Al di là di Saturno

Smontate le “favole” di Aristotele, l’universo appare come l’infinito effetto di un’infinita causa, popolato da innumerevoli soli e innumerevoli terre.
Dalle pagine del De la causa, principio et uno è facile un’idea delle reazioni suscitate in Inghilterra dalla pubblicazione della Cena. Sin dalla Proemiale epistola Bruno denuncia gli ingiusti oltraggi patiti, confidando all’amico per “non dismetter le braccia, disperarsi, e darsi vinto a sì rapido torrente di criminali imposture, con quali a tutta possa m’have fatto empeto l’invidia degli ignoranti, la presunzione di sofisti, la detrazzion di malevoli, la murmurazion di servitori, gli sussurri di mercenari”. E nel Dialogo primo non manca di ricordare le offese e le ingiurie rivolte alla teoria copernicana e insieme alla nova filosofia. Le considerazioni di carattere autobiografico cedono ora il passo alla più generale analisi storica, e l’oltraggio subito appare agli occhi di Bruno come il segno più evidente della decadenza del tempo, della crisi di un secolo infelice, contrassegnato dal trionfo della vana eloquenza e del pedante “rigor grammaticale”, nonché dal vilipendio dell'”amata madre filosofia”, delle scienze e della stessa religione.
Ma nel De la causa Bruno non si limita a un’apologia della Cena contro le vane conclusioni di “ociosi e mal impiegati impegni”, estranei a “ogni atto de scienza e de filosofia”; i risultati raggiunti in quell’opera impongono di affrontare quei problemi d’ordine ontologico la cui mancata trattazione avrebbe potuto incidere sulla coerenza e credibilità della nuova cosmologia:

-Ecco, illustrissimo signore, onde bisogna uscire prima di voler entrare alla più speciale et appropriata cognizion de le cose. Quivi come nel proprio seme contiene et implica la moltitudine de le conclusioni de la scienza naturale. Quindi deriva la in tessitura, disposizione et ordine delle scienze speculative. Senza questa isagogia in vano si tenta, si entra, si comincia. Prendete dunque con grato animo questo principio, questo uno, questo fonte, questo capo: per che vengano animati a farsi fuora e mettersi avanti la sua prole e genitura.
La riflessione cosmologica avviata nella Cena ha reso ineludibile l’individuazione di un principio unitario in grado di fondare l’infinito ed eterno autoprodursi della vita, quale fonte inesauribile di mondi, di individui e di forme. Occorre anzitutto superare le opposizioni tradizionali che avevano contraddistinto la metafisica aristotelica, nonché le versioni medioevali, e congiungere nell’Uno-tutto vivente anima e intelletto, forma e materia, atto e potenza, corporeo e incorporeo. A ciò risponde nel De la causa la distinzione tra principio (“quello che intrinsecamente concorre alla costituzione della cosa, e rimane”nell’effetto”, come la “materia” e la “forma”) e causa in senso proprio (“quella che concorre alla produzione delle cose esteriormente, et ha l’esser fuor de la composizione”, come l'”efficiente” e il “fine”). Tale distinzione (con cui si apre il Dialogo secondo) potrebbe sembrare destinata a sfumare, dal momento che quella che viene definita come causa efficiente, ossia l’intelletto universale, si rivela immediatamente “artefice interno”, giacchè “opra continuamente tutto in tutto” formando “la materia, e la figura da dentro”, così come “da dentro del seme o radice manda et esplica il stipe, da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate si riconfigura come “causa”, per esser medesma in certo modo con la già detta causa efficiente: per chi l’intelletto che è una potenza de l’anima del mondo, è stato detto efficiente prossimo di tutte le cause naturali”.
Alla base di questa duplice contaminazione è la ricerca di quel “medesimo soggetto” che “può essere principio e causa” delle “cose naturali” e che Bruno identifica nell'”anima de l’Universo”, la quale è insieme “causa formale universale” e “principio formale, non abbia medesimamente anima”; in altri termini, sono animate anche le pietre, le gemme e le “smorte” radici: poiché lo “spirito si trova in tutte le cose”, non vi è “minimo corpuscolo che non contenga cotal porzione in sé che ha principio formale, non abbia medesimamente anima”; in altri termini, sono animate anche le pietre, le gemme e le “smorte” radici: poiché lo “spirito si trova in tutte le cose, e secondo certi grandi empie tutta la materia, viene ad essere certamente il vero atto e la vera forma di tutte le cose”, sicchè l’anima del mondo si rivela “principio formale costitutivo de l’universo, e di ciò che in quello si contiene”.
Riemergono i temi del Sigillus e del De umbris. Ma nel De la causa l’identificazione di anima, forma e vita non è che un passo preliminare alla determinazione dell’una e “sempre medesima sustanza”.
L’individuazione di una forma universale (l’anima), che in quanto sostanziale. Ossia eterna e immutabile, non può essere ridotta (come invece volevano Aristotele e i suoi seguaci) alle forme accidentali che “sen vanno e vengono”, “cessano e si rinnovano” a seconda delle disposizioni della materia, necessita la posizione di un principio materiale “similmente costante et eterno”.
