Con Copernico e oltre

Nella discussione dei moti della Terra il Nolano formula, contro nuove e vecchie obiezioni, il suo principio di relatività
E’ da credere che il Copernico non essere stato d’opinione che la Terra si muovesse, per che questa è una cosa inconveniente et impossibile; ma che lui abbia attribuito il moto a quella più tosto che al cielo ottavo, per la comodità de le supputationi.
Sarebbe stata questa la prima delle quattro obiezioni che, nel resoconto di Teofilo, il “dottor” Nundine avrebbe rivolto al Nolano durante la cena. Il riferimento alla prefazione anonima al De revolutionibus è esplicito. In quelle pagine, intitolate Ad lectrorem de hypothesibus huius operis(al lettore sulle ipotesi di quest’opera), Andreas Hosemann (1498), latinamente Osiander, teologo luterano e autore del trattato De praedestinatione, aveva dichiarato come il compito dell’astronomo fosse quello di “comporre, mediante un’osservazione intelligente e abile, la storia dei movimenti celesti” e, non essendo possibile individuare le vere cause, di “immaginare e inventare delle ipotesi qualsiasi sulla cui base questi movimenti, sia riguardo al futuro, sia riguardo al passato, possano essere calcolati con esattezza, conformemente ai principi della geometria.
Ne aveva concluso che “questo compito l’autore di questa opera lo ha assolto egregiamente”, dal momento che “non è necessario che queste ipotesi siano vere e neppure verosimili, ma basta questo soltanto: che esse offrano dei calcoli conformi all’osservazione”. Sono, del resto, osservazioni che ricalcano quanto Osiander aveva anticipato allo stesso Copernico nel 1541: “Io ho sempre creduto che le ipotesi non siano articoli di fede, ma base del calcolo. Così che, se anche sono false, ciò non ha importanza, purchè riproducano esattamente i fenomeni die moti”.
Nundine, rappresentante dei protestanti di Oxford, fu dunque proprie le tesi di Osiander: né questo deve stupire, dal momento che le idee copernicane avevano inizialmente preso a circolare proprio in ambiente riformato. Certo, Lutero non aveva esitato a definire il canonico di Torun un “astrologo da quattro soldi”, “un insensato che vuol sovvertire l’intera scienza astronomica” pretendendo di dimostrare “che la terra si muove e va in tondo, e non il cielo e il firmamento, il Sole e la Luna”, anzi, Copernico era un folle, non troppo diverso da chi, “trovandosi in una carrozza o in una nave in moto, volesse supporre di essere fermo e che fossero la terra e gli alberi a muoversi e ad allontanarsi”. Tuttavia a Wittemberg era fiorita una scuola copernicana che, per l’influenza di Filippo Melatone (1497-1560), critico anche’esso del copernicanesimo, ma desideroso di una riconciliazione tra Riforma e filosofia naturale, aveva sviluppato gli aspetti matematici della nuova cosmologia, senza accettarne le implicazioni in senso realistico.
Così, nel replicare a Nundine, Bruno dà prova d’essere a conoscenza del dibattito sollevato dalla pubblicazione del De revolutionibus; non solo si beffa di Osiander, ma mostra quanto poco “fedelmente” quel “bel portinaio” abbia servito al “padrone di casa”.

