L'offensiva della Chiesa

QUANDO L’INQUISIZIONE COMINCIA A CONSIDERARE LA MAGIA AL PARI DELL’ERESIA, UNA SORTA DI PSICOSI COLLETTIVA SI IMPADRONISCE DELL’EUROPA OCCIDENTALE.
Tra Due e Quattrocento, insomma, la magia era dibattuta almeno quanto praticata. Tuttavia, questa considerazione non deve indurre a pensare che l’intera Europa fosse percorsa da un’unica ondata di interesse verso questi temi. Tutt’altro. Vi era una nutrita parte della società, soprattutto negli ambienti laici di media cultura, che negli stessi anni andava sviluppando un atteggiamento parzialmente – e in alcuni casi molto – diverso nei confronti del fatto magico.
Un inganno del demonio
Dante delle opere volgari è in qualche misura indicativo di questa tendenza. Nell’Alighieri la magia si legava strettamente alla frode e all’inganno del demonio, la sola creatura cui è dato modificare, sia pure nell’apparenza piuttosto che nella sostanza, la natura e le sue leggi. Le “magiche frodi” si esercitano prevalentemente attraverso la divinazione, punita nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno. Qui la “frode” viene distinta nei suoi vari aspetti: in primo luogo si rammentano “ipocrisia, lusinghe e chi affattura,/ falsità, padroneggio e simonia/ruffian, baratti e simile lordura” (Inferno, XI, 58 – 60). Fra “chi affattura” ci sono anche gli indovini: da quelli celebri della’ntichità sino ai contemporanei, tra cui Michele Scoto, nonché “..le triste che lasciaron l’ago 7la spuola e’l fuso, e fecersi ‘ndivine; fecer malie con erbe e con imago” (Inferno, XX, 121 – 123).
Naturalmente, non era solo Dante a rappresentare il pubblico dei centri urbani fra Due e Quattrocento: da quello culturalmente elevato degli ambienti professionistici di medici, notai e giurisperiti, al ceto dei mercanti e degli imprenditori.

I maghi della truffa
In Toscana, per esempio, a fronte di un certo interesse, attinto dalla cultura filosofico – teologica, astronomica, fisiconaturalistica, nonché dai bestiari, dagli erbari, dai lapidari, e presente in autori come Brunetto Latini, Bono Giamboni, Dino Compagni, Francesco da Barberino, Cecco d’Ascoli, molti altri mostravano un completo distacco, se non addirittura un’avversione per il fatto amgico, privato di ogni connotato filosofico o empirico -naturalistico che sia, e ridotto invece a burla e truffa.
La novellistica del trecento è , in quest’ottica, esemplare. Figure come quelle dei toscani Giovanni Sercambi e Francesco Sacchetti (autori rispettivamente delle raccolte note come Novelliere e trecentonovelle) testimoniano appieno, sia pure con differenti sfumature, l’estraneità verso qualunque forma di pensiero e di azione che esulasse dalle certezze della società borghese e di un cristianesimo privo di slanci o di curiosità intellettuali: l’universo magico, che comprendesse filosofi di alto profilo o postulanti truffaldini, era guardato con sospetto e, se possibile, ridicolizzato; al apri di coloro ( in genere si trattava di “rustici”: è qui evidente la polemica del cittadino contro il contado) che, vittime della superstizione e della stupidità, erano facili prede di raggiri.
Ancora più significativamente, la magia “dotta”, che come si è detto aveva trovato spazi ormai da almeno un secolo nelle corti europee, non veniva mai neppure presa in considerazione; ignorata al apri di quella vasta corrente di pensiero in cui il confine tra nuove scienze e magia appariva tutt’altro che tracciato in modo definitivo.
Come si detto, infatti, l’incredulità, ad esempio nei confronti dell’astrologia, non era affatto diffusa tra gli intellettuali, né poteva esserlo dal momento che la scienza degli astri, incluso il suo aspetto divinatorio, faceva parte di una “considerazione del mondo” ben appoggiata alla scienza del tempo; essa dilagava invece tra i ceti semicolti, che magari si alimentavano dell’informazione scientifica attinta ai volgarizzamenti, e perciò superficiale e distorta, e soprattutto di una cultura devozionale diffusa tra le borghesie comunali e caratterizzata da una sistematica e grossolana critica nei confronti dei dati magico -astrologici forniti dall’antichità, e in qualche modo confermati da forme diffuse di “superstizione”, che la propaganda religioso – popolare funzionale alla cultura degli inquisitori e dei predicatori e accetta ai ceti medi tendeva a contestare.
Faceva decisamente eccezione, nella novellistica del tempo, la figura di Giovanni Boccaccia, che dalla sua lunga frequentazione della letteratura classica e cavalleresca aveva ricavato rispetto e conoscenza per la magia “alta” e sapienziale.