In questo contesto Bruno affronta la tradizionale distinzione tra una materia intesa come potenza e una materia intesa come soggetto. Quanto alla prima, occorre di nuovo distinguere tra potenza “attiva” (per la quale il soggetto di quella può operare) e potenza “passiva” (per la quale o può essere, o può ricevere, o può avere). Come sempre, la chiarificazione della distinzione prelude alla comprensione dell’unità più profonda:

-la potenza che significa in modo passiva (benché non sempre sia passiva) si può considerare o (o relativamente) o vero assolutamente: e cossì non è cosa di cui si può dir l’essere, della quale non di dica il poster essere. E questa si fattamente risponde alla potenza attiva, che l’una non è senza l’altra in modo alcuno; onde se è sempre stata la potenza di fare, di produrre, di creare, sempre è stata la potenza di esser fatto, produco e creato; perché l’una potenza implica l’altra: voglio dir, con esser posta, lei pone necessariamente l’altra. La qual potenza, perché non dice imbecillità in quello di cui si dice, ma più tosto confirma la virtù et efficacia, anzi al fine si trova che è tutto uno et a fatto la medesima cosa con la potenza attiva, non è filosofo né teologo che dubiti di attribuirla al primo principio sopra naturale.
Proprio perché non “dice imbecillità”, ossia non è quel prope nihil, quella potenza nuda e cruda di cui parlavano Aristotele e i peripatetici, la materia perviene anche la “primo et ottimo principio”, cioè a Dio stesso, nel quale potenza e atto sono la medesima cosa. Ma se Dio “è tutto quel che può essere”, lo stesso non vale per le cose particolari le quali, benché siano “quello che possono essere”, non sono tutto quello che possono essere. Nel loro caso infatti:
-la potenza non è uguale all’atto, perché non è atto assoluto, ma limitato, oltre che la potenza è sempre limitata ad uno atto, perché mai ha più che uno essere specificato e particolare : e se pur guarda ad ogni forma et atto, questo è per mezzo di certe disposizioni, e con certa successione di uno essere dopo l’altro. Ogni potenza dunque et atto che nel principio è come complicato, unito et uno, nelle altre cose è esplicito, disperso e moltiplicato.
Ciò significa che la vicissitudine delle forme riguarda le cose dell’Universo, non Dio, che è in sé “stabilissimo et immobilissimo”. Del resto, Dio in quanto tale è estraneo alla prospettiva rigorosamente cosmologica, rappresentandone semmai la condizione negativa, dal momento che “non può essere compreso dall’intelletto, se non per modo di negazione” o, come altrove scrive Bruno, “per modo di vestigio”. Da tale precisazione emerge la differenza tra Dio e l’Universo, che ne è piuttosto “il grande simulacro, la grande immagine e l’unigenita natura”: non essendo che “un’ombra del primo atto e prima potenza”, in esso “la potenza e l’atto non è assolutamente la medesima cosa, per che nessuna parte sua è tutto quello che può essere”.
Mentre Dio è “unitariamente et indifferentemente”, l’Universo è “secondo un modo esplicito, disperso e distinto”. Ma nel modo dell’explicatio l’Universo “è tutto quello che può essere”, sicchè è lecito dire anche che l’Universo atto e potenza coincidono, sia pure in maniera diversa che in Dio, dove tale coincidenza avviene nel modo della complicatio. L’Universo viene perciò ad aver “una potenza la quale non è absoluta dall’atto” è un’anima che non è “absoluta dall’animato” e che l’universo sia un primo principio che medesimo se intenda, non più distintamente materiale e formale, che possa inferirse dalla similitudine del predetto, potenza absoluta et atto”.
La ricerca di un principio unitario non si arresta però alla coincidenza di atto e potenza, di forma e materia; ma deve scavare entro quest’ultima, indagandola in quanto soggetto, ossia sostrato dell’essere. Come tale, la materia costituisce il presupposto comune tanto della sostanza corporea (estesa) quanto di quella incorporea (in estesa); ed è alla luce di tale presupposto che risulta possibile cogliere il senso di quella differenza nei termini di una “contrazzione” o meno all’essere corporeo. Ma se la materia – sostrato può specificarsi in sostanza corporea, e dunque estendersi e dimensionarsi, pur essendo in sé priva di estensione e di dimensioni, e perché in essa potenza e atto coincidono:

quella materia per esser attualmente tutto quello che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perché le have tutte, non ne ha nessuna, perché quello che ha tante cose diverse, bisogna che non sia alcuna di quelle particolari. Conviene a quello che è tutto, che escluda ogni essere particolare.
La materia universale comprende ogni forma e ogni dimensione senza essere alcuna di esse. Si tratta, come lo stesso Bruno riconosce, di una definizione profonda e alta, che non potrà essere capita da tutti. Per intendere come la stessa materia, in quanto absoluta, sia sopra tutte le dimensioni e le comprenda tutte, mentre, in quanto contratta, venga “compresa da alcune” e sia “sotto alcune”, occorre capire che essa non riceve le dimensioni “come da fuora”, bensì le manda “come da sé”, ossia dal proprio “seno”. Perché, allora, non sbarazzarsi di Aristotele e guardare semmai ad Averroè (1126 – 1198) o a Plotino ( 204 – 270) e alla sua distinzione tra materia delle cose superiori e materia delle cose inferiori?