-al Copernico non ha bastato dire solamente che la terra si move; ma ancora protesta e conferma quello, scrivendo al papa e dicendo che le opinioni di filosofi non molto lontane da quelle del volgo indegne d’esser seguitate, degnissime d’esser fugite: come contrarie al vero e dirittura.
L’accenno, in chiave volutamente polemica con i riformati, all’epistola con cui Copernico dedicava la propria opera a papa Paolo III, rientra in una strategia ermeneutica che il Nolano preciserà solo nel quarto Dialogo della Cena, ma che di fatto ne ispira l’intera riflessione cosmologica. R rispondendo all’osservazione si Smitho che “la divina scrittura in molti luoghi accenna e suppone il contrario” della visione copernicana (emblematico al riguardo è il paso dell’Ecclesiaste 1,5: “Il Sole sorge e il Sole tramonta, si affretta verso il luogo dove risorgerà”, Teofilo dichiara:
-Or quanto a questo credetemii che se gli dei fussero degnati d’insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosteri alla fede delle loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de le mie ragioni e proprii sentimenti. Ma (come chiarissimamente ogn’uno può vedere) nelle divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le dimostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia: ma in grazia de la nostra mente et effetto, per leggi si ordin la pratica circa le azione morali.
Bruno ha come obiettivo quello di distinguere tra la “prattica” delle “cose morali” e la “teorica delle cose della natura”, ossia tra legge e verità, accantonando qualsiasi criterio di verosimiglianza e ribadendo, proprio in virtù di quella distinzione, la legittimità della religione e della filosofia naturale (cosmologia) nei loro campi rispettivi. Ciò non significa che tra testo biblico e ricerca filosofica non siano in linea di principio possibili punti di contatto, convergenze, connessioni d’ordine speculativo. Ma perché questo si verifichi è necessario aver coscienza della pluralità dei registri linguistici, della complessità e della varietà delle forme e dei livelli espressi della “divina scrittura”, non prendendo cioè “per metafora quel che non è stato detto per metafora” e “per vero quel che è stato detto per similitudine”. Da qui l’ostilità di Bruno al principio scritturale luterano (che aveva trovato pendant nell’interpretazione convenzionalistica del dettato copernicano) e il suo apprezzamento per il valore esegetico dell’allegoria e della metafora, sulla scia di una tradizione che movendo da Origine (1825-253) perviene a Girolamo (347-420), per arrivare sino a Erasmo, anche in questo maestro il Nolano. Con il suo “letteralismo” Lutero sostituisce i nomi alle cose, le parole ai sentimenti, invertendo così l’ordine dei gradi espressivi e precludendo la via a una qualsiasi forma di conoscenza, quella via che penetra nei sentimenti e che per questo deve essere percorsa dal “divino interprete” sia del Libro sia della Natura.
C’è ancora un punto nella prima obiezione di Nundine. A sostegno della sua interpretazione del De revolutionibus, Osiander aveva dichiarato che la descrizione copernicana del moto di Venere intorno al Sole era contraddetta dall’esperienza, in quanto implicava un mutamento del suo diametro apparente nella fase di apogeo e perigeo molto più grande di quello attestato dalle osservazioni degli astronomi. Più dell’effettiva replica del Nolano, che invita quel “troppo ignorante” a studiare “la vera optica e geometria”, la quale insegna che il diametro apparente di un corpo luminoso varia in ragione dell’intensità della luce ( e non della sua effettiva grandezza) e che esso non diminuisce in maniera significativa via via che il corpo si allontana dall’osservatore (prova ne sono le lanterne di Valona che si intravedono dalla costa pugliese e che altrimenti dovrebbero essere enormi), sono alcune considerazioni relative alle leggi che regolano la diffusione della luce a risultare decisive; in particolare là dove Bruno osserva che un corpo opaco o poco luminoso interposto tra due corpi più luminosi non ne impedisce la visione reciproca, dal momento che l’intensità della luce rende questi ultimi visibili anche a grande distanza, mentre già a breve distanza il primo tende a scomparire dal campo visivo:

per disrozzir uno ingegno non troppo sullevato, a fin che possa facilmente introdurse a comprendere la apportata raggione, e per ammollar al possibile la dura apprensione, fategli esperimentare ch’avendosi posto uno stecco vicino a l’occhio, la sua vista sarà di tutto impedita a veder il lume della candela posta a una certa distanza: al qual lume quanto più più si viene accostando il stecco, allontanandosi da l’occhio, tanto meno ne impedirà detta veduta [..]. Or giogni a questo che ivi rimanga il stecco, et il lume altrettanto si discoste: verrà il stecco a impedir molto meno. Cossì più e più aumentando l’equidistanza dell’occhio e del lume dal stecco: al fine senza sensibilità alcuna del stecco, vedrai il lume solo.
Questo esempio, come peraltro nota Smitho, permette di ipotizzare l’esistenza di “innumerevoli terre”, anche relativamente vicine alla nostra, invisibili però a occhio nudo, e così fornisce una delle premesse della concezione infinitistica dell’Universo di Bruno. Del resto, è in nome di questa, più che di quella finitistica inizialmente attribuita a Copernico, che il Nolano ribatte alla seconda obiezione di Nundinio, il quale giudica inverosimile il moto della Terra, “essendo quella il mezzo e centro de l’universo, al quale tocca esser fisso e custante fondamento di ogni moto”. Tale obiezione non intacca il sistema copernicano, che “tine il Sole nel mezzo de l’universo”; risulta addirittura insensata nei riguardi di quello bruniano, in quanto non può esservi qui “corpo alcuno [..] al quale semplicemente convenga essere nel mezzo, o nell’estremo, o tra què due termini: ma per certe relazioni ad altri corpi e termini intenzionalmente appresi”. Vale a dire, in un universo infinito termini come “centro” ed “estremo” perdono il loro significato assoluto, valendo solo in senso relativo.
Quanto alla terza obiezione di Nundinio, essa viene dichiarata fin da principio “fuor di proposito”, e come tale viene chiosata anche da Frulla, che pur confessa di intendersi poco di logica. Tuttavia, benché a prima vista sembri sviare il discorso, essa di fatto investe il nucleo del progetto di Bruno, in particolare il suo rifiuto dell’ontologia aristotelica. Quel che Nundinio vuole sapere, infatti, è “di che materia fusser quelli corpi che son stimati di quinta essenza: d’una materia inalterabile e incorruttibile, di cui le parti più dense son le stelle”. Il Nolano espone la propria opinione al riguardo, rigettando la differenza sostanziale tra corpi celesti e corpi sublunari (“li altri globi che son terre, non sono in punto alcuno differenti da questo in specie”) e distinguendo tra corpi caldi (i soli) e corpi freddi (le terre), dove tale distinzione non possiede alcun carattere sostanziale, dal momento che gli stessi corpi freddi sarebbero in grado di assorbire il calore dai rispettivi soli, nonché di comunicarlo all’esterno. Questo reciproco scambio consentirebbe per Bruno di chiarire la dinamica dei corpi celesti nei termini di un “intrinseco principio vitale”, contrapposto all'” estrinseco” motore immobile di aristotelica memoria:

