I Frutti D'Inghilterra

Lo scontro che vede contrapposti Bruno e i “pedanti di Oxonia” è il primo banco di prova della nuova cosmologia
Giordano Bruno arriva a Londra nell’aprile del 1583; resterà in Inghilterra sin alla fine del 1585. In questi anni vedono la luce i capolavori della nova filosofia: La cena de le ceneri (1584) il De la causa, principio et uno 81584), il De l’infinito, universo et mondi 81584), lo Spaccio de la bestia trionfante (1584), la Cabala de cavallo pegaseo (1585) e il De gli eroici furori (1585).
Ma il soggiorno inglese è segnato da aspre polemiche.
Per quali ragioni fosse partito per l’Inghilterra è difficile dire (Bruno stesso sarà alquanto vago con gli Inquisitori veneti). Si è addirittura ipotizzata una missione segreta in terra inglese, allo scopo di favorire la politica religiosa di Enrico III. Forse, le cose sono più semplici: la situazione in Francia era diventata difficile per il Nolano, sia per le posizioni politico-religiose che aveva sostenuto, sia per le opere che vi aveva pubblicato nel 1582. Può darsi che la partenza gli fosse stata suggerita da personaggi vicini alla Corte, i quali si sarebbero adoperati per procurargli a Londra l’ospitalità dell’ambasciatore del Re di Francia, quel Michel de Castelnau che Bruno considererà sempre suo “saldo difensore” e a cui attribuirà, tra gli altri, il merito di aver sostenuto la pubblicazione della Cena, non lasciando così morire “entro le fasce” la “generosa e divina prole, inspirata da alta intelligenza, da regolato senso concepita e da nolana musa parurita”.
L’arrivo di Bruno “tra Britanni” è anticipato da un dispaccio inviato il 28 febbraio 1583 dall’ambasciatore a Parigi, Henry Cobham, al primo segretario del regno, Francis Walsingham: “Intende venire in Inghilterra il dottor Giordano Bruno, nolano, professore di filosofia, la cui religione io non posso approvare”. La preoccupazione espressa da Cobham circa l’influenza che con la sua cattiva religione il Nolano avrebbe potuto esercitare sia sul piano scientifico sia su quello politico-religioso appare più grave alla luce dello scontro che in quegli anni travaglia la Chiesa d’Inghilterra , divisa tra i rappresentanti più ortodossi e i più estremisti tra i protestanti, ossia i cosiddetti Precisians o Puritans. Se l’attenzione per la lingua e la cultura italiana da parte della regina Elisabetta e di molti gentiluomini a Corte poteva aver generato in brunola speranza di un accreditamento ufficiale, quel dissidio, in cui erano coinvolti (in senso favorevole allo schieramento “puritano”) i circoli accademici di Oxford e di Cmbridge, doveva farla ben presto svanire.
Dal 10 al 13 giugno 1583 egli visita per la prima volta Oxonia (Oxford), al seguito del conte palatino polacco Alberto Laski. Pur non essendo tra gli oratori designati, sfida in un dibattito pubblico il teologopuritano John Underhill. Con quali esiti sarà lo stesso Bruno a ricordarlo nel Dialogo quarto della Cena:
-questi sono i frutti d’Inghilterra: e cercatene pur quanti volete, che le troverete tutti dottori in grammatica, in questi nostri giorni: né quali in la felice patria regna una costellazione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione, mista con una rustica inciviltà che farebbe prevaricar la pazienza di Giobbe. E se non li credete, andate in Oxonia e fatevi raccontar le cose intravenute al Nolano, quando pubblicamente disputò con què dottori in teologia in presenza del principe Alasco polacco, et altri della nobiltà inglesa; fatevi dire come si sapea rispondere a gli argomenti: come restò per quindici sillogismi, quindici volte qual pulcino entro la stoppa quel povero dottor, che come il corifeo dell’Academia ne puosero avanti in questa grave occasione.