Quella [delle cose superiori] è insieme tutto; et essendo che possiede tutto non ha in che mutarsi; ma questa [delle cose inferiori] con certa vicissitudine per le parti, si fa tutto; et a tempi e tempi, si fa cosa e cosa, però sempre sotto diversità, alterazione e moto. Cossì dunque mai è informe quella materia, come né anco questa, bensì differentemente quella e questa: quella ne l’istante dell’eternità, questa ne gli istanti del tempo; quella insieme, questa successivamente; quella esplicatatamente, questa complicatamente, quella come molti, questa come uno, quella per ciascuno e cosa per cosa, questa come tutto et ogni cosa.
Di nuovo: complicatio ed explicatio, identità e differenza. Risiede qui la possibilità di “montare al concetto”, non tanto del “sommo e ottimo principio” che (come sappiamo) resta escluso dalla considerazione bruniana, quanto dell'” anima del mondo, come è atto di tutto e potenza di tutto, ed è tutta in tutto: onde al fine (dato che siano innumerabili individui) ogni cosa è uno”. L’anima e la materia dell’Universo sono un tutt’uno. Del resto, “una è la possibilità assoluta, uno l’atto, una la forma, una l’anima, una la materia e il corpo, una la cosa, uno l’ente”. Come uno è l’Universo stesso, fonte infinita, immobile, “impartibile” di vita., “seno” inesauribile di mondi, individui e cose:
Ogni cosa che prendemo ne l’universo, perché ha in sé quello che è tutto per tutto, comprende in suo modo tutta l’anima del mondo[..] la quale è tutta in qualsivoglia parte di quello. Però come lo atto è uno, e fa essere uno ovunque lo sia, cossì nel mondo non è da credere che sia pluralità di sostanza e di quello che veramente è ente.[..] Ciascuno di questi mondi innumerabili che noi veggiamo ne l’universo, non sono in quello tanto come in un luogo continente,e come in un intervalle e spacio: quanto in uno comprensore, motore, efficiente; il quale cossì tutto viene compreso da ciascuno di questi mondi, come l’anima tutta da ciascuna parte del medesimo.
Tutte le cose sono nell’Universo e l’Universo è in tutte le cose. Con ciò non viene meno la differenza tra Universo e cose, per cui “quello comprende tutto l’essere e tutti i modi di essere”, mentre ciascuna di queste “ha tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere”, e inoltre “quello comprende tutto lo essere totalmente, perché estra et oltre lo infinito essere, non è cosa che sia”, mentre ciascuna delle cose “comprende tutto l’essere, ma non totalmente, perché oltre ciascuna, sono infinite altre”. Ma ” tutto concorre in una perfetta unità”, e questa unità è “sola e stabile, e sempre rimane; questo uno è eterno; ogni volto, ogni faccia, ogni latra cosa è vanità, è come nulla, anzi è nulla tutto lo che è fuor di questo uno”.
Quasi a chiudere un circolo, torniamo alla proemiale epistola del De la causa da cui abbiamo preso le mosse. Qui Bruno proclama che solo chi ha ritrovato quest’uno, ossia “la raggione di questa unità”, ha ritrovato “quella chiave, senza la quale è impossibile aver ingresso alla vera contemplazione della natura”.
Avviata nella Cena, la contemplazione che costituisce il nucleo della filosofia nolana trova nel De la causa la sua necessaria isagogia: perché ogni tentativo non resti vano, bisogna rimettere in moto le categorie portanti della metafisica tradizionale, così da riscoprire in Dio e nell’Universo la coincidenza di atto e potenza, forma e materia; e dentro il sostrato comune dell’essere mettere a fuoco una materia che ha in sé tutte le forme, le quali dalla medesima sono prodotte e “parturite”; infine, risalire all’ “originale et universale sostanza medesima del tutto”, all’ “uno ente sommo”, il quale è “complicatamente uno, immenso e infinito [..]et esplicatamente in questi corpi sensibili, et in al distinta potenza et atto che veggiamo in essi”. In altri termini, occorre servirsi di quell'”una e medesima scala, per la quale la natura discende alla produzzione de le cose, e l’intelletto ascende alla cognizion di quelle”, giacchè tanto la natura quanto l’intelletto procedono dall'”unità [..] all’unità, passando per la moltitudine di mezzi”.
E tuttavia, come di l’ì a poco il Nolano dichiarerà, quelli del De la causa non sono ancora “degni et onorati frutti”, bensì solo semi sparsi che richiedono d’esser coltivati perché la contemplazione della natura possa divenir finalmente vera, ossi “contemplazione circa l’infinito universo e mondi innumerabili”.

Finito e infinito
“Com’ è possibile che l’Universo sia infinito? [..] Come è possibile che l’Universo sia finito?”. Così si apre il De l’infinito, universo, et mondi, e il guanto di sfida che Elpino e Filoteo si scambiano ne rivela l’intento: ridiscendere la scala della natura individuata nel De la causa per far esplodere quei motivi che la Cena aveva solo in parte affrontato.