se ben consideriamo trovaremmo che la Terra e tanti altri corpi che son chiamati astri, membri principali de l’universo, coem danno vita e nutrimento alle cose, che da quelli toglieno materia et a’medesmi la restituiscano, cossì e molto maggiormente hanno la vita in sé: per la quale, con una ordinata e naturale volontà, da intrinseco principio se muoveno alle cose e per gli spacii convenienti ad essi. E non sono altri motori estrinseci che col movere fantastiche sfere vengano a trasportar quei corpi come inchiodati in quelle[..]. Consideresi dunque che come il maschio se muove a la femina, e la femina la maschio, ogni erba et animale, qual più e qual meno espressamente, si muove al suo principio vitale, come al sole et altri astri.
Si tratta di un motivo presente già nel De umbris e nel Sigillus : la Terra e gli latri astri non sarebbero “trasportati” da sfere solide, come voleva la tradizione e come ancora pensava Copernico, bensì sarebbero mossi “secondo le proprie differenze locali dal principi ointrinseco che è l’anima propria”: un’anima che non è solo sensitiva e intellettiva, ma “forse anco più”, ossia “rationale” (come si legge, del resto, in un passo del Sommario del processo romano, che è datato marzo 1598 e nel quale Bruno dichiara che l’essere “animale rationale” della Terra, come di ogni latro astro, è “manifesto dall’atto suo rationale intellettuale, che si vede nelle regole del suo moto”).
Teofilo ricorda come le parole del nolano sull’anima dei corpi celesti fossero state accolte dapprima dal riso e poi dal silenzio di Nundinio, il quale, solo perché importunato, si sarebbe deciso ad avanzare una quarta obiezione, riprendendo uno degli argomenti classici del geostaticismo, sfruttato da Tolomeo nell’Almagesto: “se fusse vero la terra muoversi verso il lato che chiamiamo oriente, necessario sarebbe che le nuvole del aria sempre apparissero discorre verso l’occidente, per raggione del velocissimo e rapidissimo moto di questo globo, che in spacio di ventiquattro ore deve aver compito sì gran giro”. Avvalendosi tanto dei Metereologica di Aristotele quanto del Fedone di Platone, riletto in chiave copernicana, il NOlano replica essere parte della Terra quell'” aere per il quale discorrono le nuvole e gli venti”, aggiungendo di intendere sotto il nome di Terra “tutta la macchina e tutto l’animale intiero”, sicchè a essa apparterrebbero ” gli fiumi, gli sassi, gli mari, tutto l’aria vaporoso e turbolento il quale è rinchiuso negli altissimi monti”, non diversamente da come appartiene al “polmone” e alle “altre cavità degli animali” l’aria per cui “respirano, si dilatano le arterie, et altri effetti necessarii a la vita s’adempiscono”.

Navi e inchini
Ma quando sembra ormai calato il sipario sulla contesa tra Nolano e Nundinio, Teofilo è costretto a far fronte alla curiosità dell’inglese Smitho:

