Il furore dell'eroe

VIOLANDO I CONFINI DELLA TRADIZIONE IL NOLANO CELEBRA LA NUOVA VIRTÙ CHE SCATURISCE DAL VIZIO QUANDO è IN GIOCO IL POSSESSO DELLA VERITÀ.
Il dialogo De gli eroici furori si inscrive dentro il quadro di una rinnovata analisi delle questioni gnoseologiche affrontate nel De umbris, in una sorta di ritorno ai principi della filosofia dopo la grande “luminaria” accesa nei dialoghi cosmologici, oltre che in quelli morali. Dalla critica all’ignoranza, “madre della felicità e beatitudine sensuale”, alla distinzione tra la cecità dei “profettiamente studiosi” e quella degli “ociosi insipienti”, i riferimenti alla Cabala non mancano. Ancor più stretto si rivela il legame con lo Spaccio , con cui i Furori condividono il primato concesso alla sostanza spirituale quale principio efficiente e informativo, veicolo della libertà e delle responsabilità umane. Ma se nel primo dialogo morale si insisteva su una riforma universale dell’umanità, nei Furori l’accento è posto sulla riforma della singola, eccezionale, individualità; all’esaltazione della prassi etico – politica dello Spaccio subentra quella della prassi del “furioso”, impegnato con le sue sole forze nella ricerca travagliosa della verità. è in quest’ottica che va letta la ripresa della critica all’ozio nel Dialogo primo dei Furori (“non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invidia, ignoranza e malignitade”), ma prefigurata nell’Argomento, sia pure sotto l’ironica maschera dei fedeli in amore:
D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi esagito in questo proemiale argomento [..] è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai dilettato o delettasse de imitar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricoverarla de l’inferno: se a pena la stimerei degna, senza arrossir il volto, d’amarla dsul naturale di quell’istante del fiore della sua beltade, e facoltà di far figlioli alla natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, al qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vivissima e vituperosissima gloria, che non posso creder che un uomo che si trova un granello di senso e spirito, possa spendere più amore in cosa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mai fede, se io voglio adattarmi a difendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Valclusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarromia credere, e forzarommi di persuader ad altri, che lui per non aver ingegno atto a cose migliori, volse studiosamente nudrir quella melancolia, per celebrar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca ,del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimmie de quali sono coloro ch’hanno poetato ‘a nostri tempi delle lodi degli orinali, de la piva , della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della carestia, de la peste.
Non mancano allusioni al genere degli elogi burleschi, nonché echi dell’erasmiano Elogio della follia. Ma è soprattutto il riferimento a Orfeo e alla sua disavventura nel mondo degli Inferi che anticipa uno temi portanti dei Furori: Orfeo, altrove da Bruno presentato (sulla scia delle Metamorfosi di Ovidio) come paradigma del dispregiatore del gentil sesso in favore degli amori omosessuali, è colui che la passione d’amore confina alle mere apparenze sensibili. Non meno deleterio è al riguardo l’atteggiamento di Petrarca che si accontenta di contemplare la sua Laura (una di Valchiusa) bagnarsi nuda nelle acque sempre nuove del fiume del tempo. Poiché il Nolano sa che, come insegna il mito di Diana e di Atteone, sul quale dovremo ritornare, al verità va letteralmente “afferrata”. Ciò costa studio e fatica, dal momento che occorre piegare quella sorte che è detta “cieca” e “ria” [..] non per sé, perché è l’istesso rodine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti[..], perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima”.
L’orizzonte del singolo uomo non coincide con quello di Dio, né il singolo può dare un senso alla vicissitudine universale. Essendo in un tempo e in un luogo, è sempre in una condizione di incertezza (e di ignoranza) rispetto al futuro, alla “disposizione” degli eventi. Il singolo sta in un punto, non conosce l’insieme, perciò è cieco rispetto alla Fortuna. Eppure, è dal tempo e nel tempo che sorge la tensione alla riforma, sia quella del mondo sia a quella dell’uomo. E’ per questo che il singolo può avviare un processo di rinnovamento del cielo interiore (la sfera che noi oggi diremmo etica) e del cielo esteriore (la sfera cosmologica). Così, l’anima può studiare di “purgarsi, risanarsi, riformarsi”; tuttavia, se sente un simile bisogno, è perché la sua condizione è quella di una “miseria strutturale”; l’individuo, l’occidente, un quasi “nulla”, vero e proprio “imbecille” (nel senso del De la causa) vuole guardare l’Uno, al Tutto, anzi all’Uno- Tutto; ma non potrà mai conseguire un simile obiettivo restando chiuso nel proprio tempo o nella mera contemplazione della mutazione (si pensi ancora, per contrasto, al Petrarca e alla sua Laura); deve invece riuscire a spezzare il ciclo dell’apparente ripetizione sfruttando la contrarietà che riscontra sia in natura sia negli umani eventi.
Riconoscere il proprio limite per varcarlo: ecco il compito del “furioso”. Come insegnano il caso Orfeo o quello di Orlando nel poema di Ludovico Ariosto (1474-1533), c’è però furore e furore. E quello “eroico” non va per Bruno confuso con quello bestiale o con quello inconsapevole:

Ponemo, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri considerano in certa divina abstrazzione per cui dovegnono alcuni migliori in fatto che uomini ordinarii. E questiono de due specie perché: altri per esserno fatti stanza de dei o spiriti divini, dicono et operano cose mirabili senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati e ignoranti, nelle quali come voti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirito divino. Altri, per esser avvezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido e intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale suscitato da l’amor della divinitade, della giustizia, della veritade, della gloria, del fuoco, del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi non vengono al fine a parlar et operar come vasi et in strumenti, ma come principali artefici et efficienti.
Il lessico, che in gran parte riprende quello della Cabala 8apartire dal motivo del vaso), mostra come il Nolano prima distinguere il furore eroico da quello asinino ed enfatizzare come solo attraverso uno sforzo consapevole in cui s’intreccino intelletto, volontà, affetto e cognizione, l’uomo possa oltrepassare il proprio limite e contemplare la divinità, rivelando così “l’eccellenza della propria umanitade”. Il furore dell’eroe non è dunque:
Un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezioni: ma un impeto razionale che segue l’apprension intellettuale del buono e del bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobilità e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. Non è un furor d’altra bile che furor de consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et ne l’impeto divino che gli impronta l’ali.onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro provato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose.
Ma quell’armonia e quella simmetria sono difficili da raggiungere. Soprattutto all’inizio sono difficili da raggiungere. Soprattutto all’inizio, quando chi è solo umano corre il rischio di rimanere troppo attaccato a “cose indegne”. Del resto, breve è lo “spacio della nostra vita” e , “si mirabilmente scorre il presente, e con la medesima prestezza s’accoste il futuro”. Sicchè, “quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il quale insieme sarà e sarà stato”.Eppure, è nel tempo che il furioso vive la propria esperienza, ed è il tempo che la rende unica e irripetibile: ” per infinite differenze di tempo ed innumerabili cagioni ha di breve vita termini incerti”.
Per altro, è questa incertezza che distingue il furioso dal savio, rendendo possibile il suo agire eroico. Il savio, scrive Bruno,” considerando il male et il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine[..] non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e temperato nelle voluptadi: stante che ch’a lui il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine di quella. Cossì il sapiente ha tutte le cose mutabili come cose che non sono, et afferma quelle non esser altro che vanità e un niente: perché il tempo e l’eternità ha proporzione come il punto e la linea”.

