Il potere alla natura

Con l’introduzione di culti misterici, solari e iniziatici di matrice orientale, nei primi secoli della nostra era prendono piede a Roma nuove pratiche, tra cui l’uso magico delle specie vegetali.
Nel campo magico- religioso un apporto imprescindibile alla cultura di Roma giunse dal mondo greco e, attraverso questo, dall’oriente. Tra III e II secolo a. C. Roma era uscita vittoriosa dalle guerre puniche, imponendo il suo controllo sul bacino mediterraneo. L’influenza ellenistica, presente a ogni livello della vita socio – culturale, pervase anche l’universo religioso tradizionale; l’innovazione di maggior rilievo riguardò la penetrazione a Roma dei culti misterici. La maggior parte dei Misteri non ricopriva, a differenza di quanto in genere si è portati a pensare, caratteri di segretezza, ma veniva celebrata in pubblico secondo modalità istituzionalmente definite; fu soprattutto in età ellenistica e poi nel tardo Impero Romano che si svilupparono invece movimenti gli adepti dei quali erano dediti a culti particolari, che si svolgevano in ambito privato. In linea generale, si intendono quali culti misterici quelli rivolti, per il periodo più antico, alla Dea Madre, a Demetra d’Eleusi e a Bacco- Dioniso; per i secoli tardi a Iside e Mithra. Questa periodizzazione non riguarda tanto la nascita dei culti, tutti assai remoti, quanto l’epoca della loro affermazione nell’impero.
TEMPO DI SEGRETI
I primi secoli della nostra era registrarono l’introduzione di altri culti, sempre di origine orientale, che tendevano a far fronte a nuove esigenze di carattere socio – culturale e spirituale; difatti, al contrario ella religiosità romana tradizionale, essi sviluppavano un discorso intorno all’identità interiore, alla salvezza individuale e all’immortalità dell’anima.
Le divinità oggetto della venerazione erano già note a Roma, ma la particolare atmosfera culturale e sociale del tempo ne favorì la crescita; soprattutto, si svilupparono forme di Misteri maggiormente improntate alla segretezza, al carattere privato e non pubblico delle iniziazioni. Il culto di Cibale ricevette un impulso nuovo che si manifestò a partire dal II secolo a. C.
Di antichissima origine egizia, il culto di Iside e di Osiride si era andato diffondendo in larga parte dell’Impero, dove le due divinità erano identificate rispettivamente con Demetra e Dioniso, ma solamente in epoca tarda assunse quel particolare carattere misteriosofico che Apuleio ci ha tramandato nel celebre romanzo L’asino d’oro (o Le metamorfosi)
Infine, nel I secolo d.C. si impose progressivamente il culto di una divinità del tutto nuova per l’occidente: Mithra.

LE ANTICHE DIVINITà MEDITERRANEE (Appendice)
Il culto della Dea Madre, Demetra e/o Cibale, è attestato con certezza nell’Italia meridionale e soprattutto in Sardegna ben prima della stessa colonizzazione romana; d’altronde in tutto il Mediterraneo se ne riconoscono i caratteri di estremo arcaismo. Il mito frigio della Dea Madre Cibale e di suo figlio Attis (amante della madre, che viene castrato e muore sotto un pino, da allora albero a lui sacro) venne invece importato in Occidente tra III e II secolo a. C., finendo forse per rinverdire alcune vecchie memorie cultuali italiche. I Misteri eleusini sono quelli che ricevettero comunque i più ampi consensi a Roma, dov’erano celebrati con grande fasto; nel i secolo a.C Cicerone scriveva che i riti in onore di Demetra (la dea del grano, della fertilità, della morte- rinascita), gli inizia, avevano conferito alla società romana nuovi e migliori principi di vita; più tardi, vi furono iniziati molti fra gli imperatori. Molto meno virtuose le celebrazioni in onore di Bacco, dio dell’estasi e del vino, il cui culto, diffuso in una vasta area compresa tra il Mar Nero e il Maghreb, penetrò a Roma assai presto dando luogo a cerimonie talmente sfrenate, i Bacchanalia,da venir proibite nel 186 a .C.