Quello che Bruno non dice è che se quel teologo puritano era debole in filosofia, non era nell’accademia (nel 1584 Underhill diventa vicecancelliere dell’Università di Oxford, grazie all’appoggio del potente cancelliere, Robert Dudley); né a ringraziarsi gli ambienti oxoniensi era bastata per il Nolano la lettera inviata al vicecancelliere precedente, in cui chiedeva un incarico di insegnamento (in quanto “dottore in una teologia meglio elaborata e professore di una sapienza più pura”)e in cui rinunciava, per altro, a qualsiasi pretesa di verità assoluta:
-quando accadrà che, per determinarne la ragion teorica e l’applicazione pratica, sembriamo portati ad approvare le dottrine di Pitagora, Parmenide, Anassagora e di migliori filosofi, oppure a metter davanti le idee nostre e personali, qualora queste enunciazioni paiano in contrasto con la fede comuna e ortodossa, si deve intendere che tali espressioni da noi profferite non come assolutamente vere, ma come quelle meglio conformi ala nostra ragione e senso o come, per lo meno, non tanto assurde quanto l’altro termine della contraddizione.
Già nell’agosto 1583 il Nolano è costretto a interrompere il ciclo di lezione sull'”immortalità dell’anima”e sulla “quintuplice sfera” con l’accusa di plagio. Questa, almeno, è la versione data (1604) da George Abbot, futuro arcivescovo di Canterbury:
-Quando quell’omiciattolo italiano, che si atodefinivaPhilotheus Iordanus Burnus Nolanus, magis elaborata Doctor, etc con un nome certamente più lungo del suo corpo, visitò nel 1583 la nostra università al seguito del duca polacco Alasco, non stava nei panni per il desiderio di compiere qualche memorabile impresa, di divenire famoso in quel celebre ateneo. Ritrovandovi non molto tempo dopo, quando, con molta più audacia che saggezza. Ebbe occupato il posto più alto della nostra migliore e più famosa scuola, rimboccandosi le maniche come un giocoliere e facendoci un gran parlare di chentrum et chircules et chircumferenchia, egli intraprese il tentativo, tra moltissime altre cose, di far star in piedi l’opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cilei stanno fermi: mentre, in verità,era piuttosto la sua testa che girava, e il suo cervello che non stava fermo. Quando egli ebbe finito la sua prima lettura, un uomo grave, che occupava allora, come tuttora occupa, una posizione eminente in quella università, ebbe l’impressione di aver letto da qualche parte quelle stesse cose che il dottore stava esponendoci: ma, tenuto per sé il suo sospetto, quando ascoltò la seconda lezione di Bruno gli sovvenne di che cosa si trattava e, recatosi nel suo studio, trovò che sia la prima sia la seconda lettura erano state tratte, quasi parola per parola, dalle opere di Marsilio Ficino. Dopo che egli ebbe messo al corrente della cosa, quel raro ed eccellente ornamento della nostra terra, colui che è ora vescovo di Durham, ma allora era diacono della Chiesa di Cristo, si pensò, dapprima, di render noto all’illustre lettore quanto avevano scoperto. Ma colui che per primo aveva contribuito ad accertare la verità, più saggiamente, propose di metterlo alla prova ancora una volta; e se gli avesse continuato a prendersi gioco di lui, e di tutto l’uditorio, per la terza volta, allora avrebbe agito a loro piacimento. E poiché Iordanus continuava a essere idem Iordanus, essi gli fecero sapere attraverso una certa persona che avevano avuto già troppa pazienza nei suoi confronti e che egli li aveva già abbastanza infastiditi; e così con grande onestà da parte di quell’ometto, la questione ebbe termine.
-Ben diversa è, ovviamente, la versione offerta nella Cena: “Informatevi come gli han fatte finire le sue pubbliche letture, e quella de immortalitate animae e quella de quintuplici spera”. L”omicciatolo italiano” (italian Didapper)- la locuzione rimanda al nome di un modesto uccello acquatico- aveva si l’abitudine di inserire nei propri scritti passi di altri autori, sfruttando la sua formidabile memoria; ma li modificava e li organizzava alla luce delle proprie esperienze speculative.
Se non del tutto infondata, l’accusa di plagio era dunque una forzatura, che , a vent’anni di distanza, mirava a svilire il senso profondo di un contrasto, infamando uno dei protagonisti . Resta il fatto che nell’estate 1583 Bruno comincia a esporre a Oxford i temi fondamentali dell’ontologia e della cosmologia che di lì a poco avrebbero trovato piena espressione nei dialoghi italiani. E o fa oltrepassando quel criterio di verosimiglianza, cui pur aveva dichiarato di volersi attenere, spinto dall’impetuoso sviluppo del suo pensiero, ma forse anche da quell’incapacità a trattenersi di cui darà prova ogni volta che la posta in gioco investirà direttamente le ragioni della nuova filosofia.