La virtù e la felicità del savio si fondano sulla cognizione della mutazione universale. Di contro, al furioso spettano l’insubordinazione e l’eccesso. La filosofia del tempo, che all’esordio del Candelaio era detta “magnificare l’animo”, porta ora Bruno a contrapporre il piano dello stato ordinario e finito a quello (eterno) della vicissitudine universale. È nella tensione tra l’uno e l’altro piano che si situa la prassi del furioso. A rigore, essa nasce da un’aporia, da un’insufficienza conoscitiva, da un vizio, ma , come vedremo, è questo vizio ad aprire la via a una visione più profonda della realtà. All’inizio del Dialogo primo della Parte seconda dei Furori , bruno dichiara che la ” successione ed ordine delle cose è verissima e certissima”, anche se “al nostro riguardo [..], in qualsivoglia stato ordinario, il presente ne affligge più del passato, et ambi doi insieme manco possono appagarne che il futuro, il quale sempre è in aspettazione e speranza”. In altri termini, nel tempo la verità e la certezza della vicissetudine non affrancano l’uomo dalla sofferenza e dalle speranze. Da qui, l’eccezionalità del furioso, e il travaglio dei suoi sforzi, ignoto al savio:
Questa a punto è la testa d’un furioso amante; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualunque maniera e modo siano malamente affetti; perché non possiamo né doviamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliasi: atteso che ad un ch’a cercato un regno et ora possiede, convien il timor di perderlo; ad un ch’a lavorato per acquistar gli frutti de l’amore, come è la particolar grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e auspizione.
Proprio perché è “travaglioso”, l’eroico furore può consentire di afferrare la realtà (l’ignuda Diana o, se si vuole, la spogliantesi Laura). Se si affidasse alle virtù del sapiente – indifferenza e temperanza – l’uomo resterebbe rinchiuso nelle muraglie della mutazione: non varcherebbe mai il confine della vanitas , del niente. Solo da una condotta “viziosa” può germinare, oltre la vanitas , la renovatio; solo da un vizio può scaturire nuova virtù.
Diana e Atteone
Che l’eroico furore sia un vizio e non una virtù è dichiarato da Bruno nelle pagine iniziali del Dialogo secondo della Parte prima:

il vizio è là dove è la contrarietade; al contrarietade è massima là dove è l’estremo; al contrarietà maggiore è la più vicina all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convengono e son uno et indifferente [..]In cotal modo chi è minimamente contento e minimamente triste, è nel grado dell’indifferenze, si trova nella casa della temperanza, e là dove consiste la virtude e condizioni d’un animo forte[..]. Ecco dunque[..] come questo furor eroico [..] è differente dagli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio, ma come un vizio ch’è in un soggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un soggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma dell’esser vizio.
Poco oltre leggiamo:
All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo, declinando da uno e l’altro contrario: ma quando tende agli estremi inchinando a l’uno e l’altro di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è doppio vizio, il qual consiste in questo, che la cosa recede dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convengono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude.

Il vizio del furioso consiste nel suo essere “non nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi”, nel suo concentrarsi su un estremo, incrinando, così, l’indifferenza. In tale vizio sta la sua forza, dal momento che la radicalizzazione della contrarietà rappresenta l’unica possibilità di trascendere il tempo ( il finito) e di vedere la luce divina, l’ignuda Diana. Come può, infatti, il finito, che è sempre altro da sé, abbracciare con lo sguardo l’infinito? Ora, “dove l’unità e l’infinità son la medesima cosa”, non c’è spazio per “qualche compita e perfetta azione”. E come vuole la tradizione della teologia negativa, poiché “il fonte della luce non solo gli nostri intelletti, ma ancor agli divini di gran lunga sopravvanza”, conviene che ” non con discorsi e paroli, ma con silenzio venga celebrata”. Acuendo al massimo l’incommensurabilità tra Dio e uomo, tra infinito e finito, ma insistendo al contempo sul nesso ombra – luce, contrarietà – unità, la filosofia nolana viene a schiudere orizzonti infiniti all’aspirazione conoscitiva umana, facendo perno sulla leva dell’eroismo del furioso.
Bruno muove dalla considerazione del limite che caratterizza la vita terrena dell’uomo, rinchiuso nella ” prigione de la carne, et avinto da questi nervi, e confirmato da queste ossa”. Si tratta di un limite insieme oggettivo e soggettivo, fisico e gnoseologico, dal momento che il corpo è per l’uomo come il ” carcere che tiene rinchiusa la sua libertade”, il “vischio che tiene impaniate le sue penne”, il “velo che gli tien abbagliata la vista”. Perciò, al divina luce è “più in laborioso voto che in quieta fruizione”, dal momento che ” la nostra mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole”. L’uomo può sì accettare passivamente la vanità della sua esistenza, lasciando che il proprio destino si dissolva nell’infinita vicissitudine delle sorti e delle forme: questa è la scelta del savio, la ragione della sua indifferenza e temperanza! Ma può tentare di riscattare tale vanità e accidentalità, non negando la limitatezza e finitezza del suo esistere (né lo potrebbe, visto che si tratta di un limite strutturale), bensì potenziando al contrarietà, incrinando l’unità, tendendo al massimo quel limite, sì da scorgere la via per l’autentica renovatio, in cui il furore rivelerà la propria potenza conoscitiva ( e da vizio diventerà virtù, da dolorosa fatica felicità).Ma è via di pochi, anzi di pochissimi:

rarissimi dico son gli Atteoni alli quali sia dato da destino di poter contemplare la Diana ignuda: e dovenir tale che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da què doi lomi del gemino splendor de divina bontà e bellezza, vengano trasformati in cervio, per quanto non siano più cacciatori ma caccia.
Nello Spaccio Bruno aveva ricordato che sovente accade che mentre questi Atteoni vanno perseguitando gli cervi del deserto, vengono dalla lor Diana ad esser convertiti in cervio domestico”, presentando la conversione operata dalla dea come una pratica di incantesimo”, un rito magico consistente nel “soffiargli al viso, e gittar l’acqua della fonte addosso”. Ma c’è un’altra magia non meno importante che garantisce che dalla morte nasca l’uomo nuovo: Si videbas feram, / tu currebas cum ea: /me, quae iam tecum eram /spectes in Galilea è la formula recitata tre voilte da Diana. Tradotta alla lettera: “Se vedevi una fiera, correvi con lei; aspetterai me, che già ero con te, in Galilea”. Bruno fonde insieme (e deforma) un passo del vecchio Testamento (i primi due versi corrispondono a Salmi, 48,12 ) e uno del Nuovo ( Matteo, 28,7); inoltre, nella citazione dai Salmi sostituisce al termine furem (ladro) il quasi omofono feram (belva), ricorrendo a un lemma comunemente associato alle rappresentazioni simboliche di Cristo.
Nei furori la vicenda di Atteone è narrata in modo più articolato. All’inizio del Dialogo quarto della Parte prima Bruno la riprende, precisando che si tratta della descrizione del “discorso de l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è il sommo bene” e dell’ “eroico intelletto che ginger si studia al proprio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta”:

Alle selve i mastini e i veltri slaccia
Il giovane Atteon, quand’il destino
Gli drizz’ il dubio et incauto camino,
di boscarecce fiere appo la traccia.
Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia
Che veder poss’il mortal e divino,
in ostro et alabastro et oro fino
vedde: e ‘l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio ch’ha più folti
Luoghi drizzav’ i passi più leggeri,
ratto voraro i suoi gran cani e molti.
I’ llargo i miei pensieri
Ad alta preda, et essi a me rivolti
Morte mi dan con morsi crudi e fieri.

