L'anfora elettrica

di Roberto VOLTERRI
II contenuto di una stupefacente anfora affiorata durante uno scavo in Iraq, ha messo in discussione l’effettiva datazione della scoperta dell’elettricità. Così è nata la Pila di Baghdad.
II sole a Khuyut Rabbou’a, in Iraq, stava tramontando quando qualcosa affiorò dallo scavo nei pressi di Baghdad. Tra i reperti. emerse un’anfora, dalla quale usciva un antico corroso cilindro di rame, insieme a una deteriorata asticciola di ferro, poi consegnata al Museo Archeologico locale. E probabile che gli eventi si svolsero in questo modo oppure diversamente, certo è che Pila di Baghdad sotto gli occhi dell’ingegner Konig, incaricato dei lavori di ristrutturazione di alcuni impianti, nel 1936, fu rinvenuto quello strano reperto proveniente dal sito archeologico in cui, tra il II secolo a.C. e il II d.C., visse il popolo dei Parti. Chi erano? Nell’antica Persia apparivano come una tribù nomade di origine sciita, solita accamparsi nelle steppe tra il Mar Caspio e il Mare d’Arai. Verso la metà del III secolo a.C., i fratelli Tiridate e Arsace, capi dei Parti, invasero un’area ùenuininata Bactriana. Morto Arsace, il fratello condusse le sue genti nella Parthia e fondò la città di Arsak. Successori di Tiridate furono Artabano I, Mitridate I, Fraate II e, via via, fino all’anno 197 d.C., in cui il romano Settimio Severo (197-212) sottomise quelle popolazioni e Artabano V si ritirò. Con il II secolo d.C. finì il regno dei Parti, popolazione costituita da una casta sacerdotale, scribi e funzionali di Stato, nobili e guerrieri, contadini e artigiani, tra i quali è probabile vi fosse stato qualcuno in grado di scoprire che due metalli, bagnati da una soluzione acida, potevano produrre una forma di energia. Torniamo al nostro reperto. “[…] Si potrebbe pensare che esso sia una specie di elemento galvanico o di batteria […]”, scrisse Kònig quando intuì che l’anfora di forma ovoidale, impermeabile all’interno mediante un sottile strato di bitume, avrebbe potuto essere una vera pila elettrica. Ciò che accese in lui l’idea della “pila”, furono due strani oggetti metallici rinvenuti all’interno dell’anfora: un’asticciola di ferro posta all’interno di un cilindro di rame. Tale ritrovamento fece tornare alla mente di Kónig i semplici dispositivi in uso fin dall’800 per generare elettricità a basso voltaggio. Anni dopo, copia del reperto fu realizzata dall’americano Gray, che introdusse nel vaso di terracotta del solfato di rame e dell’aceto di vino.
Pila di Baghdad - Interno Nel 1962, il fisico Winton esaminò l’originale Pila di Baghdad, dichiarando: “[…] E così inconcepibile la conoscenza pratica della corrente elettrica in quel periodo? Sono certo che l’abilità dei popoli primitivi sia largamente sottovalutata, è incredibile solo per coloro die non vogliono crederlo; e l’arrogante presunzione di aver “scoperto” la scienza moderna ci rende restii ad ammettere che anche i nostri antenati mesopotamici, duemila anni fa, conoscessero gli effetti della corrente elettrica […]”. Anche il gesuita Kircher nel suo Oedipus Aegyptiacus (1562), aveva riportato un significativo brano tratto da un antico testo indiano, YAgastya Samhita: “[…] Collocare una lamiera di rame, ben pulita, in un vaso di terracotta; coprirla con sale di rame e poi ricoprirla tutta con segatura umida, per evitare che si arresti [per evitare la polarizzazione, N.d.A.]. Porre poi un rivestimento di mercurio amalgamato con zinco sopra la segatura umida. Il contatto produrrà un ‘energia conosciuta con il doppio nome Mitra-Varuna. L’acqua si scinderà per azione di questa corrente in Pranavayu e Udanavayu [Idrogeno e Ossigeno, N.d.A.]. Si dice che una catena di cento vasi di questo tipo fornisca una forza molto attiva ed efficace”.
Ipotesi e smentite
Vediamo se può apparire plausibile l’ipotesi “pila” avanzata da Kónig e consideriamo quali potrebbero essere state le conseguenze tecnologiche, nel caso in cui si potesse dimostrare che la produzione di elettricità a basso voltaggio e media intensità di corrente non fosse impossibile secoli prima dell’intuizione di Volta. Quasi tutti ci siamo divertiti a produrre modeste quantità di corrente elettrica inserendo, in un limone tagliato a metà, due elettrodi costituiti da una laminetta di zinco e una di rame, dove si ha una reazione chimica del tipo:
Zn_Zn2-)- + 2e-
2H+ + 2e- _ H2
Due Pile di Baghdad Nella pila di Baghdad furono trovati elettrodi costituiti da un tubo di rame e da un’asticciola di ferro e come elettrolito fu utilizzato del comune aceto o del succo di limoni. Il già citato Gray e un altro ricercatore, Schwalb, ipotizzarono reazioni a base di solfato di rame (CuS04), con liberazione di cariche negative (e- ) e riduzione del solfato a rame metallico. L’obiezione principale a queste ipotesi fu che nella struttura del reperto di Baghdad non appaiono setti porosi che permetterebbero un regolare procedere delle semireazioni anodiche e catodiche e la produzione continua di un flusso di elettroni da utilizzare verso un “carico” esterno. Secondo vari autori, la pila si polarizzerebbe entro breve tempo e le reazioni chimiche si arresterebbero. Anche chi scrive ha tentato di realizzare una Pila di Baghdad, impiegando materiali disponibili secoli la: un’anfora in terracotta, una lamina di rame avvolta a forma di cilindro, un’asticciola di ferro e del comune aceto.