Un giardino d’inverno
Per il Boccaccia, le arti magiche sembrano dotate di poteri effettivi, di una propria autonomia rispetto alle altre scienze e di una forte rispettabilità che investe anche color che la esercitano seriamente.
Nel Decameron compaiono a più riprese “negromanti” dai poteri stupefacenti. Come nella novella del giardino d’inverno (X, 5), in cui Madonna Dainora domanda a Messer Ansaldo un giardino di maggio in pieno inverno e questi “in più parti per lo mondo mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o consiglio gli desse; e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse, per arte negromantica proferiva di farlo”. Allora, ” il valente uomo in un bellissimo prato vicino alla città con le sue arti fece sì, la notte alla quale il calen di gennaio seguiva,, che la mattina apparve, secondo che color che ‘l vedevano testimoniavano, un de più bè giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d’ogni maniera”. Alla fine, anche se fin dall’inizio il “negromante” si era qualificato come un “professionista” che prestava le sue arti a pagamento, in un generale clima di nobiltà d’animo di stampo profondamente cavalleresco, egli palesa doti di magnanimità:”Il negromante, al quale Messer Ansaldo di dare il promesso premio s’apparecchiava, veduta la liberalità di Giliberto verso Messer Ansaldo e quella di Messer Ansaldo verso la donna, disse:”Già Dio non voglia, poi che io ho veduto Giliberto liberale del suo onore e voi del vostro amore, che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò, conoscendo quello a voi star bene, intendo che vostro sia”.”
Nelle pagine del Decameron si parla naturalmente anche dei molti che, senza avere reali capacità, orecchiavano rituali magici per burla o per profitto. Tuttavia, anche verso queste ambigue figure il Boccaccio non assume un atteggiamento risentito o preoccupato, al contrario del Sercambi o del Sacchetti, che mettono in guardia il loro pubblico contro tali nefande. Sono il contesto della novella, i raggiri e le loro vittime, a sortire un effetto comico, non i rituali magici – per quanto falsi – o coloro che fingono di praticarli.Anche gli scenari principalmente urbani ( o l’oriente dal fascino leggendario)contribuiscono a render più brillanti, lontane dalle -presunte – rozzezze e ignoranze contadine, le arti magiche del Decameron.

Dietro l’eresia
Il crescente interesse verso l’ambito magico da un lato, l’avversione della società per lo stesso ordine di fenomeni dall’altro: queste due opposte tendenze non potevano che condurre a un inasprimento dal punto di vista ecclesiastico e giurisdizionale verso la magia e coloro che la praticavano (o erano accusati di farlo).
L’insorgere di un non conformismo ereticale e il pericolo che esso rappresentava per la disciplina della cristianità rendevano la Chiesa di Roma più guardinga e la inducevano a mettere a punto gli strumenti inquisitoriali in grado non solo di rintracciare l’eresia, ma anche di rintracciarne il retroterra socio – culturale. Gli stessi strumenti, supportati da rinnovate riflessioni di carattere teologico e demonologico, furono impiegati per controllare l’adesione alle pratiche magiche; non solo e non tanto le “superstizioni” tradizionali, quanto piuttosto le nuove discipline trasmesse e apprese grazie a testi scritti e dunque fruibili da un pubblico di una certa cultura.
Come premessa, si deve dire che una rinnovata cura per la pastorale aveva comportato una ricomparsa dei temi “magico – superstiziosi” tra gli argomenti trattati; la predicazione dei secoli XII e XII, da una parte troppo coinvolta nella cosiddetta riforma “gregoriana”e poi della lotta antiereticale, dall’altro troppo sovente mutuata da modelli del passato, ormai invecchiati, non aveva presentato sotto questo profilo motivo di particolare interesse.