M’avete sufficientissimamente satisfatto, et altamente aperto molti secreti de la natura, che sotto questa chiave sono ascosi. Da quel che rispondete a l’argomento tolto da venti e nuvole, si prende ancora la risposta del altro, che nel secondo libro Del cielo e mondo apportò Aristotele [ si allude al De coelo, in particolare 296b, 22 – 26], dove dice che sarebbe impossibile che una pietra gittata a l’alto, potesse per medesma rettitudine perpendicolare tornare al basso: ma sarebbe necessario che il velocissimo moto della Terra se la lasciasse molto a dietro verso l’occidente. Perché essendo questa proiezione dentro la terra, è necesariuo che col moto di quella si venga a mutar ogni relazione di rettitudine et obliquità; perché è differenza tra il moto della nave, e moto da quelle cose che sono nella nave: il che se non fusse vero, seguiterebbe che quando la nave corre per mare giammai alcuno potrebbe trarre per diritto qualche cosa da un canto di quella a l’altro, e non sarebbe possibile che un potesse far un salto e ritornar cò piè onde lo tolse.
In queste pagine Bruno dimostra piena conoscenza del dibattito trecentesco su quella che oggi potremmo chiamare la relatività del moto, in particolare delle argomentazioni addotte a sostegno della possibilità della rotazione della Terra intorno al proprio asse, sia pure in un quadro ancora geocentrico, da Giovanni di Buridano e da Nicola d’Oresme nelle loro analisi della Fisica e del De coelo di Aristotele. Lo stesso Copernico aveva dichiarato nel Libro Primo (capitolo VIII) del De revolutionibus che la rotazione terrestre andava intesa come “moto naturale, non violento” e che, poiché come detto da Aristotele “le cose che si realizzano secondo natura hanno effetti contrari a quelle che si realizzano secondo violenza”, era “senza senso il timore di Tolomeo che la Terra e tutti gli esseri terrestri vengano distrutti in una rivoluzione prodotta per virtù della natura, che è ben diversa da quella dell’arte o da quella che può derivare dall’ingegno umano”. Inoltre, dopo aver sottolineato che la rotazione quotidiana è “apparenza” per la cosiddetta volta celeste e “verità”, invece, per la nostra Terra, citando un celebre verso di Vigilo (Eneide, III, 72) – “salpiamo dal porto,e le terre e le città si allontanano” – , aveva invitato a concludere che, non diversamente da ” quando una nave naviga nella bonaccia, i naviganti vedono tutte le cose che sono fuori di essa muoversi a immagine del suo movimento e, inversamente, credono se stessi e tutto ciò che hanno con sé in riposo”, così “può accadere anche per il movimento della Terra, in modo che si creda che tutto quanto il mondo giri attorno a essa”. Ed è l’argomento virgiliano della nave che Teofilo riprende, andando però al di là della spiegazione copernicana:
Con la terra dunque si muoveno tutte le cose che si trovano in Terra; se dunque dal loco extra la Terra fusse gettata in terra, per il moto di quella perderebbe la rettitudine. Come appare nella nave AB: la qual passando per il fiume, se alcuno che se ritrova ne la sponda di quello C venga a gittar per dritto un sasso, verrà fallito il suo tratto per quanto comporta la velocità del corso. Ma posto alcuno sopra l’arbore di detta nave, che corra quanto si voglia veloce, non fallirà punto il suo tratto: di sorte che per dritto dal punto E, che è nella cima dell’arbore o nella gabbia, al punto D, che è nella radice dell’arbore, o altra parte del ventre o del corpo di detta nave, la pietra o altra cosa grave gittata non vegna. Cossì se dal punto D al punto E alcuno che è dentro la nave gitta per dritto una pietra, quella per la medesma linea ritornerà a basso, muovasi quantosivoglia la nave, pur chè non faccia de gl’inchini .[..] Or per tornare al proposito: se dunque saranno dui, de quali l’uno si trova dentro la nave che corre, e l’altro fuori di quella, de quali tanto l’uno quanto l’altro abbia la mano circa il medesimo punto dell’aria; e dal quel medesimo loco nel medesimo tempo ancora, l’uno lascie scorrere una pietra, e l’altro un’altra, senza che gli donino una spinta alcuna: quella del primo senza perdere punto né deviar de la sua linea, verrà al prefisso loco, e quella del secondo si troverà tralasciata a dietro. Il che non procede da altro, eccetto che al pietra che esce dalla mano del uno che è sostentato da la nave, e per conseguenza si muove secondo il moto di quella, ha tal virtù impressa quale non ha l’altra che procede da la mano di quello che n’è fuora, benché le pietre abbiano medesma gravità, medesimo aria tramezzante, si partano (se possibil fia) dal medesimo punto,e patiscano al medesma spinta. DElla qual diversità non possiamo apportar altra ragione, eccetto che le cose che hanno fissione o simili appartenenze nella nave, si moveno con quella: e la una pietra porta seco la virtù del motore, il quale si muove con la nave; l’altra di quello che non ha detta partecipazione.
Nel De revolutionibus Copernico aveva addotto a ragione della caduta perpendicolare dei gravi il fatto che, essendo di natura terrestre, essi sono partecipi del movimento della Terra.
Diversa è la risposta di Bruno nel passo sopra citato, da cui traspare, come ebbe a rilevare (1966) il filosofo e storico della scienza Alexandre Koyrè, tutta la novità del suo ragionamento: “i corpi che sono “sulla Terra” partecipano al movimento della Terra non perché partecipano alla sua “natura”, ma semplicemente perché sono “in essa”, esattamente allo stesso modo in cui i corpi che sono “sulla nave” partecipano al movimento di questa”. In altri termini, non si tratta più della partecipazione a un movimento naturale, bensì “del moto tout court, dell’appartenenza del mobile a un sistema meccanico”. Esistono, senza dubbio, suggestive affinità tra le battute della Cena e le acquisizioni teoriche elaborate nel corso di un dibattito che dai Principia (1687) di Isaac Newton (1642 – 1727) arriva alla magistrale analisi della relatività del moto operata da Henri Poicarè (1854 – 1912) e da Albert Einstein (1879 – 1955); ma quello che Bruno (e, sulla sua scorta, Galileo Galilei, il quale nel Dialogo riprenderà – senza ami citarlo in modo esplicito – non pochi argomenti del Nolano) realizza è un vero e proprio cambiamento di ontologia. Torquato e Nundinio concepiscono, infatti, il moto come un processo assoluto, mentre il Nolano cerca di dar spazio a un’opinione tradizionalmente giudicata assurda e in contrasto con l’esperienza, sottolineando, di contro, il carattere relativo del moto. E lo fa, come ebbe a scrivere Paul Feyerabend 81924 – 1994), “ricordando che esistono situazioni note a tutti” (si pensi all’argomento virgiliano, ecc.) in cui “il carattere non operativo del moto comune agli organi di senso e all’oggetto osservato si impone con altrettanta fermezza dell’idea del carattere operativo di ogni moto in altre situazioni (quest’ultima non è dunque l’unica interpretazione del moto che conosciamo)”. Alla fine, riesce ad aver ragione di quelli che Galileo bollerà come “discorsi più che puerili bastanti per ritener gl’idioti nell’opinione della stabilità della Terra”.

