritratto nella Cena). Triplice è, infine, il dono che il Nolano offre al suo protettore:
il primo è dedicato all’erudito e al sapiente, il secondo al vescovo e al maestro di cose sacre, il terzo a principe e pastore dei popoli. In primo luogo, i libri riguardanti il Minimo, il grande e la Misura, in cui la dottrina, l’erudizione e la scienza giungono alla comprensione dei primi elementi. In secondo luogo, il libro concernente la Monade, il Numero e la Figura in cui la rivelazione, la fede e la divinazione giungono ai fondamenti od orme delle immaginazioni, delle opinioni e delle esperienze. In terzo luogo, i libri che trattano dell’Immenso, dei mondi innumerabili, dell’universo infinito, nei quali compaiono inequivocabili,c erte e indiscutibili dimostrazioni come quella sulla disposizione dei mondi, sull’unità dell’universo infinito governato da un unico principio e sul modo in cui implicitamente o esplicitamente si rivela l’ordine naturale.
Torna alla mente la conclusione del dialogo quinto del De la causa:
perché dunque l’infinito è tutto quello che può essere, è immobile. Perché in lui tutto è indifferente, è uno; perchè ha tutta la grandezza e perfezione che si possa et oltre avere, è massimo et ottimo immenso. Se il punto non differisce dal corpo, il centro dalla circonferenza, il finito da l’infinito, il massimo dal minimo, sicuramente possiamo affermare che l’universo è tutto centro, o che il centro de l’universo è per tutto; e che la circonferenza non è in parte alcuna, per quanto è differente dal centro; o pur che al circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella. Ecco come non è impossibile, ma necessario che l’ottimo, massimo, incomprehensibile, è tutto, è per tutto, è in tutto: perchè come semplice et indivisibile può esser tutto, esser per tutto, essere in tutto. E cossì non è stato vanamente detto che Giove empie tutte le cose, inibita tutte le parti de l’universo, è centro di ciò che ah l’essere: uno in tutto, e per cui uno è tutto. Il quale essendo tutte le cose e comprendendo tutto l’essere in sé, viene a far che ogni cosa sia in ogni cosa.
Teofilo, “fidel relatore della nolana filosofia”, in queste righe evocava insieme l’ombra di Parmenide e quella Eraclito, quasi a indicare la necessità di sciogliere la contrapposizione tra essere e divenire, senza però sacrificare l’uno all’altro. Ma ciò è possibile per il Nolano solo se si fa ritorno alla tradizione che muove da quel “Pitagora che non teme la morte ma aspetta la mutazione”, riprendendo la contempo la lezione di quei “filosofi chiamati volgarmente fisici, che niente dicono generarsi secondo sustanza né corrompersi: se non volgiamo nominar in questo modo la alterazione”. Non ad Aristotele, ma ai Pitagorici e agli Atomisti ( da Democrito a Lucrezio) bisogna guardare, poiché essi soli hanno saputo coniugare “l’uno infinito, immobile, che è la sustanza, che è lo ente” con la moltitudine, il numero, riconoscendo che questi ultimi, “per esser modo e multiformità dello ente, al quale viene a denominar cosa per cosa”, non fanno “per questo che lo ente sia più che uno: moltimodo e multiforme e moltifigurato”.