È in questa prospettiva che va letta l’iniziale critica di Bruno alla nozione di luogo e alla concezione finita dello spazio.Quanto alla prima, il portavoce del Nolano ha buon gioco nel mostrare che essa è vana e confusa, dal momento che, intendendo per luogo “una superficie di continente corpo”, si rivela inadatta al primo cielo, “che verrebbe a essere luogo per la superficie concava, ma non per la convessa”. Quanto alla seconda, osserva che la stessa contraddizione, per cui risulta “senza locato” proprio quello che nella dottrina aristotelica è “il primo e principal e massimo luogo”, dipende dalla supposizione che “vuol che estra il cielo sia posto nulla” e che appare ridicola non appena ci si rende conto che “questo spacio che contiene il mondo” non ha “maggiore aptitudine a contenere un mondo, che altro spacio che sia oltre”. Non si può che concludere che ” come in questo spacio uguale alla grandezza del mondo [..] è questo mondo, cossì un altro può essere in quel spacio, et in innumerabili spaci oltre a questo, eguali a questo”.
La questione dell’infinito travalica però il problema dello spazio, coinvolgendo simultaneamente Dio e l’Universo, il primo principio e il suo simulacro. “Noi non ponemo l’infinito per la dignità dello spazio, ma delle nature”, dichiara Bruno nella Proemiale epistola, aggiungendo che “se la potenza infinita attiva attua l’esser corporale e dimensionale, questo deve necessariamente esser infinito: altrimenti si deroga alla natura e dignitade di chi può fare e di chi può essere fatto”.
E nel Dialogo primo afferma che “repugna” sia le “dignità delle nature e specie corporee” sia l’eccellenza di Dio chi ritiene che “l’infinito implicato nel semplicissimo et individuo primo principio” venga “esplicato in sì anguste marigini”, piuttosto che nel “suo simulacro infinito e interinato, capacissimo de innumerabili mondi”.
D’altro canto, “incomparabilmente meglio in innumerabili individui si presenta l’eccellenza infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti”: questa è la ragione per cui si richiede “uno spacio infinito”. Bruno riprende così la lezione del De la causa : effetto ed efficiente, simulacro e principio sono strutturalmente connessi, e l’eccellenza di uno si rispecchia nella “degnità” dell’altro. Dal punto di vista cosmologico ciò significa che la decisione circa l’infinità ( o meno) dell’Universo ne comporta una analoga circa l’infinità ( o meno) di Dio. Non basta, dunque, “aver detto l’universo dover essere infinito per la capacità e attitudine del spacio infinito, e per la possibilità e convenienza dell’essere di innumerabili mondi come questo”; piuttosto, è necessario “provarlo [..] dalle circostanze dell’efficiente che deve averlo prodotto tale, o (per parlar meglio) produrlo sempre tale”.
La prova addotta da Bruno è, anzitutto, di carattere etico – assiologico. Egli comincia a interrogarsi sul senso della “convenienza” dell’opera di Dio: “Per che vogliamo dire che al divina bontà la quale si può comunicare alle cose infinite [..] voglia essere scarsa et astringersi in niente (atteso che ogni cosa finita al riguardo dell’infinito è niente?)”. Poco dopo, il registro cambia, e dal piano assiologico Bruno passa a quello ontologico:

Qual raggione vuole che vogliamo credere che l’agente che può fare un buono infinito lo fa finito? E se lo fa finito, perché doviamo noi credere che possa farlo infinito, essendo in lui il possere et il fare tutt’uno? Perché è immutabile, non ha contingenza nell’operazione, né nell’efficacia, ma da determinata a certa efficacia dipende determinato e certo effetto immutabilmente: onde non può esser altro che quello che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa: atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili.
Poiché in Dio libertà, volontà e necessità coincidono, chi nega l’effetto infinito nega la potenza infinita. Ma per comprendere come l’infinitezza dell’Universo sia segno dell’infinitezza di Dio, occorre distinguere l’una dall’altra:
io dico l’universo “tutto infinito” perché non ha margine, termino, né superficie; dico l’universo non essere “totalmente infinito” perché ciascuna parte di quello possiamo prendere finita, e de mondi innumerabili che contiene, ciascuno è finito. Io dico Dio “tutto infinito” perché da sé esclude ogni termine, et ogni suo attributo è uno et infinito; e dico Dio “totalmente infinito” perché tutto lui è in tutto il mondo, et in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente; al contrario dell’infinità dell’universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur referendosi all’infinito possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello.
Dio è dunque e infinitamente in ogni parte , ed è parte, ed è dalla sua totale infinità che scaturisce la piena coincidenza di libertà, volontà e necessità. Di contro, nel “tutto infinito” dell’Universo si annuncia la finitezza di ciascun mondo, di ciascuna parte. Questo non può non incidere sulla modalità del nesso tra libertà e necessità: se nell’Universo esse coincidono ancora, sia pure in modo esteso e disperso, ciò non vale là dove il finito domina. In tal modo appare evidente come l’affermazione della coincidenza in Dio di libertà e necessità non solo non escluda, ma anzi esiga per l’essere finito la possibilità della libertà:
Non si è trovato giamai filosofo, dotto et uomo da bene che sotto specie o pretesto alcuno, da tal proporzione avesse voluto tirar la necessità degli effetti umani, e distruggere l’elezzione. Come tra gli altri Platone et Aristotele, con ponere la necessità et immutabilità in Dio di libertà morale e facoltà della nostra elezione. Perché sanno bene e possono capire come siano compossibili quella necessità e quella libertà.