Sopra molte e diverse fantasie
Nella polemica antiatrologica contenuta nella novella 151 ella sua raccolta, Franco Sacchetti mette in mostra un grossolano razionalismo e un volgare semplicismo, con il quale egli sembra credere di potersi opporre a un quadro culturale complesso, che nel suo insieme ignorava, e che collegava semmai le persone più colte ai ceti più bassi della società del tempo, ai contadini ad esempio, usi anch’essi per le necessità del loro lavoro a spiare i segni celesti. Il mercante- scrittore tornò con lo stesso spirito sul tema nella Canzone sopra molte e diverse fantasie, nella quale sono condananti insiem astrologi, indovini e negromanti:”Pieno è il mondo di falsi profeti/ D’astrologhi sibille e di resie, / di sogni e fantasie,/d’indovini d’auguri e negromanti;/ ciascuno abbaia e non è chi glil vieti,/volendo autenticare il dire bugie,/per indirette vie/mostrando l’avenire su per li canti;/come avuto l’avesson dà santi./Cos’ i tapini voglion profetare7e tal sì vuol mostare/Isaia, Eliseo o Daniello;/che legger non sapria il Donadello(…)Astrologhi eccelsi d’ogni parte/piovono a dir delle stelle il corso,/ e tal non vedrai l’orso/che veder vuol ciò che ‘l ciel volge e gira;/e giudican talor secondo Marte,/talor dicon Saturno aver trascorso,/talor Mercurio è morso,/e Iupiter commosso .(..) Che dirò io dè falsi indovini,/ che piena né la terra più che d’erba,/ciascun mostrando verba,/come Anfirao fosson o Aronta?/Costor stan sempre poveri e mischini/e quanto menton tanto ha più superba,/per lor niun ben si serba;/ sempre indovinan male con faccia pronta;7morte e fame e discordi si raconta/per loro e guerre e battaglie e romori./(…) Così è il mondo pien di maraviglia;/ mè negromanti finirà il mio motto/ch’ognuno è Michele Scotto,/dicendo ne l’ampolla il diavol hanno,/ e con fature assai corpi disfanno(..)” (da Il libro delle rime, CCXVI)

La Leggenda aurea
A partire dal Duecento, invece, i sermoni sembravano registrare – insieme con altre fonti ma forse più di quelle – la rinascita magico – folclorica di cui si è parlato. Un contributo, in questo senso, venne certo dall’attività inquisitoriale che molti fra i predicatori degli Ordini mendicanti svolgevano, oltre che, naturalmente, dall’esercizio delle confessioni; girando per città e campagne alla ricerca degli eretici, francescani e domenicani si imbattevano anche in fenomeni “magico -superstiziosi”.
Oltre al naturale convergere fra l’incremento della pratica evangelizzatrice e la riscoperta del mondo “popolare”, tra Due e Trecento si verificò poi anche una crescita oggettiva d’interesse verso le pratiche e i rituali a carattere magico, originata dal dilagare di testi e studi sull’argomento di cui si è parlato. Il rinnovamento culturale, l’acquisizione delle nuove scienze, l’influsso del pensiero arabo – ebraico, la crescente passione per l’antico, anche quando pagano, erano tutti fenomeni che, sia pur valutabili singolarmente in modo differenziato, sollevavano il timore per un rinnovarsi delle pratiche di magia. Non si trattava più di superstizioni circoscritte a pratiche e credenze del “volgo”, come quelle denunziate nei primi secoli del Medioevo. Si era invece di fronte a una magia “alta”, cerimoniale, a un insieme sapienziale che in parte sembrava, o poteva sembrare, contrapporsi organicamente al dettato cristiano.
La Leggenda aurea (una raccolta di Vite di Santi dai toni leggendari in cui l’autore associa i riti dell’anno liturgico), composta dal domenicano Jacopo Varazze nel 1260 circa, è il testo che meglio esemplifica il sorgere di questi timori in seno alla cultura ecclesiastica. In esso convergono infatti la preoccupazione verso due ordini di fenomeni: le persistenze a livello per così dire “popolare” di costumi tradizionali legati al paganesimo e il risorgere di una magia dotta che si incarnava nell’amore e nello studio del passato precristiano. Del primo fenomeno Jacopo parla quando spiega al suo pubblico origine e significato di alcuni usi liturgici; al secondo, invece, si fa riferimento ancora più spesso, nelle Vite di Santi della Chiesa primitiva che atterrano gli idoli o contrastano vittoriosamente sacerdoti pagani.

