Giappone dei sensi

di Fabio MASSI
La concezione sessuale di un popolo che trae la propria origine da un rapporto incestuoso. Un viaggio tra la naturalezza fisica dello Shintoismo, tra la pederastia praticata dal clero buddista e dalla classe dei samurai nel periodo medioevale, tra le stampe erotiche del “mondo fluttuante” e il culto dei genitali nelle odierne feste popolari.
Nel Giappone moderno, sesso, erotismo e sessualità non rappresentano argomenti molto trasgressivi, e chi ne parla non vi lega mai alcuna connotazione scandalosa. Al contrario, si può tranquillamente affermare che l’esperienza estetica, sensoriale. cerebrale o puramente carnale e fisica attinente alla sfera sessuale viene concepita dal popolo nipponico come una materia del tutto naturale. Tutti i grandi scrittori della letteratura giapponese, infatti, si sono cimentati con temi erotico-sessuali e non hanno mai dovuto subire nessuna sorta di censura, ne dalle istituzioni ne dai lettori. La sessualità riguarda la sfera individuale e non conosce le regolamentazioni severe proprie della civiltà del Sol Levante. L’antropologa americana Ruth Benedici (1887-1948), autrice di un famoso libro sulla cultura nipponica, // crisantemo e la spada, in proposito afferma: “/ giapponesi considerano il sesso allo stesso modo in cui considerano qualsiasi altra passione umana, ossia come qualcosa di essenzialmente positivo, anche se di secondaria importanza rispetto ai vari elementi costitutivi della vita umana”.
Probabilmente, ai più, tali affermazioni possono apparire alquanto inconsuete, magari tenendo conto della proverbiale riservatezza e timidezza del popolo asiatico, oppure pensando alla tradizionale spiritualità orientale. In effetti, per le strade delle città nipponiche, oggi è difficile vedere una coppia che si bacia in pubblico o che si scambia manifestazioni d’affetto. Eppure le immagini erotiche, o addirittura pornografiche, sono quasi dovunque: nelle sale d’aspetto degli ospedali, sulle centinaia di milioni di riviste e manga che vengono letti senza alcun pudore sui treni e sulle metropolitane, nelle edicole, nei supermercati, nelle cabine telefoniche. Chi ha avuto occasione di vivere in Giappone, o chi ha avuto la possibilità di soggiornarvi per qualche periodo, afferma che per un occidentale non è necessario comprendere fino in fondo la cultura nipponica, semplicemente perché è impossibile. Cerchiamo, allora, di analizzare alcuni aspetti più peculiari di questa tradizione, così ricca di contraddizioni (forse è proprio questo il fascino del Giappone), partendo dalla mitologia.
L’ORIGINE INCESTUOSA DEL GIAPPONE
Nel Kojiki, le più antiche cronache scritte nella storia del Giappone redatte nel 712, si narra, tra l’altro, delle origini mitologiche del popolo e della nazione. Secondo la tradizione shintoista {shinto, o “via degli dèi”, è il culto delle divinità che risiedono nella natura e negli spiriti degli antenati) in principio esisteva un’infinita massa informe, dalla quale si alzò una luce trasparente che creò il cielo e la relativa divinità Ama-no-Minaka (“il dio dell’augusto centro del cielo”). I cieli fecero nascere una seconda divinità. Takami-Musubi (“l’alto dio che crea il meraviglioso”). poi una terza, Kammi-Musubi (“il dio augusto che crea il meraviglioso”). Nel frattempo, tutta l’esistenza intorno ai tre dèi era fluttuante, opaca e pesante, come fosse un’immensa medusa galleggiante sulle acque. Improvvisamente, dall’interno di questo infinito spazio informe, iniziarono a nascere tantissime divinità in successione, ma il mondo rimaneva sempre nel caos primordiale. Allora tutti gli dèi decisero di procreare due esseri divini, fratello e sorella: Izanagi (“l’uomo che invita”), dio di tutto ciò che è luminoso e celestiale, e Izanami (“la donna che invita), dea della terra e dell’oscurità, ai quali affidarono il compito di creare la terra ferma. I due fratelli, mentre si trovavano sul ponte di nuvole sospeso nel cielo (Ama-no-Ukihashi), smossero l’oceano sottostante, conficcando la lancia sacra ornata di pietre preziose, chiamata Ama-no-Nuboko, dalla quale scivolarono alcune gocce, che si coagularono creando la prima isola dell’arcipelago nipponico, chiamata Onokoro. Qui stabilirono la loro dimora e, nonostante fossero fratello e sorella, espressero il desiderio di sposarsi. Quindi, al centro dell’isola, piantarono un pilastro (simbolo del centro del mondo), intorno al quale Izanagi, il dio maschile, iniziò a girare da sinistra e sua sorella fece altrettanto, ma dalla parte opposta. Quando s’incontrarono, Izanami disse: “.Che delizia imbattersi in un giovane così grazioso!”. A queste parole, Izanagi rispose: “Che delizia imbattersi in una fanciulla così graziosa!”.