Analoga “compossibilità” sussiste tra il moto (la vicissitudine) che caratterizza il finito e l’immobilità che è propria dell’infinito, sia esso “tutto infinito totalmente infinito” (Dio) o “tutto infinito non totalmente infinito” (Universo). “L’infinito in tutto non si muove”, scrive Bruno, “non è mobile né in potenza né in atto”, sicchè non ha senso cercare il motore dell’Universo. Piuttosto, è la possibilità del movimento degli “infiniti mondi contenuti in quello” che deve essere indagata: a tal fine giova ricordare che tutti quei mondi “se muoveno dal principio interno che è la propria anima”. Per questo il Nolano non può che ribadire il suo rifiuto all’identificazione del proprio principio (Dio) con l’aristotelico motore immobile:
il primo principio non è quello che muove; ma quieto et immobile dà il poster muoversi a infiniti et innumerevoli mondi, grandi e piccoli animali posti nell’amplissima reggione de l’universo, de quali ciascuno secondo la condizione della propria virtù ha la raggione di mobilità, motività et altri accidenti.
Vi è differenza tra il “poster muoversi”, che è proprio Dio, e il muoversi, che è proprio dei mondi finiti. Né vale obiettare che, essendo Dio “in ciascuna parte infinitamente et totalmente”, non vi sarebbe alcuna distinzione tra il sostenere che egli muove tutto e sostenere che egli dà il poter muoversi a tutto. Due sono i principii attivi di moto nelle cose: “L’uno finito, secondo la raggione del finito soggetto, e questo muove in tempo; l’altro finito secondo la ragione del finito soggetto, e questo muove in tempo; l’altro infinito, secondo la ragione dell’anima del mondo, overo della divinità, che è come anima de l’anima, la quale è tutta in tutto e fa essere l’anima tutta in tutto; e questo muove in istante”
Moto e quiete, tempo e istante, ma anche libertà e necessità: nel finito si distingue ciò che nell’infinito coincide. Ma con ciò non viene meno l’unità sostanziale teorizzata nel De la causa. Semmai, di quell’unico principio è ora in primo piano l’infinita esplicazione nell’infinito Universo e nell’infinita vicissitudine dei mondi e delle cose che lo compongono.”Dall’infinito sempre nova copia di materia sottonasce”, dichiara Bruno nella Proemiale epistola del De l’infinito, facendo propria la lezione di Epicureo e di Democrito, “che vogliono tutto per l’infinito rinnovarsi e restituirsi, perché medesimo numero a medesimo numero sempre succeda e medesime parti di materia con le medesime sempre si convertano”. Non si tratta, però, dell’eterno ritorno dell’eguale, che già gli epicurei non ammettevano; bensì dell’infinito restituirsi e rinnovarsi di ogni cosa:”essendo l’universo infinito, e gli corpi suoi trasmutabili tutti di conseguenza diffondendo sempre da sé e sempre in sé raccoglieno, mandano dal proprio fuora e accogliono del peregrino”.
Poiché sono finiti, tali corpi non possono esprimere le infinite possibilità dell’essere se non nelle “infinite vicissitudini e trasmutazioni, tanto di forma quanto di luogo”, determinante dal moto incessante delle loro”parti et atomi”, che si aggregano e disgregano secondo una pluralità senza fine di combinazione. La nostra setessa Terra,

-non è tale la consistenza di sue medesime parti e di suoi medesimi individui, ma per la vicissitudine de altri che diffonde et altri che gli succedono in luogo di quelli; in modo che, di medesim anima et intelligenza, il corpo sempre si va a parte a parte cangiando e rinnovando. Come appare anco ne gli animali, li quali non si continuano altrimenti se non con gli nutrimenti che ricevono et escrementi che sempre mandano; onde che ben considera saprà che giovano non abbiano la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani: perché siamo in continua trasmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano nuovi atomi, e da noi se dipartano li già altre volte accolti.