Un errore
La discussione circa il vero “sistema del mondo” viene ripresa nelle ultime pagine del Dialogo quarto della Cena, in cui Bruno ricorda il suo passato per così dire “precopernicano”:

voglio che sappiate, ch’io prima che avesse questa posizione per cosa certissima, alcuni anni addietro al tenni semplicemente vera. Quando ero più giovane e men savio, la stimai verosimile. Quando ero più principiante nelle cose speculative, la tenni sì fattamente falsa, che mi meravigliavo d’Aristotele che non solo non si degnò di farne considerazione, ma anche spese più della mità del secondo libro del De cielo e del mondo forzandosi di dimostra che la Terra non si muova. Quando ero putto et a fatto senza intelletto speculativo, stimai che creder questo era una pazzia: e pensavo che fusse posto avanti da qualcuno, per una materia sofistica e capziosa, et esercizio di quelli ociosi ingegni, che voglion disputar per gioco, e che fanno professione di provar e difendere che il bianco è nero.
Da qui la meraviglia del Nolano per l’incapacità dei suoi interlocutori di difendere Aristotele contro copernico. Ma anche irritazione per il tentativo di Torquato di spiegargli insieme l’astronomia tolemaica e copernicana. Presa carta a calamaio, il dotto oxionense divide il foglio in due, raffigurando nella parte superiore il sistema tolemaico e nella parte inferiore quello copernicano. Non appena mette mano al sistema copernicano, collocando la Luna su un epiciclo avente come centro al Terra, il Nolano insorge, ribattendo che è questo quel che “il Copernico medesimo [..] intese, e più tosto s’arrebe fatto tagliar il collo che dirlo o scriverlo”.
Né basta a convincerlo l’esame della figura contenuta nel primo libro del De revolutionibus, in cui la Terra non è raffigurata sulla circonferenza dell’epiciclo, come accade invece per la Luna: diversamente da quanto crede Torquato, il punto al centro dell’epiciclo non starebbe per Bruno a indicare la Terra, bensì “la pedata del compasso” utilizzato per disegnare “l’epiciclo della terra e della luna, il quale è uno et il medesimo”. D’altro canto, per sapere davvero “dove è la terra secondo il senso del Copernica” sarebbe sufficiente leggere “le sue paroli”, in particolare là dove “dicea “la terra e la luna essere contenute come da medesmo epiciclo” “.
Si tratta appunto di un errore, poiché l’affermazione di Bruno secondo cui la Terra e la Luna si troverebbero su di “uno et il medesmo ” epiciclo ( e come tali sono raffigurate nella Cena) non solo è contraddetta dal diagramma riportato nel primo libro del De revolutionibus, ma si basa su un’errata traduzione del testo copernicano: Quartum in ordine annua revolutio locum obtinet, in quo terram cum orbe lunari tanquam epiciclo contineri diximus; vale adire: “Occupa il quarto luogo nell’ordine la rivoluzione annua, in cui abbiamo detto che è contenuta la Terra con l’orbe lunare come epiciclo”. La locuzione tanquam epiciclo va riferita alla sola Luna, e non a Luna e Terra insieme, come si evince da quanto Copernico afferma alcune righe prima. Occorre, però ricordare che un errore analogo è rintracciabile nella traduzione francese del De revolutionibus, pubblicata nel 1552 con il titolo di Discours des partiers de al nature du monde da Pontus de Tyard. D’altro canto, Copernico doveva essere consapevole che il diagramma del primo libro del De revolutionibus non permetteva di dar conto della variazione del diametro apparente del Sole, se è vero che nel terzo libro, dopo aver riqualificato il fenomeno nei termini di una inaequalitas del moto apparente del Sole, aveva prospettato un nuovo diagramma in cui venivano a confluire due soluzioni alternative: nella prima, la rivoluzione annua della Terra al Sole era descritta da un’orbita eccentrica; nella seconda, da un epiciclo posto su un’orbita concentrica. Come ha precisato Hilary Gatti, non è improbabile che nella discussione della Cena Torquato avesse in mente la prima di queste soluzioni, mentre il Nolano pensasse piuttosto alla seconda. In entrambi i casi, le interpretazioni restano erronee, dal momento che quella di Torquato non tiene conto dell’eccentricità presente nella prima soluzione, mentre quella di Bruno identifica l’epiciclo della Terra con quello della Luna, rifiutando così l’ipotesi di un secondo epiciclo (o epiepiciclo) – ipotesi problematica nello stesso edificio copernicano, dal momento che, come doveva rilevare tra gli altri anche il danese Tycho Brahe (1546 – 1601) , finiva per mandare letteralmente in pezzi l’idea degli “orbi” come sfere celesti solide e cristalline.