Dopo di che, i due si sposarono e Izanami partorì un figlio, ma il nascituro era debole e senza ossa, come un invertebrato, e i genitori ne furono inorriditi tanto che lo misero in una barca di canne e lo abbandonarono in balia delle acque, Poi ebbero un secondogenito, ma l’esito fu deludente come il primo, allora, pieni di timore, salirono in cielo per interpellare le varie divinità. Queste, durante una cerimonia divinatoria, risposero che la causa delle loro disgrazie era da imputare al comportamento sbagliato di Izanami, la divinità femminile, la quale, dopo aver girato intorno alla colonna, aveva parlato prima del fratello. In pratica una legittimazione, questa, del ruolo predominante dell’uomo in una società ancora oggi a forte connotazione maschilista. Perciò, i due sposi fecero tesoro della divinazione, tornarono sull’isola e girarono ancora una volta intorno alla colonna. Quando si incontrarono, il primo a parlare fu Izanagi e ciò fu considerato in conformità con le leggi della natura. I due fratelli, allora, iniziarono a proliferare figli in ottime condizioni; prima l’isola di Awaji, poi quella di Shikoku, quindi Oki, Sado, Kyushu, Tsukushi, Tsushima e, in ultimo, l’isola più grande, Hon-shu. Izanagi e Izanaini, successivamente, misero alla luce tantissimi piccoli isolotti che circondarono le terre più grandi. Il Giappone era stato creato da un incesto. Come si nota da questi racconti mitologici, lo Shintoismo ha sempre portato avanti un’ ideologia positiva, soprattutto riguardo al ruolo del sesso nella procreazione, diversamente da quanto diffuso dal Cristianesimo, i cui miti legati alla creazione sono incentrati sul dimorfismo sessuale, consideralo l’origine del deterioramento dei rapporti umani (basti pensare all’espulsione di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden), Nella mitologia nipponica, invece, le figure ancestrali di Izanagi e Izanami rivelano curiosità verso il sesso e sono pronti a sperimentarlo. Prima di unirsi in matrimonio, infatti, la divinità maschile esprime alla sorella-moglie la voglia di prendere “la propria parte sporgente” e di inserirla “nella parte dove tu sei carente”. Secondo la concezione shintoista, il sesso è una manifestazione della natura ed è istintivo, come per tutti gli altri animali di questo mondo.