Ciò vale anche per gli altri “infiniti e innumerabili corpi” che popolano l’Universo, e che Bruno non esita a chiamare “mondi”, intendendo, però, tale termine in un’accezione diversa da quella che aveva per Aristotele: “Lui prende il nome del mondo per un aggregato di questi disposti elementi e fantastici orbi sino al convesso del primo mobile che di perfetta figura formato, con rapidissimo tratto tutto rivolge circa il centro, verso il qual noi siamo”. Come sappiamo dalla Cena, la distinzione aristotelica tra la Terra e gli altri corpi celesti non è per il Nolano che una fantasia imperniata su un’infondata gerarchia che ne misconosce l’universale vicissitudine. E parto di fantasia è pure quel complicato gioco di eccentrici ed epicicli che per la tradizione avrebbe dovuto dar ragione dei moti celesti e che per Bruno trova la sua unica ragion d’esser nel primato concesso all’apparenza sensibile, per cui la Terra risulterebbe “esser nel mezzo” lei sola immobile e fissa”, e il tutto verrebbe “a svoltagliesi circa”. Ma una medesima apparenza verrebbe colta da “quei che sono ne la luna e ne gli altri astri che sono in questo medesimo spacio, che sono terre o soli”. Pertanto, se si assume (con Copernico) che è la Terra che “con il suo moto cagiona questa apparenza del moto diurno e mondano”, non si può fare a meno di concludere non solo che la Luna, Venere, Mercurio e “gli altri che sono pur altre terre, fanno i loro discorsi circa il medesimo padre di vita” (il Sole). Ma anche (oltre Copernico) che vi sono “soli innumerabili” e “terre infinite che similmente circuiscono què soli; come veggiamo questi sette circuire questo sole vicino a noi”
Bruno sa bene che nell’andar “oltre Saturno” (all’epoca considerato il limite del nostro Sistema solare) la nuova cosmologia si imbatte nell’ostacolo costituito dall’impossibilità di vedere (a occhio nudo o, come capiterà a cominciare dal secolo successivo, con l’uso di strumenti ottici ben più potenti) le terre orbitanti intorno ai soli disseminati nell’Universo. Ma, come ripete spesso nel De l’infinito, se “la sensibilità è causa da far inferire che gli corpi sono” la “negazion di quella, la quale può esser difetto della potenza sensitiva e non dell’oggetto sensibile, non è sufficiente né per lieve che gli corpi non sieno”. Occorre dunque regolare il “senso” con il “discorso”, e non è forse un caso che tale termine (discorso) indichi sia il libero movimento dei corpi celesti nello spazio sia la libera capacità di giudicare oltre l’orizzonte della vista. E’ questa capacità che permette a Bruno di riconoscere mobili anche quei corpi il cui moto “non può essere sensibile, perché ne siamo oltre certa distanza rimossi”, e di attribuire loro, contro la tradizione aristotelica che li voleva” impassibili, inalterabili, incorruttibili ed eterni”, la dignità di altrettante terre. Del resto, della terra quello che noi veggiamo montare e discendere non è tutto il globo: ma certe particelle di quello, le quali non si allontanano oltre quella regione che è computata tra le parti e membri di questo globo, nel quale come in uno animale è lo efflusso et influsso de parti, e certa vicissitudine e certa commutazione e certa rinnovazione. Il che tutto se medesimamente è negli astri, non si richiede che sia medesimamente sensibile a noi; perché queste elevazioni di vapori et esalazioni, successi di venti, piogge, nevi [..],se sono negli astri, non possono similmente a noi essere sensibili: ma solamente quelli sono a noi sensibili per il splendor continuo che dalla superficie di fuoco, o di acqua, o nuovolosa mandano per il spacio grande.[..] Il lume che di questa terra si diffonde a tutti gli astri è né più né meno perpetuo e inalterabile, che quello di astri simili; e cossì il moto retto et alterazione di quelle particelle è insensibile a ogn’altro moto et alterazione che ritrovar si possa in questo corpo. E come, se la luna fosse più lontana, il diametro de le parti opache mancando, andarebono le parti lucide ad unirse e stringersi in una sensibilità di corpo più picciolo e tutto quanto lucido; similmente apparirebbe se la terra fusse più lontana dalla luna. Onde possiamo stimare che de stelle innumerabili sono altrettante lune, altrettanti globi terrestri, altrettanti mondi simili a questo; circa gli quali par che questa terra si volte, come quelli appaiono rivolgersi et aggirarsi circa questa terra.

L’eguale dignità degli astri spazza via il “bell’ordine” di cui favoleggiava Aristotele e in base al quale dal “corpo più denso e crasso, quale è la terra”, si ascendeva, passando per l’acqua, il vapore e l’aria, al “sottilissimo, quale è il fuoco, al divino quale è il corpo celeste”. Ogni corpo disseminato nell’Universo è composto di acqua, aria, terra e fuoco, e se di distinzione si può parlare, essa non riguarda quell’ordine o quella disposizione, bensì il predominio dell’uno o dell’altro elemento nella “sustanza della composizione”: se vi “predomina il fuoco, vien denominato il corpo che si chiama sole e lucido per sé; se vi predomina l’acqua, vien denominato il corpo che si chiama telluri, luna, o di simil condizione, che risplende per altro”. La sostanziale omogeneità degli astri si riflette nell’esser ” gli mondi ignei [..] cossì abitati come gli acquei”: essi, infatti non sono “corpi di parti similari”, poiché in tal caso non sarebbero “mondi, ma masse vacue, vane e sterili”. Del resto, quali “animali [potrebbero] vivere nel fuoco?” Perciò “è conveniente e naturale ch’abbiano la diversità de le parti, come questa et altre terre hanno la diversità di proprii membri, benché queste sieno sensibili come acqui illustrate, e quelli come luminose fiamme”.