Appare allora chiaro perché, nel riqualificare i temi ontologici e cosmologici dei dialoghi londinesi, Bruno dedichi un intero poema, il De minimo, allo sviluppo di una teoria atomistica della materia, collocandolo all’inizio di una trilogia che trova nel De immenso il culmine. Sin dalle pagine iniziali del primo poema francofortese il minimo si configura come struttura elementare e irriducibile dell’immenso, come principio costitutivo e originario della sua infinita unità:

IL minimo è la sostanza delle cose:tuttavia vedrai che esso è sempre maggiore di qualunque altra cosa. Dal minimo derivano la monade, l’atomo, lo spirito che tutto pervade e che tutto costituisce con al sua impronta, essenza universale e, se bene osservi, tutto è costituito da esso, persino la stessa materia. Poiché il minimo vivifica tutte le cose, esso non può essere nascosto nè considerato un’inezia da trascurare. Se non ci fosse la monade, non ci sarebbero neppure i numeri; essa infatti ha ordinato le specie, costituendo ogni genere. Dunque essa +è il fondamento di tutte le cose e in riferimento a essa Dio, la natura madre e l’arte meravigliosamente esplicano ciò che sta al di sopra di ogni genere e in ogni genere si realizza. Si dice che essa sia l’elemento costante in tutte le cose e il principio che al di sopra di esse determina il finito e pervade lo spazio infinito, costituendo, legando, integrando, alimentando, eterna, tutto ciò che è composto e tutto ciò che è stato creato semplice; infatti il massimo deriva dal minimo; esiste in funzione di esso. La natura madre e le leggi dell’arte che a essa si conformano pongono il minimo a fondamento di ogni composto che, a sua volta[..] torna a risolversi nel minimo: come un numero limitato di lettere e di segni dà luogo a un numero infinito di parole, dove il punto costituisce l’elemento originario e quindi la loro sostanza, non altrimenti la sostanza semplice costituisce il fondamento delle cose e il minimo corpo di ogni corpo, in cui nuovamente ogni cosa tende a risolversi.
Nell’analisi bruno prende le mosse dalla determinazione di un triplice minimo – metafisico (monade), fisico (atomo), geometrico (punto) – e invita il lettore a non confondere ciascun minimo con gli altri, dal momento che i tre sono alla base di altrettante scienze speculative distinte: metafisica, fisica, geometria. Qualunque sia la specie di minimo in questione, la dottrina bruniana si oppone alla concezione della divisibilità dell’infinito, cioè all’ “assurdità” per cui una quantità finita può essere divisa in una infinità di parti: “chi si sottrae e divide le parti di una grandezza finita, necessariamente prima o poi deve imbattersi prima o poi nel minimo”, proprio come “chi sottrae un numero da un numero finito deve imbattersi nella monade”. Aristotele ha sbagliato sia nel sostenere che il mondo è finito sia nell’ammettere l’infinita divisibilità della materia! I due errori sono speculari, poiché se non si riesce a raggiungere il minimo non si è in grado neppure di spiegare il formarsi dei mondi infiniti che scaturiscono dall’aggregarsi degli atomi secondo un processo senza fine, giacchè, a muovere dall’unità, infinita è la successione dei numeri.
Nella materia occorre porre un minimo fisico: indistruttibile, impenetrabile, fondamento di tutti i corpi, principi odi vita. Né vale l’obiezione aristotelica per cui, una volta assunta la discontinuità della materia, non si capirebbe come i singoli atomi possano costituire un qualsivoglia corpo continuo, dal momento che, non potendo avere parti in comune, due atomi qualsiasi sono o coincidenti o totalmente separati. Per Bruno simile modo di argomentare non tiene conto della distinzione tra minimo (che ” è una parte, in modo che di esso non si dia parte, né semplicemente , né secondo il genere”) e termine (di cui “non si da alcuna parte,in modo che si identifichi con qualche parte, perché è invece ciò per cui un estremo è toccato da un estremo, la parte dalla parte, il tutto dal tutto”). È attraverso il termine, che di per sé è senza dimensione, che i minimi indivisibili e impenetrabili entrano in contatto, senza che venga meno “la distinzione tra toccante e toccato”:

L’atomo è toccato da un altro atomo, ogni corpo da un corpo non con tutto se stesso o con una parte di sé, ma con il termine o estremo o del tutto o della parte. E neppure questi estremi, dico, si toccano completamente, ma è toccata una qualche loro parte. Anche l’estremo, come un corpo, ha infatti le proprie parti e un mino ha un minimo corpo, cioè la parte del termine, con la quale viene a contatto con un altro minimo.. né può essere toccato da un parte maggiore o minore; poiché il toccato e il toccante si eguagliano secondo i termini in cui avviene il contatto; altrimenti, se il toccante fosse minore, il toccante maggiore sarebbe, a ragione, divisibile e penetrabile.