La verifica della natura
Lo scontro sulla figura del primo libro del De revolutionibus segna la conclusione del convito a casa Greville, e curva in direzioni nuove il ragionamento svolto nell’ultima parte della Cena. Senza più insistere sull’acceso dibattito tra il Nolano e i due dottori di Oxford, Teofilo prosegue richiamandosi alle battute finali del Dialogo terzo, quando l’inglese Smitho, per rilanciare la discussione, aveva chiesto di poter finalmente conoscere le “raggioni naturali” con cui il Nolano aveva giustificato il moto terrestre e di cui Copernico, all’opposto, faceva difetto. Nel dialogo quinto della Cena si comincia (per dirla con Teofilo) a “trapassare” i “margini del mondo”:

Perché non più né altamente fisse le altre stelle del cielo che è la Terra è fissa nel medesimo firmamento che è l’aria. E non è più degno d’esser chiamato ottava sfera dove è la coda de l’Orsa, che dove è la terra, nella quale siamo noi: per che in una medesma eterea reggione, come in un medesimo gran spacio e campo, son questi corpi distinti; e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni da gli altri. Considerate la caggione per la quale sono stati giudicati sette cieli de gli erranti, et uno solo di tutti gli altri. Il vario moto che si vedeva in sette, et uno regolato in tutte le altre stelle che serbono perpetuamente la medesma equidistanza e regola, fa parer a tutte quelle convenir un moto, una fissione et un orbe; e non esser più che otto sfere sensibili per gli luminari che sono come inchiodati in quelle. – Or se noi venemo a tanto lume e a tal regolato senso, che conosciamo questa apparenza del moto procedere dal giro de la terra; se dalla similitudine della consistenza di questo corpo in mezzo l’aria, giudichiamo la consistenza di tutti gli altri corpi; potremo prima credere, e poi demonstrativamente conchiudere il contrario di quel sogno e quella fantasia che è stato quel primo inconveniente che ne ha generati et è per generarne tanti altri innumererabili.
Nel fuoco della polemica Bruno sta, con ogni evidenza, smantellando la struttura dell’universo a sfere concentriche che il sistema copernicano aveva ereditato da quello aristotelico – tolemaico, non senza problemi. Come ha mostrato Thomas Kuhn (1922 – 1996), per “salvare i fenomeni”, ossia per evitare con i dati astronomici allora disponibili le discrepanze che sembravano derivare dall’aver privato la Terra della sua posizione centrale e dall’averla dotata di un moto di rivoluzione annua intorno al Sole, Copernico si era visto “costretto ad aumentare considerevolmente le dimensioni della sfera delle fisse e a fare così un primo passo verso la concezione di un universo infinito”; a trattenerlo da simile “scandalo” non erano state però ragioni di ordine fisico o cosmologico, tanto più che la sua concezione dell’Universo aveva finito per privare la sfera delle stelle delle funzioni essenziali che ne avevano determinato l’introduzione nella visione aristotelico – tolemaica, prime fra tutte la generazione dei moti celesti e la definizione di un centro assoluto dello spazio verso cui dovevano naturalmente tendere tutti i corpi pesanti.
A sua volta Bruno fa appello a quel “regolato senso” che aveva portato Copernico ad affermare il moto orbitale della Terra al fine di denunciare l’errore di prospettiva e di “optica” alla base dell’assunzione copernicana di un universo strutturato in sfere concentriche solide e avente come limite circonferenziale la sfera delle fisse:

Come a noi che dal centro dell’orizzonte voltando gli occhi da ogni parte, possiamo giudicar la maggior o minor distanza da, tra, et in quelle cose che sono più vicine; ma da un certo limite in oltre, tutte ne parranno ugualmente lontane: cossì alle stelle del firmamento guardando, apprendiamo la differenza de moti e distanze d’alcuni astri più vicini; ma gli più lontani e lontanissimi, ne appaiono immobili, et equalmente distanti et lontani quanto alla longitudine [..] Dunque che noi non veggiamo molti moti in quelle stelle, e non si mostrino allontanarsi et accostarsi l’une da l’altre e l’une a l’altre, non è perché non facciano cossì quelle come queste gli lor giri: atteso che non è raggione alcuna, per la quale in quelle non siano gli medesimi accidenti che in queste, per i quali medesmamente un corpo, per prendere virtù da l’altro, debba muoversi circa l’altro. E però non denno esser chiamate fisse perché veramente serbino la medesma equidistanza da noi e tra loro, ma per che il lor moto non è sensibile a noi.
Solo se è “regolato” il senso può riconoscere la possibilità di “molti altri e innumerevoli ” astri, grandi e lucenti quanto il Sole, se non di più, “i circoli e moti di quali molto più grandi non si veggono”, e tale possibilità rappresenta di per sé una conquista decisiva poiché, come osserva Bruno, mostrando con ciò piena coscienza ermeneutica, “il principio de l’inquisizione è il sapere e conoscere che cosa sii, o sii possibile e conveniente, e da quella si cave profitto”. Già l’antica filosofia aveva conosciuto “un spacio infinito, regione infinita, selva infinita, capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo”, i quali compiono “i lor circoli come la terra il suo”; e per questo li aveva chiamati etera, vale a dire “corridori, corrieri, ambasciatori, nuncii de la magnificenza de l’unico Altissimo [..] vivo specchio de l’infinita deità”. Solo per cieca ignoranza quel nome si era ridotto a indicare “certe quinte essenze, nelle quali come tanti chiodi siino inchiodate queste lucciole e lanterne”.
L’etimologia contribuisce a dissolvere le tradizionali gerarchie su cui si reggeva l’universo aristotelico (e di cui Copernico non aveva del tutto saputo fare a meno). Come traspare già dalla risposat alla terza obiezione di Nundinio, brumosa che tale dissoluzione impone di ripensare natura e principio del movimento: “questi corridori hanno il principio di moti intrinseco la propria natura, la propria anima, la propria intelligenza”. Ritroviamo qui la concezione dei corpi celesti come “grandi animali intellettuali”, liberi ciascuno di muoversi autonomamente nello spazio, senza soggiacere al vincolo di alcuna sfera cristallina. Tale idea costituisce, a sua volta, il presupposto, della nozione di una vita infinita, eterna e omogenea, capace di produrre un universo infinito, animato da mondi innumerabili, ciascuno dotato di pari entità ontologica.
In tale universo ogni cosa è mossa dal “sufficiente principio interiore, per il quale naturalmente viene ad esagitarsene, e non da principio esteriore, come veggiamo sempre accadere a quelle cose, che sono mosse o contro o estra la propria natura”. No ha alcun senso pretendere che la Terra sia al centro dell’universo perché greve e pesante: non solo la parola “centro” ha perso significato, ma nemmeno vi alcun corpo che sia “assolutamente grave o lieve”. Queste differenze e qualità non riguardano i “corpi principali” e i “particolari individui perfetti dell’universo”, bensì le “parti che sono divise dal tutto”, le quali “non meno naturalmente si forzano verso il loco della conservazione, che il ferro verso la calamita, il quale va a ritrovarla non determinatamente al basso, o sopra, o a destra, ma ad ogni differenza locale ovunque sia”.
Una sorta di empito determinerebbe, dunque, il movimento delle cose, spingendole a conservarsi e a “marciar per gli lor spacii” in cerca di vita e nutrimento, proprio come il ferro si avvicina alla calamita non in forza di un’attrazione inerte, ma perchè la virtù spirituale che da quella si diffonde ne ha risvegliato il senso e lo ha indotto a “voler esser nel medesimo loco”. Tale empito o tensione vitale non fa che rispondere all’universale legge della vicissitudine che, senza mai intaccare le radici della vita infinita ed eterna, scandisce il ritmo di ogni mutazione, sia che questa riguardi i fenomeni naturali, come l’alternarsi dell’umido e del secco, dei mari e dei continenti, sia che investa il destino di individui o di interi popoli. Il moto locale della Terra trova in quella legge la sua ragione naturale, ovverosia la sua causa e il suo fine. Bruno a tal proposito distingue tra i “piccoli individui”, quali siamo noi “particolari e minori animali”, soggetti a un destino di vita e di morte, e i “grandi animali intellettuali”, come il nostro globo e gli altri corpi celesti, ai quali non sembra convenire la morte e la dissoluzione, “essendo a tutta natura impossibile l’annihilazione”. Pur essendo Eterni e incorruttibili, tali mondi non possono essere perpetui “secondo la medesma disposizione”; in altri termini, devono continuamente rinnovarsi e rinascere, “alterando, cangiando, mutando le parti tutte”, secondo una certa “successione” e “vicissitudine”.
Se la materia è capace di prendere, al contempo, tutte le forme insieme, non altrettanto sono in grado di fare le singole parti della materia che possono assumere, momento per momento, una forma soltanto. Così, solo movendosi quel “grande individuo ch’è la nostra perpetua nutrice e madre” può rinascere e rinnovarsi. E poiché nel nostro sistema o mondo il Sole è “l’unico che diffonde e comunica la virtù vitale”, la Terra non può che ruotare intorno ad esso:

è dunque necessario che sia il moto: e questo di tal sorte che non sia parziale: ma con quella raggione con cui causa la rinnovazione di certe parti, venga ad apportarla a quell’altre; che come sono di medesma condizione e natura, hanno la medesma potenza passiva, alla quale (se la natura non è ingiuriosa) deve corrispondere la potenza attiva. – Ma con ciò troviamo molto minor raggione per la quale il sole e tutta l’università de le stelle s’abbino a muovere circa questo globo, che esso per il contrario debba voltarsi a l’aspetto dell’universo, facendo il circolo annuale circa il sole con certe regolate successioni per tutti i lati svolgersi et inchinarsi a quello, come a vivo elemento del fuoco.
Il riferimento all’intrinseco principio vitale consente non solo di chiarire la necessità del moto della Terra, bensì di spiegarne la molteplicità e la complessità:
è cosa conveniente e necessaria, che il moto della Terra sia tale. Per quale con certa vicissitudine dove è il mare sia il continente, e per il contrario; dove è il caldo sii il freddo, e per i contrario; [..]
in conclusione, ciascuna parte venghi ad aver ogni risguardo ch’hanno tutte le altre parti al sole: a fin che ogni parte venghi a participar ogni vita, ogni generazione, ogni felicità.