L’OMOSESSUALITÀ BUDDHISTA
Nuovi aspetti legati alla sfera sessuale furono introdotti nella cultura giapponese nel periodo di Nara (710-794), caratterizzato dalla legittimazione del Buddhismo come religione di Stato, dopo che era giunto nel VI sec. dalla Cina, attraverso la Corea, traboccante di novità in ogni campo: politica, tecnologia, arte, architettura. E’ difficile descrivere la concezione buddhista riguardo al sesso, perché il culto che si sviluppò in Giappone era completamente diverso dall’originale indiano, in quanto influenzato da varie culture in periodi differenti. La scuola buddhista giapponese Shingon, fondata dal monaco Kuukai (774-835), ad esempio, delinea una propria versione del Tantra, chiamata Tachikawa Ryu, nella quale s’insegna che la perdila dell’Io, nell’atto sessuale, può portare al risveglio dello spirito. Più in generale, si può dire che per il Buddismo nipponico il sesso venne visto come positivo in sé stesso, al di là del suo ruolo nella procreazione. Ciò che influenzò notevolmente le istituzioni buddhiste nipponiche fu la concezione omosessuale, la cui introduzione si deve (secondo un mito popolare) al già citato monaco Kuukai. Il fondatore della scuola Shingon, infatti, durante i suoi studi condotti in Cina nel IX sec., apprese come i giovani accoliti (tra i 10 e i 16 anni) incarnassero il principio femminile e, al suo ritorno in Giappone, divulgò gli atti omosessuali e della pederastia tra gli esponenti del clero buddhista.
Ci sono pervenute diverse testimonianze scritte riguardo a tali argomenti, registrate dai missionari cattolici nella seconda metà del XVI sec. Il gesuita padre Francio Cabrai, ad esempio, in una lettera scritta nel 1596, parla di “aborrimento della carne” e di “pratiche viziose”, ma fu colpito soprattutto dal diffuso consenso popolare di tali prassi: “Ho visto uomini di levatura affidare i propri figli ai bonzi per farli istruire e allo stesso tempo, per soddisfare la loro lussuria”. L’organizzazione dei monasteri buddhisti, inoltre, in comunità sessualmente segregate, spesso isolate in remote località montane, incoraggiò lo sviluppo dell’omosessualità e in particolare, della pederastia, il cui “oggetto” del desiderio era rappresentato dagli accoliti, chiamati in giapponese chigo, o kasshiki, se molto giovani. Questi ragazzi vivevano insieme ai monaci, ma, diversamente da essi, non erano costretti a tagliarsi i capelli, anzi, dovevano portarli lunghi fino alle spalle e, si dice, che si truccassero il viso e indossassero vesti di seta. Nel periodo Muromachi (1333-1568), con l’introduzione del Buddhismo Zen (dall’originale cinese Ch’an), le istituzioni religiose provarono a porre un freno al dilagare della pederastia, diventata la causa principale dei comportamenti eccessivi dei monaci, così lontani dallo spirito di semplicità e dalla ricerca dell’io, che il culto Zen tentava di divulgare. L’amore omosessuale si diffuse anche nel periodo feudale, tra la classe dei guerrieri per eccellenza: i samurai.
Presso i bushi (sostantivo più corretto per indicare tale casta), infatti, praticare rapporti sessuali con giovani maschi (tra gli 11 e i 20 anni), era considerata una fase di passaggio in un’amicizia che durava per tutta la vita (in realtà, si credeva che l’attrazione tra due amanti derivasse dagli effetti karmici di una relazione avuta in una vita passata). Tali rapporti omosessuali non erano assolutamente clandestini, ma erano addirittura soggetti a un rigidissimo codice di comportamento. Per i giovani partner, che erano sempre sessualmente passivi, queste amicizie omosessuali non erano assolutamente fonte di vergogna, a patto, però, che la relazione avesse fine con la loro maturità.
IL MONDO FLUTTUANTE
Nei sec. XVII-XVIII, in pieno periodo Tokugawa, a causa del lungo periodo di pace che il Paese stava attraversando, i bushi cominciarono a perdere la loro identità guerriera e una nuova classe prese il sopravvento: i mercanti di città. Con il declino della casta dei samurai, anche i rapporti omosessuali si attenuarono e, allo stesso tempo, si verificò un’esplosione di forme d’arte, tutte finalizzate al divertimento popolare. Nelle maggiori città del Giappone vennero realizzati veri e propri “quartieri di piacere” (famosi lo Yoshiwara di Edo, l’odierna Tokyo, lo Shimabara di Kyoto, lo Shimmachi di Osaka), all’interno dei quali si concentravano sale da tè, bordelli, teatri e tutti gli svaghi riservati alla società mercantile dell’epoca.