IDENTIFICAZIONI INCROCIATE
La stratificazione culturale e le “identificazioni incrociate” tra divinità del pantheon greco – romano, avevano dato luogo, nei primi secoli della nostra era, a una situazione religiosa molto complessa che corrispondeva anche a una diversificazione delle esigenze presenti nella società romana; è questa articolazione di culti e riti che il cristianesimo incontrò al momento della penetrazione nei territori dell’impero intorno al II secolo. Al vertice del pantheon romano si poneva la divinità iranica, ossia Juppiter- Giove, corrispettivo dello Zeus greco, dell’ Aura- Mazda persiano e anche dello Yahweh ebraico venerato in origine sul Sinai e a Sion. Nei tempi della Repubblica Giove costituiva una triade divina con Marte – dio della guerra ma anche dell’agricoltura; in ciò simile al germanico Thor – e Quirino, nume tutelare delle assemblee dei liberi cittadini romani, detti appunto Quiriti. Sin dalla fase ultima della Repubblica, però, la triade divina era ormai quella che occupava il Campidoglio: Giove, Giunone e Minerva. Al suo interno avevano assunto crescente importanza le due divinità femminili, in principio figure minori della religiosità etrusco – italica, che avevano finito con l’essere identificate con le elleniche Era e Atena. Il modello culturale del Campidoglio veniva riproposto nelle grandi fondazioni di santuari sparsi per l’Impero, e Giove ricopriva ormai un ruolo di assoluta preminenza.

DUE IN UNO
Nel corso dell’età ellenistica, la diffusione dei culti solari influenzò la stessa figura del Dio – Padre uranico che, con figure cultuali come Giove Dolicheno o Eliopolitano assunse caratteri propri, finendo in un certo senso per “orientalizzarsi”; l’influenza delle divinità solari raggiunse nel Tardo Impero livelli tali da intaccare il primato di Giove e , sia pure tra oscillazioni derivanti dalla volontà politica degli imperatori, finì con il prenderne il posto. La parziale sovrapposizione tra “dio del cielo” e “dio del Sole” che si vede bene nello Zeus di Heliopoolis, non impediva che altri culti solari divenissero popolari a Roma e nelle province italiche; è il caso di culti iniziatici, com’è quello già ricordato per Mithra, oppure pubblici, quale quello reso al dio egizio Se rapide, venerato ad Aquileia in un famoso tempio del quale rimangono ancor oggi le imponenti rovine.
Sul versante femminile, abbiamo già detto come il culto delle divinità misteriche avesse trovato ampio spazio e rinnovato interesse nella società del II secolo, sovrapponendosi alle dee romano- italiche ellennizzate: giunone e Minerva; Diana, dea della natura allo stato selvaggio – e dunque assimilata ad Artemide -; Venere, che in principio presiedeva alla natura “umanizzata”, e quindi agli orti e ai giardini, ma che l’accostamento ad Afrodite aveva trasformato nella dea dell’amore. Anche la fortuna – la greca tyche – godeva di venerazione pubblica e privata.

TERRE D’ELEZIONE
Ma in cosa consisteva, di quali valori “magici”era portatrice, la cultura greco – ellenistica? Si trattava di una cultura a sua volta molto sincretica, molto aperta all’eredità proveniente dall’Oriente siro – persiano e dall’ Egitto. Era quindi una cultura magica che agli occhi dei tradizionalisti era particolarmente pericolosa perché “barbara”, straniera. In questo senso terre d’elezione dell’arte magica e luoghi privilegiati per la raccolta di semi, fiori, radici, foglie, piante, cortecce e arbusti, dotati di arcani e pericolosi poteri, erano le regioni più oscure e impervie dell’ecumene: la Scozia, al Colchide, la Persia. E poteva trattarsi di specie vegetali dai poteri misteriosi o nefasti, o di piante che – non diversamente da quelle medicamentose, che del resto con esse in qualche misura si identificavano -avevano sì quei poteri, ma per valorizzarli o semplicemente per impedire che andassero perduti bisognava conoscere precisi accorgimenti tecnici, rituali di raccolta e di lavorazione. E anche qui si incontravano elementi tecnico – botanici e magici: dai “tempi balsamici” (del giorno o dell’anno) adatti alla raccolta, ai gesti e alle parole, talora anche alle fogge del vestire, con i quali essa andava accompagnata.
Le fonti antiche in grado di fornirci informazioni sulle piante “magiche” nonché sull’uso magico di piante che di per sé non sarebbero dotate di speciali poteri, sono molte. Basti pensare alle osservazioni di Strabone a proposito del popolo del popolo dei Geti oppure a quelle di Erodoto a proposito degli Sciti, incentrate entrambe sul rito dell’aspirazione del fumo del seme di canapa bruciato: rito forse frainteso e indicato come catartico dai greci – in quanto connesso con le cerimonie funebri – mentre è forse piuttosto collegabile a un complesso di tipo sciamanica.