È abbastanza plausibile che considerazioni come queste abbiano contribuito allo stereotipo di un Bruno visionario, perso dietro il chimerico sogno dei più strani esseri che vivrebbero in soli brucianti o in pianeti ricoperti di ghiaccio – un cliché che ricorre, specie nell’Ottocento, sia tra gli entusiasti sostenitori della vita extraterrestre come Camille Flammarion (1842 – 1925) sia tra i più duri avversari di qualsiasi ipotesi circa la pluralità dei mondi abitati come William Whewell (1794 – 1866). Tuttavia, una simile lettura, oltre a fraintendere il senso della parola bruniana, non coglie il nucleo centrale della riflessione sugli innumerevoli soli e le innumerevoli terre. Queste ultime, dice Bruno nel De infinito, “circuiscono” i soli per “participar tanto calor che baste”, ed è tale principio biologico che spiega il loro moto. Così come rende conto dell’innumerabilità dei soli: “essendo l’universo infinito, bisogna alfine che sieno più soli: perché è impossibile che il calore e lume di uno particolare possa diffondersi per l’immenso”. D’altro canto, è questo nesso vitale a tenere armonicamente insieme le innumerevoli terre e gli innumerevoli soli, costituendo la “raggione naturale” dell’unità e l’infinità dell’Universo:

Uno dunque è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale, l’eterea ragione per la quale il tutto discorre e si muove. Ivi innumerabili stelle, astri, globi, soli e terre sensibilmente si veggono, et infiniti ragionevolmente si argomentano. L’universo immenso et infinito è il composto che resulta da tal spacio e tanti compresi corpi.
Sotto un cielo più grande
Con il De infinito si chiude la prima fase dell’indagine cosmologica di Bruno. Abbozzata nella Cena, difesa e approfondita nel De la causa, verrà ripresa e sviluppata nei poemi latini che formano al cosiddetta “trilogia di Francoforte”, in aprticolare nel De innumerabilis, immenso et infigurabilii, seu de Universo et mundis libri octo (1591) che comincia a prendere corpo già a Londra, nel periodo in cui vengono scritti e pubblicati i dialoghi italiani. Si è ricordato come nella Cena l’elogio del genio di Copernico fosse accompagnato dalla denuncia del carattere prevalentemente matematico del modo di procedere dell’autore del De revolutionibus, in cui la stessa questione circa l’infinità o meno dell’Universo era volutamente lasciata alla disputa dei filosofi naturali. Nel De l’infinito Bruno dichiara, invece, il suo debito nei confronti del “divino Cusano”, che nel docta ignorantia (1440) aveva sostenuto che la !Terra è una stella mobile” e che il mondo “è una sfera infinita avente il suo centro dappertutto e la sua circonferenza in nessun luogo”. Ma anche nel caso di Nicola Cusano (1401 – 1464) non mancano le riserve: nel distinguere all’interno dell’infinita sostanza tra una materia eterea, emanazione della luce divina, e una materia solida, opaca, quel “particolarissimo ingegno” sarebbe rimasto vittima degli stessi falsi principi all’origine della distinzione aristotelica tra regioni superiori e inferiori dell’Universo, e come un “nuotatore da tempestosi flutti” non era riuscito a scorgere “il lume continuo, aperto e chiaro”, nuotando così non “come in piano e tranquillo, ma interrottamente e con certi intervalli”!
È solo riformulando le intuizioni di Copernico e di Cusano nella sintesi originale della propria filosofia che Bruno ritiene di poter aprire” la porta dell’intelligenza degli principii veri di cose naturali” e “discorrere per il cammino” di una verità rimasta a lungo “occolta, per l’ingiuria del tempo e vicissitudine delle cose, dopo che al giorno degli antichi sapienti successe la caliginosa notte di temerari sofisti”. Non molti, all’epoca, condividono il suo entusiasmo. Brahe, per esempio, ne liquida la tesi circa l’infinità dell’Universo e l’esistenza di mondi innumerabili in modo alquanto sprezzante : Nullanus nullum et nihil; Keplero le criticherà nel suo De stella serpentari (1606), e nella Dissertatio cum Nuncio sidereo 81610) dichiara di considerarle dubbie, almeno finchè ” qualcuno, dotato nell’osservare di straordinaria sottigliezza”, non individuerà una luna girare intorno a qualche stella fissa: la stessa scoperta galileiana dei satelliti di Giove (1610) non solo rafforza a suo dire l’ipotesi di un cosmo finito, ma mostra l’infondatezza del ragionamento bruniano, essendo Giove una “terra” e non un “sole”. Quanto a Galileo, è nota la sua prudenza sulla questione. Ma, nella prospettiva infinitistica di Bruno, le cose stavano diversamente. Come ha scritto (1957) Thomas Khun, “non era necessario che il Sole stesse al centro; in realtà non era necessario nessun centro. Un sistema solare copernicano può essere fissato in qualsiasi punto di un universo infinito. Purchè il Sole sia soltanto abbastanza distante dalle stelle più vicine da giustificare l’assenza di parallasse, le apparenze saranno sempre salvaguardate.”
E a Bruno spetta anche il merito di aver messo in evidenza “il rapporto fisico esistente tra il Sistema Solare copernicano e gli altri corpi celesti nel suo spazio infinito. Egli pensò che il Sole fosse semplicemente uno fra un infinito numero di stelle sparse attraverso l’infinita estensione dello spazio; alcuni fra gli altri corpi esistenti nei cieli devono essere dei pianeti popolati come la Terra. Non solo la Terra ma anche il Sole e l’intero Sistema solare erano trasformati in granelli insignificanti, sperduti nell’immensità della creazione divina; il cosmo compatto e ordinato degli scolastici era diventato un immenso caos; il distacco del copernicanesimo dalla tradizione aveva raggiunto la sua massima espressione”.