Al posto dell’austerità del teatro No, si fecero largo il kabuki (che concentra in sé il dramma, la musica e la danza) e il joruri (o hunraku, il teatro delle marionette); invece, delle pitture tradizionali di origine cinese, ecco che irruppero gli artisti di ukiyu-e (“le pitture del mondo fluttuante”, incise su legno o dipinte col pennello), che ritraggono scene di vita quotidiana di città.
Quest’ultima forma d’arte (l’antenato dei moderni fumetti manga e uno dei modelli che influenzarono la pittura impressionista francese, Van Gogh compreso) prevedeva molte varianti, le più esplicite delle quali erano le stampe erotico-pornografiche shunga (letteralmente “pitture di primavera”).
Esse venivano realizzate e vendute su fogli singoli (misura media 39×26 cm) o, qualche volta, in forma di libro (enbon), e raffiguravano perlopiù scene sessuali molto esplicite, anche se non è raro vedere opere raffiguranti rapporti più velati. Tutti i grandi pittori di ukiyo-e si cimentarono con gli shunga, da Katsushika Hokusai a Kitagawa Utamaro, da Torii Kiyonaga ad Ando Hiroshige. Le stampe erotiche venivano acquistate non soltanto per soddisfare, almeno con la vista, il proprio senso erotico, ma anche per dare una certa educazione sessuale ai giovani, uomini e donne. Si dice, infatti, che fosse buona tradizione regalare una collezione di shungu ai novelli sposi.
MATSURI DELLA FERTILITÀ
Tra i giapponesi moderni, esistono diverse usanze che hanno origini antichissime e il motivo sessuale per guadagnarsi il favore delle divinità dei raccolti è una di queste. In molte città nipponiche, infatti, si svolgono diverse matsuri (“solennità religiosa”, le spettacolari e chiassose cerimonie-processioni shintoiste) dedicate al culto dei genitali. Una delle più famose è l’Hounen Matsuri, che si svolge il 15 marzo di ogni anno, nella cittadina di Komaki, nei pressi di Nagoya (Giappone centrale). La parola Iwunen significa “anno di abbondanza” e per propiziare tale avvenimento viene trasportato, da un tempio a un altro della città, un palanchino che sorregge un enorme fallo di legno lungo 2,5 m, dal peso di oltre 400 kg. E’ un’occasione assai festosa che richiama persone di tutte le età, da ogni parte del Paese, in un clima di gran divertimento, innaffiato con ettolitri di birra e di sake. Si possono vedere coppie che sfiorano il grande genitale di legno affinché possa benedire la loro fecondità. Nonostante quest’atmosfera spensierata, la festività ha un’origine molto seria e il suo scopo è venerare la divinità femminile (chiamata Tamahime) che simboleggia la fertilità agricola. Ogni anno, in pieno inverno, viene fabbricato un nuovo fallo, modellandolo da un singolo tronco di cipresso giapponese, seguendo rituali ben precisi. La processione dell’enorme genitale, che si svolge qualche giorno prima dall’entrata della primavera (la stagione in cui tutto si rigenera e torna alla vita), è guidata da un monaco shintoista che sparge sale per purificare il cammino del palanchino, circondato da numerosi uomini in costumi contadini tradizionali, che impugnano stendardi raffiguranti genitali stilizzati, e giovani donne vestite con abiti rosa, che imbracciano falli di legno lunghi 60 cm.
Poi, compaiono due palanchini: il primo trasporta la statua di Takeinadene, marito della dea della fertilità, mentre il secondo è quello del grande fallo di legno, portato a spalla da 12 uomini, tutti di 42 anni (età considerata infausta e, perciò, bisognosa di protezione divina).
L’enorme genitale, una volta giunto a destinazione, viene dato in dono alla divinità femminile e viene conservato all’interno del tempio fino all’anno seguente. Tutto questo si svolge nella massima naturalezza, a conferma che sia nell’antichità sia nella cultura nipponica moderna, il sesso non conosce alcuna prerogativa trasgressiva, ne rappresenta qualche fonte d’inibizione. 

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