ERBE E VELENI
A livello mitico erbe e droghe magiche si collegavano a pratiche religiose legittime: ma i Latini guardavano a queste manipolazioni con sospetto, per l’uso che dei vegetali veniva fatto nella confezione di philtra e di pharmaka velenosi. Nella Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, dell’81 a C., homicidium e veneficium ( cioè l’avvelenamento ottenuto con filtri, per estensione passato a indicare più in generale un maleficio) erano trattati come sinonimi: o meglio, il secondo era un genere speciale all’interno del primo. L’Ecloga VIII di Virgilio – fonte della quale era il II Idillio del greco Teocrito – mostra bene come si potesse far malie con erbe e con immagini. Va tuttavia notato che l’uso magico del vegetale si distingueva da quello semplicemente farmaceutico (nel senso moderno del termine) per il fatto che il secondo poteva avvalersi dei principi attivi della pianta, dei succhi o delle polveri tratti da essa, allo stato sostanzialmente naturale (salvo le necessarie elaborazioni tecniche, e magari l’apparato rituale necessario), mentre il primo si attuava attraverso un rito complesso, che in genere implicava l’utilizzazione o comunque la presenza di altri oggetti: sostanze animali, figure. Nell’VIII Ecogla entravano nel rito un’effige dell’amante della celebrante, della cera, della creta, dei fili di lana. Le sostanze vegetali nominate sono la verbena e l’incenso, utilizzati nel suffumigio iniziale; poi del farro, infine herbae e venena raccolti nel Ponto, e grazie ai quali si dice che fosse possibile trasformarsi in lupi ed evocare le anime dai sepolcri. Le pratiche descritte da Virgilio parrebbero appartenere alla categoria dei bona carmina: si trattava cioè di un incantesimo amoroso per riportare l’amato all’amante, senza diretto ed esplicito scopo mortale, e che non rientrava immediatamente nei mala carmina condannati dalle Dodici tavole .Tuttavia, la presenza del farro sacrificale, le minacciose formule pronunciate durante il rito, e la presenza di herbae e venena dagli oscuri poteri sono elementi che confermano quanto sia arduo distinguere fra una magia erotica e una magia propriamente omicida.
La qualità delle herbae e dei venena era lasciata nel vago. Vi erano certo delle droghe eccitanti, erogene, adatte a questo tipo di incantesimo; ma non si può andare oltre. A sua volta Orazio, nell’VIII satira del i libro, descrive i malefici che Canidia e Sagana mettevano in atto sull’Esquilino. La coppia era solita percorrere nottetempo il desolato colle romano per raccogliervi ossa ed erbe nocive.

I MISTERI DI MITHRA (Appendice)
I Misteri di Mithra, divinità iranica pressoché sconosciuta fino al I secolo a.C, meritano un posto di riguardo nella storia religiosa degli ultimi secoli dell’Impero, dove conobbero un’acculturazione con i culti di Cibale. Non sappiamo attraverso quali canali il suo culto fosse giunto a Roma, ma la sua diffusione nell’esercito spinge a pensare che tale ne fosse il tramite. Le cerimonie in suo onore si svolgevano in grotte sotterranee dove gli iniziati consumavano pasti sacrificali e avevano luogo i turobolia, cioè i sacrifici di tori, ai quali talvolta si sostituivano animali più minuti; un bell’esempio di mithreum è quello conservato a Roma sotto la basilica di San Clemente, dove una lastra di pietra reca ben visibile il rilievo di Mithra nell’atto di sgozzare un toro, così come narrava il mito relativo a questa divinità. È opinione comune che Mithra fosse in origine una divinità solare, come se ne conoscevano numerose nell’area compresa tra Egitto, Persia e Grecia; mentre però il culto mithranico rimase confinato nell’ambito iniziatico, quello tipologicamente simile, siriaco, dell’Helios- Jupiter di Emesa ebbe subito carattere pubblico e istituzionale, e, al principio del III secolo venne introdotto da Caracolla e poi da Sesto Vario Avito Bassuiano, detto Eliogabalo o Elagabalo (divenuto in giovane età sacerdote del Dio Sole, venerato a Emesa col nome di El gebal, 2dio dell’alto”, ma trascritto dai latini Elagabalus e dai greci, per influenza del greco helios= sole, heliosgabalos), anche a Roma, come culto del Sol Invictus.