Poiché la neonata era riuscita più che bene, ne sono state realizzate altre sei, per creare un dispositivo in grado di generare una differenza di potenziale con un’intensità di corrente accettabile e per tentare un altro esperimento: la galvanostegìa che, ufficialmente, all’epoca dei Parti non era disponibile.
Le fonti antiche e l’elettrodeposizione
Soltanto nel 1800 vedremo i primi esperimenti sull’applicazione dell’elettricità alla deposizione di metalli pregiati su altri metalli. Nello stesso anno, Brugnatelli aveva tentato le prime elettrodeposizioni di argento, rame, zinco e mercurio. Nel 1802, descrisse il metodo per l’elettrodeposizione dell’oro, mentre anni dopo pubblicò i risultati delle sue ricerche sulla ramatura di carboni e sulla preparazione di leghe metalliche per via elettrolitica. In teoria, non era possibile che gli antichi orafi potessero dedicarsi all’elettrodeposizione di metalli pregiati su substrati in bronzo o su materiali di scarso pregio, proprio perché non erano disponibili fonti di energia elettrica. È anche vero che in antico fossero noti sistemi di doratura o argentatura che non necessitavano di sorgente elettrica.
Anche chi scrive si è imbattuto in gioielli fenicio-punici, rinvenuti in necropoli iberiche e realizzati con un substrato di bronzo rivestito con una sottile foglia d’oro, che non appariva applicata mediante collanti organici, ne mediante martellatura. Così, non contento di quanto l’archeologia ufficiale sostenga riguardo a questi eretici argomenti, chi scrive ha cercato di dimostrare il contrario. È così nato il tentativo con la galvanostegìa ante litteram.
Il “guscio” d’oro
Pila di Baghdad in tensione È necessario fornire al lettore ragguagli su tale procedimento metallurgico. Lo scopo principale che avrebbe spinto qualche artigiano o mercante di piccoli oggetti ornamentali era dimostrare che non è tutto oro quel che luccica. Nella numismatica antica sono ben note alcune monete definite suberati: monete d’argento prodotte in epoca romana, cui il metallo nobile è presente solo nello strato superficiale. E indubbio se si trattò di falsi di Stato o dell’iniziativa di un falsario “privato”, ma tali monete sono state apparentemente create con coni originali: fu quindi lo Stato a ricorrere a mezzi di fortuna o fu un addetto alla Zecca a trafugare un conio originale? Non intendo sostenere che l’argento su tali monete fosse stato deposto mediante galvanizzazione, ma è importante sottolineare il fatto che talvolta l’archeologo possa imbattersi in manufatti all’apparenza costituiti da metalli pregiati, che però celano materiali di scarso valore. Non è infondato il dubbio che sorse nella mente di quanti si sono finora occupati della Pila di Baghdad: da Wilhelm Konig a William Gray, da Walter Winton al sottoscritto, nel verificare de visu come anche gli antichi artigiani orafi potessero ricorrere a una galvanostegia per fornire un consistente valore alla produzione di monili o suppellettili.
VETTORI DI ENERGIA DIVINA
In un conflitto è possibile che tesori inestimabili siano perduti per sempre e le antiche batterie, indifese nel Museo di Baghdad, ne sono un esempio. Come poteva l’antica scienza persiana arrivare a tale conoscenza? Produrre corrente elettrica richiede l’uso di due metalli con elettropotenziale diverso e un elettrolito. Alcuni ricercatori sostengono l’impiego delle batterie in campo medico. Conosciamo testimonianze di scrittori greci che trattano gli effetti analgesici dei pesci elettrici se applicati alla pianta del piede ed è interessante sapere che anche i cinesi avessero già sviluppato l’agopuntura, oggi impiegata combinandola alla corrente elettrica. Ciò spiega la presenza di piccoli oggetti acuminati nei luoghi in cui sono state rinvenute le pile. Altri scienziati ipotizzano che le batterie potessero essere impiegate in processi di galvanostegia.
Questa è l’ipotesi più probabile, soprattutto considerate le applicazioni di questa tecnica, come la deposizione di sottili strati di oro su gioielli per placcatura. Il dottar Craddock, esperto di metallurgia del British Museum, afferma che una serie di batterie connesse in parallelo potrebbero essere state usate all’interno di una statua. Chiunque l’avesse toccata, avrebbe ricevuto una scossa e, con le batterie al suo intemo, si può dedurre che un tempo fosse venerata come l’oracolo di Delfì. Anche se la corrente fosse stata insufficiente a procurare una scossa, avrebbe fornito una sensazione di caldo al tatto o sarebbe stata il contenitore di tali reperti. Ulteriori esami sarebbero necessari per dare una risposta a questo mistero. 

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