Accuse strumentali
L’equiparazione di magia ed eresia di fronte all’Inquisizione fu comunque un’acquisizione progressiva e anche abbastanza lenta.
Nel 1233 Gregorio IX promulgava la bolla Vox in Rama, nella quale si prendeva in considerazione la situazione creatasi nell’Oldenburgo, dove si era sviluppato un movimento di contestazione contro l’arcivescovo di Brema. Il testo pontificio accusava i fedeli di adorare animali mostruosi – metamorfosi di demoni -, di commettere sacrilegi, di praticare rituali orgiastici. La Vox in Rama riecheggiava alcuni degli elementi polemici che venivano impiegati contro gli eretici catari; si trattava dunque (al di là di un possibile fondo di verità forse esistente, magari un’immagine distorta di cerimonie comunitarie contadine) di accuse a fini politici.

Processo ai Templari
Nei primi due decenni del Trecento si svolse il grande processo contro i Templari, in cui agli imputati si mossero accuse molto simili a quelle presenti nella bolla del 1233.
Successivamente, nel 1326, la Super illius specula di Giovanni XXII equiparò definitivamente all’eresia le pratiche o le credenze magiche, consentendo di applicare a queste ultime le normali procedure inquisitoriali. Infine Benedetto XII, esperto in questioni ereticali per essere stato a lungo inquisitore nell’area pirenaica, proseguì sulla linea avviata dalla Super illius specula; è sintomatico che alcuni grandi processi che ebbero per loro fulcro la questione magica furono istruiti nel Trecento proprio in quella stessa area occitano – pirenaica, dove tra XII e XIII secolo era sta più forte la presenza catara e più dura la repressione.
Si fece quindi sempre più impellente nel corso del Trecento e del secolo successivo la necessità di una sistemazione anche giuridica del rapporto tra eresia e magia. Giuristi celebri si appoggiarono alla controversia sulla natura dei poteri magici e l’equiparazione di questi all’eresia. Il dibattito giuridico si innestò a questo punto sulla situazione dell’Europa di metà trecento, quando l’intera società europea era sconvolta dalla lunga crisi climatica, demografica, socio – politica e culturale che si aprì, com’è noto, nel corso del secondo decennio del secolo XIV con le carestie del biennio 1315- 1317, e che culminò nella Peste Nera del 1347 -50.
A cavallo tra la fine del trecento e il Quattrocento comparsero le opere di numerosi inquisitori, generalmente domenicani, che mostravano il crescente interesse e la viva preoccupazione che montavano per quella che ormai si andava definendo come una vera e propria “questione magico- stregonica”. Una sorta di psicosi collettiva sembrava impadronirsi dell’Europa occidentale, in una specie di corto circuito che si stabiliva tra “residui” di un’eresia evidentemente non proprio ed elementi di una cultura folclorica con ogni evidenza antica, ma solo allora rilevata e divenuta oggetto delle preoccupazioni ecclesiali: ne furono prova le cosiddette vauderies di Arras nel 1459 e di Lione nel 1460.

Le Vauderies di Arras
Il complesso intreccio venutosi a creare negli ultimi decenni del Quattrocento tra eresia, magia e primi accenni di “caccia alle streghe”, si manifestò con chiarezza nel drammatico episodio della cosiddetta vauderie d’Arras, nell’Artois. Verso la seconda metà del Quattrocento un eremita era stato condannato per reati di magia demoniaca; prima di morire, aveva confessato di aver avuto alcuni complici. Arrestati e sottoposti a tortura, anche questi finirono per confessare, denunciando a loro volta ulteriori complici. La “caccia” cominciò dunque a profilarsi in tutta la sua drammaticità, coinvolgendo un numero sempre più alto di imputati. Chiamati “Valdesi” ( Vaudois) come gli eretici del passato (conosciuti come “poveri di Lione” o, appunto, come “Valdesi” dal nome del loro fondatore Valdo), essi venivano accusati di formare una setta criminale al servizio del demonio, che incontravano nel corso di riunioni notturne alle quali giungevano in volo, a cavallo di piccoli bastoni, dopo essersi cosparsi di un unguento magico. Durante il sabba rinnegavano la fede cristiana e prendevano l’impegno di commettere ogni serie di nefandezze: diffondere epidemie, rendere infecondi i campi, sterili le persone. L’inchiesta – che sino ad allora aveva toccato solo persone di ceto medio – basso – arrivò a una svolta nel 1460, quando vennero accusate alcune alte personalità locali. Anche per loro giunsero dure condanne -ma non quella capitale -; la vicenda ebbe una tale risonanza da chiamare in causa Filippo il Buono, che riuscì a porre un freno a quella che ormai appariva come una sorta di psicosi collettiva. I condannati furono riabilitati dal Tribunale di Parigi, anche se molti anni più tardi, nel 1491. 

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