L’incantesimo di Diana si fa incantamento, la sua magia rivelazione. L’avventura d’Atteone concorre a definire l’itinerario del furioso. Non basta l'”operazion de l’intelletto”, ma è richiesta anche quella “più vigorosa et efficace” della “voluntade”, poiché “a l’intelletto umano è più amabile che comprensibile la boutade e bellezza divina”. Nonostante la “lanterna” dell’amore, il suo cammino resta incerto, come “breve et instabile” è il furore. Atteone (o chi per lui) non può cogliere la “boutade” e lo splendore divini se non “nel specchio de le similitudini”, e tale mediazione è tanto più necessaria in quanto è solo convertendolo in sé che il finito può cercare di mettersi sulla via dell’infinito. In forza di questa conversione il furioso diviene da predatore preda:
Sai bene che l’intelletto apprende le cose intelligibilmente, idest secondo il suo modo; e la volontà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo al raggione con la quale sono in sé. Così Atteone con què pensieri, què cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, al beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, vedessi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perchè già avendola contratta in sé, non era necessario di cercar fuori di sé la divinità.
Tuttavia, se la “divinitade può abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade”, questa riforma da sola non è ancora sufficiente. L’assoluta sproporzione tra finito e infinito destina, infatti, la volontà di potenza d’Atteone ( e di qualsiasi altro furioso) allo scacco, impedendogli di percorrere il cammino che porta all’ “absoluta verità”. bruno è consapevole dell’ impasse , e non è un caso che nella Parte seconda dei Furori concentri la sua attenzione sulla possibilità della comunicazione, ossia della partecipazione tra uomo, dio, natura.
Fin qui Atteone ha cercato di scorgere la divinità, non riuscendo a vederla nella sua “ignuda verità”, sconfitto in virtù ddel limite che contraddistingue il suo sguardo finito. Eppure, la verità si può dare solo come visione, come rivelazione: ” Per man d’amor scritto veder potreste/ nel volto mio l’istoria de mie pene”, si legge nel Diaologo primo della Parte seconda dei Furori . Il volto è per Bruno “l’anima, in quanto che è esposta alla recepzion de doni superiori”, rispetto ai quali,però “è in potenza et attitudine, senza compimento di perfezzion et atto: il qual aspetta la rugiada divina”. È alla divinità che bisogna alzare gli occhi, implorandone l’aiuto. E la divinità è disposta a darlo: “tutta in tutto, non si porge o sottrae se non per altrui conversione o avversione”. Anche se – non bisogna dimenticarlo – è la dea a scegliere modi e tempi: una cosa è, infatti, “la divina mente per sua divina provvidenza viene a comunicarsi senza disposizione del soggetto”; un’altra “quando aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare”. Per questo, ” non appare a tutti, né può apparir ad altri che la cercano”.

La verità è fugace
Rarissimi, si è detto,sono gli Atteoni, ed eccezionale è la condizione del furioso, alla cui riforma è indispensabile, oltre l’esercizio della volontà e dell’intelletto, il “beneficio d’Amore”. È l’amore a vincere “l’affetto duro et inetto ad essere riscaldato e penetrato”, a ferire Atteone con el frecce de Diana, a costringere il furioso a superare “gli studi materiali e sensitivi” e ad accogliere dentro di sé la visione della verità. Questa si rivela nel “singular istante” in cui Amore, dopo numerosi assalti e colpi, riesce a piegare la resistenza del furioso, elevandolo a quella “purità del concetto” che lo rende “capace abitazione delle specie peregrine” che “sempre battono alla porta dell’intelligenza”. Nella partita giocata e vinta da Amore il furioso è actus, non agens; agito, non agente. Ma noi sappiamo che Bruno predilige il furore in cui “si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade”, a scapito di quello asinino, in cui l’uomo si lascia semplicemente abitare dalla divinità. La necessità del beneplacito divino non può eliminare la necessità dell’azione. Piuttosto, occorre pensarli insieme, superando una doppi,a e epr certi versi speculare, unilateralità: da un lato, il primato (di matrice umanistica) dello sforzo del furioso; dall’altro, l’enfasi esclusiva (di tipo mistico) sulla funzione della “rugiada divina”, di Amore. Da qui l’originalità della soluzione bruniana nel Dialogo secondo della Parte seconda dei Furori: “Conviene che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno e gli in strumenti atti alla sua caccia”. Senza di essa, il furioso finisce per dimenticare se stesso e la propria umanità. Si consegna all’imbecillità di quell'”ingegno” il quale

“attento a la divina impresa in un subito si trova talvolta ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né deve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un picciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustanza nell’aere spacioso e immenso.
Non è di questo assorbimento, di questo oblio e negligenza si sé che Bruno è in cerca. Nella sua ascesa il furioso non vede “il fonte de la luce, verità de le veritadi”, il “sole, l’universale Apolline e luce absoluta per spcie suprema et eccellentissima”, bensì “la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo la natura che è nelle tenebre” E di questa intrinseca e ineliminabile “umbratilità” del furioso e immagine Diana, che media tra l’assoluta luce del solare Apollo e il disperato desiderio degli umani occhi, ponendoli al contempo in comunicazione; non diversamente dalla Luna, che illumina l’intelletto e la volontà umani partecipando loro la “pura et absoluta luce” di quella prima intelligenza che è il Sole:
Lun’incostante, luna varia, quale
Con corna or vote e tal’or piene svalli,
or l’orbe tuo bianc’ or fosco risale,
or Bora e de’ Rifei monti le valli
fai lustre, or torni per tue triste scale
a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli.
LA luna per mia continua pena mai sempre è ferma, et mai sempre piena.
E’ tale la mia stella,
che sempre mi si togli e mai si rende,
che sempre tanto bruggia e tanto splende,
sempre tanto crudele e tanto bella:
questa mia nobil face
sempre si mi mortora, e si mi piace”.