INFANTICIDIO RITUALE
Nel V epodo è anche descritto un infanticidio rituale. Un bambino, o comunque un ragazzo giovanissimo, viene fatto morire di fame per ottenerne il midollo e il fegato purificati dal digiuno, i quali entreranno come ingredienti nella confezione di un amoris poculum.Per la legge analogica che sembra presiedere alla logica dei riti magici, il fegato e il midollo di un ragazzo, sedi del vigore, avrebbero dovuto trasfondere forza e volontà di amare in chi avesse bevuto la pozione. Per preparare il filtro, si alimentava il fuoco rituale con vari ingredienti, alcuni dei quali vegetali. Si trattava di fronde di cipresso e di erbe provenienti dall’area caucasica; dunque, ancora una volta, da Oriente.
Nel VI libro dei Farsalia lo storico Luciano descrive i prodigi della maga Erichto, che si vantava di poter stroncare la vita di chiunque con le sue erbe. Quanto alla procedura magica, Erichto sembra organizzare prima gli ingredienti animali che le sono necessari per il rito, e quindi – dopo aver mischiato sostanze comuni ad altre che sono o sembrano invece più significative – aggiunge al preparato foglie sulle quali ah pronunziato nefandi scongiuri, erbe sulle quali ha sputato al loro nascere,e ogni sorta di veleni.
Si profilavano così, secondo Lucano, due ordini possibili di piante magiche: uno costituito dai venena, che hanno di per sé un potere straordinario (ma anche in questo caso le modalità di coltivazione – le piante su cui si è sputato alla nascita -, di raccolta e di consacrazione sembrano importanti per “innescare” i poteri), e l’altro da specie vegetali che di per sé non avrebbero poteri specifici, me ne acquistano nel contesto rituale. Allo stesso modo, nell’Asino d’oro di Apuleio, l’unguento usato dalla maga Panfile per trasformarsi in un rapace notturno e spiccare il volo è composto da erbe di poco valore: un po’ di aneto e qualche foglia di alloro messa a macerare in un bicchiere di acqua di fonte.

LE METAMORFOSI DI APULEIO (Appendice)
Lucio Apuleio nacque a Madaura , in Algeria, nel 125 circa d.C. Il praenomen Lucio si deve probabilmente all’identificazione con il protagonista della sua opera più celebre, Le metamorfosi. Dopo aver compiuto gli studi a Cartagine si recò ad Atene, dove approfondì la propria istruzione a contatto con le discipline ellenistiche; è qui forse che si avvicinò ai Misteri isiaci. All’indomani di un probabile soggiorno a Roma tornò in Africa, dove intorno al 158, a Cabrata, subì un processo. Era accusato di aver fatto ricorso ad arti magiche per indurre al matrimonio la ricca vedova Pudentilla; venne assolto, e un’elaborazione della sua brillante difesa ci è giunta attraverso L’apologia, o Pro se de magia liber, interessante e ironico – seppure in parte ambiguo – spaccato delle credenza del tempo in fatto di magia. Attinse grande fama come oratore e filosofo, ma la sua memoria è soprattutto legata al romanzo – l’unico in latino a esserci pervenuto per intero – Le metamorfosi, anche noto come L’asino d’oro, storia – forse in parte autobiografica – dell’iniziazione del giovane Lucio al culto misterico di Iside e Osiride.

UNA PSICOSI DIFFUSA
È evidente che nell’età imperiale l’irrompere della magia ellenistica in generale, e l’uso magico delle erbe in particolare – avvertito in relazione o in alternativa al loro uso medicale – avevano dato luogo a una forma di psicosi diffusa. Molte testimonianze del tempo concordano nell’attribuirne la colpa all’influenza straniera. Plinio, ad esempio, ci dice di Asclepiade di Prusa, il quale – retore al tempo di Pompeo – si guadagnò fama di grande medico consigliando rimedi semplicissimi, e potè avere successo in quanto al suo tempo le imposture magiche si erano spinte a tal punto da annullare qualunque efficacia nelle erbe. Si favoleggia infatti dell’erba Aethiopis, con la quale si sarebbero prosciugati i fiumi e gli stagni; dell’ Onuthuris, con cui si sarebbe potuta aprire qualunque cosa fosse chiusa; dell’Achaemenida, gettando la quale nella direzione di un esercito nemico esso sarebbe stato posto in fuga. Queste credenze, l’origine delle quali Plinio attribuisce prevalentemente ai magi persiani, presero piede e si diffusero tanto da far sì che l’età basso – imperiale ci appaia come un tempo di mania magica, nel quale tuttavia era divenuto pericoloso avere a che fare con qualunque specie vegetale: era difatti molto facile venire accusati di magia. Ammiano Marcellino ci è testimone che, ai tempi di Costanzo, si rischiava un’incriminazione per veneficium per il solo fatto di essere passati vicino a qualche sepolcro all’imbrunire, in quanto specie magari innocue in sé e per sé, come i caprifichi, erano considerate cariche di forza magica in quanto crescevano sovente sui sepolcri e là venivano colte.