Nel De infinito Bruno aveva cominciato a indagare la struttura elementare degli atomi, nel loro duplice movimento di influsso e di deflusso, affrontando uno dei topoi della tradizione atomistica, ossia quel concetto di “vuoto” cui Democrito ed Epicureo erano ricorsi per tenere separati gli atomi. Il Nolano lo aveva ridefinito nei termini di un “etere che contiene e penetra ogni cosa”, “un’eterea regione[..] nella qual si muove, vive e vegeta il tutto”. Nel De minimo il sostantivo aether viene sostituito talvolta con aer e talvolta con vacuum, ferma restando la negazione dell’idea di un vuoto inteso come spazio del tutto privo di materia. L’etere per Bruno infatti è il sostrato nel quale la sostanza infinita si esplica ininterrottamente nell’incrociarsi di infiniti atomi. Questi ultimi, aggregandosi e disaggregandosi, producono vicissitudini e tramutazioni di luoghi e di forme senza fine. Identici dal punto di vista della sostanza e della dimensione, gli atomi garantiscono l’unitarietà dell’Universo, giustificandone al contempo l’infinità.
Certo, poiché dal punto di vista della forma, sono tutti identicamente sferici, resta da chiarire come possano tornare d aggregarsi nello spazio illimitato. Non a caso Democrito aveva sostenuto l’infinità delle forme degli atomi, ed Epicureo, pur ritenendole finite di numero, aveva dichiarato che questo fosse troppo grande per essere definito; per Bruno al composizione degli atomi non dipende dalla complementarietà delle loro forme, bensì dal fatto che essi sono, nelle parole (1957) di Paul – Henri Michel, “centri di vita”.
Per questo Bruno può assumere con Cusano che l’infinita sfera dell’Universo abbai centro ovunque e circonferenza in nessun luogo, allora “essa è sempliecmente il centro e il minimo che si espande dappertutto, il vero uno”, sicchè “ogni composto, qualunque sia, si riporterà in ogni caso al minimo, poiché il minimo naturale racchiude le forze di ciò che è sensibile, per quanto esso sia esteso, e le esplica in modo mirabile”. In tal modo, “il minimo supera in energia qualsiasi massa corporea cui abbai dato vita aggregandosi”. Ed è perchè tale aggregazione non è il frutto di mere collisioni casuali, ma risponde “alla sostanza invisibile dell’anima”, a “uno spirito ordinatore”, ossia all’azione di un intrinseco principio vitale, che il Nolano può formulare l’invito, già avanzato nel De la causa, a far proprie le “sante parole” di Pitagora, per cui non bisogna temere la morte, bensì “attenderla come un momento di passaggio”:

essa, infatti, implica una dissoluzione per i composti, ma non per la sostanza, essa riguarda gli eventi. Altrimenti scambieremmo la sostanza con i suoi singoli accidenti, dal momento che l’efflusso dal nostro corpo e l’influsso sul nostro corpo sono continui. Insomma, solo in virtù della sostanza invisibile dell’anima noi siamo ciò che ci troviamo ad essere, intorno alla quale,come intorno a un centro, si compie la disgregazione e l’aggregazione degli atomi. Di qui, dal momento della nascita a quelli successivi della vita, uno spirito ordinatore si espande in quello che è il nostro corpo, e si diffonde dal cuore, nel quale, alla fine, ritorna come gli orditi della tela di un ragno che convergono al centro in modo da entrare e uscire per la medesima via percorsa e per la medesima porta. La nascita dunque è l’espansione dal centro, la vita una sfera compiuta, la morte una contrazione verso il centro.
Questo doppio movimento d’espansione e di contrazione scandisce il ritmo incessante della vita, sai dell’intero Universo sia di ogni sua parte. Ciò che si dissolve è il composto, non l’atomo, il minimo, il semplice, che nessuna potenza naturale potrà mai annientare. Realtà originaria, esso “non si annulla, ma è perenne e continuamente si rinnova”, secondo un ordine determinato. E in questo perenne mutamento l’anima appare fondamento eterno degli enti corporei, presiedendo, come “mirabile artefice”, allo loro aggregazione e disgregazione, e disponendosi per le successive incarnazioni:
L’animo,agglomerando gli elementi originari delle cose composte, vi si cela secondo un ordine imperscrutabile, costituendo le membra non appena si diffonde in tutto il corpo, racchiuso in esso come in un carcere fatale; ma nuovamente, quando il corpo si è addormentato, lo spirito torna dal disteso ordito dalla corporeità e attende nuove occasioni, sempre disposto com’è a seguire il corso vicissitudinale degli eventi.

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