La Terra ruoterebbe intorno al proprio asse per “dar come una respirazione et inspirazione col diurno caldo e freddo, luce e tenebre”, conservando in tal modo “la sua vita e delle cose che in quella si contengono”. Di contro, la rivoluzione annua intorno al Sole avrebbe come funzione ” la regenerazione delle cose, che nel suo dorso vivono e si dissolvono”. Vi è poi un terzo movimento che Bruno definisce nei termini seguenti: “per la rinnovazione di secoli participa un altro moto, per il quale quella relazione ch’ha questo emisfero superiore della terra a l’universo, venga a ottener l’emisfero inferiore, e quello succeda a quello del superiore”.
Il richiamo alla teoria copernicana dei moti terrestri è qui esplicito: nel De revolutionibus il moto orbitale della Terra risultava composto di due moti distinti: se al rivoluzione della Terra intorno al Sole fosse stata determinata unicamente dalla rotazione della sfera celeste solida su cui essa era stabilmente fissata, l’orientamento dell’asse del nostro globo sarebbe cambiato in ogni punto dell’orbita; per compensare tale cambiamento Copernico aveva attribuito a tale asse un moto conico graduale che ne faceva ruotare l’estremità settentrionale in direzione ovest, in modo da conservare l’asse parallelo a se stesso lungo l’intera orbita; inoltre, assegnando a tale moto un periodo di pochissimo inferiore all’anno, egli era in grado di spiegare il fenomeno della processione degli equinozi in modo più semplice dell’astronomia tradizionale, la quale aveva dovuto ricorrere all’ipotesi di una nona e addirittura decima sfera, oltre quella delle fisse. Bruno, però, non è disposto a seguire la fantasia di Copernico e all’idea degli “orbi” celesti solidi contrappone quella per cui tutti i corpi celesti sarebbero liberamente sospesi in uno spazio omogeneo e infinito; perciò, nel considerare il “terzo moto” può tralasciare l’aspetto della descrizione copernicana relativo al riallineamento dell’asse terrestre, concentrandosi invece su quello pertinente alla precessione. Se stiamo a quanto egli racconterà nel De immenso, era stata proprio la necessità di spiegare questo fenomeno a spingerlo allo studio dell’opera di Copernico. Ed è servendosi del De revolutionibus, e in particolare delle pagine del terzo capitolo del terzo libro in cui venivano affrontate alcune anomalie della precessione, tra cui quella nota con il nome di precessione assiale, che Bruno conclude la sua analisi dei moti terrestri con l’aggiunta, necessaria “per la mutazione di volti e complessioni della Terra”, di un quarto tipo di movimento. A causa di esso “l’abitudine ch’ha questo vertice de la terra verso il punto circa l’Artico, si cangia con l’abitudine ch’ha quell’altro verso l’opposito punto de l’Antartico polo”. Bruno rivela una notevole padronanza del testo copernicano, e non poche delle conclusioni cui perviene saranno materia di dibattito astronomico nel secolo successivo. Da Copernico lo separa, tuttavia, al convinzione che “altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura” e che pertanto nell’indagare sull’Universo si debbano prediligere le cause naturali invece delle circostanze matematiche, come attesta la stessa complessità dei moti della Terra.

Considerate, che quantunque diciamo quattro essere questi moti, nulladimeno è da notar che tutti concorreno in un composto. Secondo, che benché le chiamiamo circolari, nulla però di quelli è veramente circolare. Terzo, benchè molti si siino affaticati di trovar la vera regola de tai moti, l’han fatto, e quei che s’affaticaranno lo faranno, in vano; per che nessuno di quei moti è fatto regolare e capace di lima geometrica.
La diffidenza nei confronti dei matematici non impedisce, però, a Bruno di contribuire in maniera decisiva alla definizione della nuova cosmologia. Alla radice della sua interpretazione dell’edificio copernicano e della sua polemica in favore delle “ragioni naturali” contro le comode “suppustazioni” matematiche vi è la visione del principio della vita come infinita produzione di innumerabili forme finite, in eterna vicissitudine di scomposizione e composizione, tutte omogenee per struttura materiale e spirituale, né gravi né lievi nei loro luoghi naturali. È da questo principio che scaturiscono gli aspetti più rivoluzionari della cosmologia bruniana, certo copernicana in alcuni assunti di fondo, ma contrassegnata dalla dissoluzione delle sfere concentriche solide e dall’eliminazione della sfera delle stelle fisse, e modulata sulla nozione di universo infinito, popolato da “innumerevoli mondi”. 

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