MALEDIZIONI DI PIOMBO
Come sappiamo, anche Apuleio venne coinvolto nell’isterismo antimagico: e al sua colta e spiritosa apologia di medico e d’iniziato ai sacri misteri isiaci, che niente poteva quindi avere a che fare con la volgare e “bassa” magia, conservataci nel suo De magia, celava comunque qualche preoccupazione. Lo si accusava di aver composto un poculum amatorium: il che non era poi tanto assurdo, com’egli fingeva di credere ribadendo la sua condizione di medico e di iniziato, in quanto la linea di demarcazione fra medicina, cerimonialità religiosa e magia era tutt’altro che netta.
Vi erano poi strumenti magici, sempre di provenienza orientale, la cui nocività era ancora più evidente; dall’Attica, per esempio, venivano le cosiddette tabellae defixionum. Si trattava di lamine di piombo, considerato metallo infausto, su cui si tracciava il nome della persona cui si voleva nuocere accanto a parole, segni e figure di maledizione: quindi si piantavano le lamine, per mezzo di chiodi (defixio da defigo: piantare), all’interno di sepolcri, in modo da farle giungere alle divinità infere. Si trattava, tecnicamente, di un sacrificio agli dei dell’oltretomba, cui si dedicava la vittima della magia.
La prima reazione dell’autorità romana di fronte a questi fatti fu dura: nel 186 si erano proibiti i baccanali, in quanto tali riti segreti parevano in realtà piuttosto delle occasioni di dissolutezza; nel 139 tutti i “Chaldei” – cioè i maghi, gli astrologi, gli indovini in genere, così detti dal luogo di origine della loro arte – furono espulsi da Roma e dall’Italia. Ma arginare i diffondersi di tali credenze era ormai difficile.

PRATICHE STREGONICHE
Èin quest’ottica che si deve leggere anche la crescita di pratiche propriamente stregoniche. Sacrifici umani, come quello descritto da Orazio, ed evocazioni di defunti erano le attività attribuite alle “malefiche”, devote della divinità infera Ecate. Accanto a esse si facevano largo le credenze circa l’esistenza di lamiae e striges, personaggi mitologici dai caratteri demoniaci, metà donne e metà rapaci notturni, intente a dissanguare e assassinare i fanciulli o a rapire i cadaveri per turpi magie. Credenze, queste, che torneranno a farsi strada in Occidente sul finire del Medioevo. Gli elementi di tale tradizione che la stregoneria tardomedievale e soprattutto moderna recupererà sono essenzialmente la capacità di metamorfosi, determinata in genere da un unguento magico, il volo notturno, l’omicidio (di solito infanticidio) legato al vampirismo (cioè alla suzione del sangue).
Il primo autore antico ad accennarne fu probabilmente il greco Teocrito; tuttavia, le notizie più dettagliate intorno alla figura della “strega” ci sono giunte attraverso la letteratura del mondo romano. Le zone di loro provenienza sembrano essere state la Tracia e la Tessaglia, dove la memoria mitica ereditava forse alcuni elementi della tradizione sciamanica euro- asiatica; tuttavia, anche in Italia vi erano zone circonfuse di un’aura più intensa di “magia”, quali l’Etruria e la Marsia, dalle quali, secondo diversi scrittori, provenivano le streghe. Cosa vi fosse esattamente dietro queste credenze antiche è difficile a dirsi; tuttavia il paradigma della donna – uccello quale creatura a metà tra l’umano e il divino, potenzialmente pericolosa, doveva essere assai diffuso nella cultura greco – romana; ricordiamo ad esempio che con queste sembianze erano sempre raffigurate le sirene che nell’Odissea tentano Ulisse e i suoi uomini. 

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