Ancor più significativo è l’omaggio che circa quarant’anni prima (1917) aveva tributato a Bruno il fisico e filosofo Moritz Shlick (1882 – 1936): ” gli antichi, in generale, ritenevano che il nostro cosmo fosse limitato da un’immensa sfera, su cui immaginavano che fossero attaccate [..]le stelle fisse. Lo stesso Copernico non distrusse questa credenza. Egli aveva compreso che la Terra è uno dei tanti pianeti; ma non aveva ancora riconosciuto che il Sole è uno delle tante stelle fisse. Di fronte a questa concezione ingenua, si dovette avvertire come un grande arricchimento dell’immagine del mondo al teoria dell’infinità dell’Universo enunciata da Giordano Bruno. Era inebriante pensare che le innumerevoli stelle fisse fossero anch’esse simili al nostro e stessero sospese nello spazio, che lo spazio si estendesse nell’infinito, non limitato da alcuna sfera rigida, non racchiuso in alcun ?globo di cristallo’ “.
Legittimamente, dunque, il Nolano aveva potuto vantarsi nella Cena di aver spianato le muraglie. Come leggiamo nella proemiale epistola del De l’infinito:

Si manifesta onde sia accaduta la imaginazione di tali e tanti mobili deferenti e talmente figurati che abbiano due superfici esterne, et una cava interna; et altre ricette e medicine che danno nausea et orrore e gli medesimi che le ordinano e le eseguiscono, et a què miseri che se le inghiottiscono.
E senza “rabbrividire” di fronte allo spazio infinito ( come faranno il luterano Keplero e il cattolico giansenista Pascal), Bruno non esita a delineare i tratti di un’etica per chi vive sperduto nell’immenso:
E chi mi impenna, echi mi scald’il core?
Chi non mi fa temer fortuna o morte?
Chi le catene ruppe e quelle porte,
onde rari son sciolti et escon fore?
L’etadi, gli anni, i mesi, i giorni e l’ore
Figlie et armi del tempo, e quella corte
A cui né ferro né diamante è forte,
assicurato m’han dal suo furore.

Figlia di quel tempo che, per riprendere il Candelaio, “tutto toglie e tutto dà”, la nova filosofia si impone per la sua radicale forza d’emancipazione:
Questa è quella filosofia che apre gli sensi, contenta il spirito, magnifica l’intelletto, e riduce l’uomo alla vera beatitudine, che può aver come uomo, e consistente in questa e tale composizione: perché lo libera dalla sollecita cura di piaceri e cieco sentimento di dolori; lo fa godere dell’essere presente, e non più temere che sperare dal futuro; perché la providenza, o il fato, o sorte, che dispone della vicissitudine del nostro essere particolare, non vuole né più permette che sappiamo dell’uno, che ignoriamo dell’altro: alla prima vista e primo rincontro rendendoci dubii e perplessi. Ma mentre consideriamo più profondamente l’essere e sustanza di quello in cui siamo immutabili, troveremo non esser morte, non solo per noi, ma né per veruna sostanza: mentre nulla sostanzialmente si sminuisce, ma tutto per infinito spacio discorrendo cangia il volto.
D’altro canto, solo chi lascia “discorrere” il proprio sguardo nell’infinito può riscattare l’autentica grandezza di Dio, e con essa la responsabilità dell’uomo altrimenti costretto tra dannazione (Plutone) e grazia (Giove):
Cossì si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerabili; non in una terra, un mondo, ma in diecento mila, dico in infiniti. Di sorte che non è vana questa potenza d’intelletto, che sempre vuole e puote aggiungere spacio a spacio, mole a mole, unitade ad unitade, numero a numero; per quella scienza che ne discioglie de le catene di uno angustissimo, e ne promuove alla libertà d’un angustissimo imperio; che ne toglie dall’opinata povertà et angustia, alle innumerabili ricchezze di tanto spacio, di sì degnissimo campo, di tanti coltissimi mondi: e non fa che circolo d’orizonte mentito da l’occhio in terra, e finto da la fantasia nell’etere spacioso, ne possa impriggionare il spirto, sotto la custodi d’un Plutone e la mercè d’un Giove.
Etica e conoscenza appaiono sempre più intrecciate. In un universo infinito, scandito dalla mutazione vicissitudinale di ogni cosa, perdono di consistenza non soltanto le categorie della cosmologia tradizionale, ma anche quelle della morale ricevuta, e la filosofia bruniana, se vuole incidere nel vivere degli uomini, non può non ripensare idee come quelle di vita e di morte, di bene e di male, di dolore e di felicità. Al culmine dell’indagine cosmologica, Bruno si rivolge a quel contesto etico – politico che non ha mai davvero abbandonato, rimodulando molti dei temi sfrontati nelle analisi dell’infinità dell’Universo e dell’unicità del suo intrinseco principio vitale, a partire da quel nesso tra libertà e necessità dalla cui comprensione dipende la possibilità di ogni renovatio, celeste o umana che sia. 

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