Come l’incostante Luna, così l’ignuda Diana è all’origine, oltre che della vanitas, anche della renovatio umana. Il fine ultimo del furioso è “de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator doverne preda, il cacciator doventi caccia”. Non basta,però, “la bocca dell’intelligenza propria”; occorre il beneplacito della divinità, la sua decisione di rivelarsi a chi la ricerca. Tale rivelazione è appunto fusione di furore umano e rugiada divina. Nel suo itinerario verso Dio il furioso si trasforma: andato per cacciare viene mutato in cervo e cacciato, e questa trasformazione di caratteri e di destino (vera metamorfosi) solleva Atteone a un altro grado della realtà, rendendolo partecipe di un altro grado della verità. nell’ombra della natura il furioso scova la via verso il divino:
onde da volgare, ordinario, civile e popolare, diviene salvatico come cervio, et incola del deserto; vive vivamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupitadi, dove più liberamente conversa la divinità[..]. Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, al moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per finestre la sua diana, ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizzonte.
Improvvisa, anzi istantanea, la rivelazione dona al furioso l’unità del reale:
tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo al diversità de sensi, come de diverse rinne fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti i numeri, de tutte specie, de tutte ragioni, che è la Monade, vera essenza dell’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nelal sua genitura che gl iè simile, che è la sua immagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è distinta nella generata e generante, o producente e prodotta.

Anche nell’estasi conoscitiva il furioso vede l’uno, !la Monade” solo “nella sua genitura”, in immagine: neppure qui, dunque, cade la distinzione tra luce e ombra, tra finito e infinito. In altri termini, persino là dove è massima la comunicazione con il divino, l’uomo resta tale: non vi è coincidenza con Dio, non vi è cioè “indiamento”, per usare un termine caro a Dante. Il beneplacito divino proietta il furioso verso l’implicito, il complicato, l’istantaneo, mettendolo in contatto con l’infinito principio vitale, nel punto più altro della sua unità e attualità. Ma l’ “improportionalitade delli mezzi de nostra cognizione al conoscibile”, non viene meno; al vertice della renovatio, l’uomo resta accidente, vanitas:
la visione immediata, detta da noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelleggibile, né quella che è la luce; ma quella che è proporzionale alla spessezza e densità del diafano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come avviene a colui che vede de le acqui più o meno torbide, o aria nemboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso.
Al confine tra vicissitudine del tempo ed eternità dell’istante, il furioso vive l’esperienza delle rivelazione. Dono divino, concesso solo a quei pochissimi che l’hanno ricercato, non ha però nulla a che spartire con la grazia dei Riformati. Anzi, la riforma eroica è – in virtù dell’intimo intreccio di studio e beneplacito, “inclinazion de natura”, “elezion de voluntade” e “disposizion del fato” – l’esatto contario della riforma asinina. Come nello Spaccio , la riforma bruniana presuppone la corrispondenza tra giustizia divina, giustizia naturale, giustizia umana; a sua volta, l’intervento del divino descritto nei Furori non ah nulla della trascendenza propria delle concezioni tradizionali: attrae il furioso e lo solleva di scatto a un grado superiore dell’essere, senza garantirgli alcuna imperitura salvezza. La preda è fugace, come fugaci e labili sono le specie della verità. Per questo Bruno insiste sull’eccezionalità di tale condizione. E a ben guardare, siffatta eccezionalità rende il furioso sempre più simile al Mercurio inviato dagli dei a portare la luce del vero nel tempo della crisi, ossia, al Nolano stesso, messaggero della nova filosofia contro l’asinità e pedanteria dei cristiani di qualsiasi denominazione. 

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