Il Sigillo Dei Sigilli
Per avere un’idea più precisa delle tematiche affrontate dal Nolano a Oxford è bene accennare a un’opera che vede la luce subito dopo lo sbarco in Inghilterra: il Sigillus sigillorum (1583).Anzitutto, il titolo: sigillus è il signum compendiato nella sua parte più significativa. Come sappiamo, i segni per Bruno sono ombre interiori delle forme sensibili, a loro volta vestigia delle idee: scopo di questo era dunque individuare e definire il fondamento ontologico tanto del’ars momoriae quanto del carattere umbratile” della conoscenza.
Forte enfasi è posta sull’unità profonda che sottende i diversi gradi attraverso cui si svolge il processo conoscitivo- a partire da quello più basso, il senso, cui non spetta “conoscere chiarezza le cose che sono fuori dall’anima”, bensì “annunciarle alla facoltà che le conosce”. Dopo aver distinto tra manifestazioni del senso (una inferiore, per cui si percepisce soltanto una sorta di sollecitazione indotta dalle qualità corporee, senza distinguere la natura della cosa, né le sue qualità; una superiore per cui si attinge natura e qualità; infine, una terza che Epicureo avrebbe chiamato “cognizione”, Democratico ed Empedocle “intelletto” e i Pitagorici “mente” o “spirito vitale”), Bruno sottolinea come tute queste definizioni concorrano in un unico principio:

-La mente, infatti, che anima la mole dell’Universo, è quella che dal centro figura il seme e con così mirabili ordini conduce a esplicarsi nella sua ipostasi, lo intesse con tecniche così perfette, disdegna e dipinge in modo squisitissimo le piante e le vene delle pietre, le quali certo non sono prive dello spirito di vita: e a quanti non sono del tutto ciechi nella considerazione delle cose naturali risulta sufficientemente manifesto che le virtù animali derivano da queste stesse piante pietre.
Nonostante l’apparente fedeltà alla fonte ficiniana, cade la concezione di una scala gerarchica imperniata sulla distinzione tra facoltà inferiore e superiori. Qualunque sia il grado dello sviluppo del processo conoscitivo, è al principio unitario che occorre guardare, principio che è insieme ontologico e gnoseologico. Come l’unità della mente universale si esplica secondo una pluralità di gradi che sono organicamente connessi ai livelli di tale mente:
-una mente indivisibile è più intima alle cose di quanto le cose indivisibili non lo siano a sé: e questa mente è cos’ feconda da generare in tutte le cose secondo la loro capacità una potenza intellettiva che potrai a tuo piacere chiamare senso o mente propria o istinto, purchè tu giudichi con buon senso. Come infatti nessun colore è in atto senza luce, per quanto l’uno si esplichi di più, l’altro di meno, così ugualmente niente in alcun modo può conoscere senza essere partecipe dell’intelletto; e dunque diciamo che avanzando in successione analogica secondo le diversità delle cose e la moltitudine delle specie in tutto discende questa partecipazione dell’intelletto, mentre da tutto ascende il senso.
Che lo si consideri dal punto di vista dell’ “ascenso” (cioè dell’intelletto), o dal punto di vista della “descenso” (del senso), il processo conoscitivo resta uno, e uno soltanto. Se “nel senso è partecipazione all’intelletto, allora il senso sarà lo stesso intelletto”; analogamente, è lecito considerare il processo a partire dal senso, e dire che “il senso in se stesso sente soltanto”, mentre nell’immaginazione” sente di sentire”; che, “ormai immaginazione, in se stesso immagina”, mentre “nella ragione sente di immaginare”; che, “ormai ragione, in se stesso argomenta”, mentre “nell’intelletto avverte di argomentare”; che “orami intelletto, in se stesso intende”, mentre “nella mente divina intuisce infine l’atto del suo intendere”. La motivazione di tutto ciò è ontologica: “una sola e semplice essenza è dotata di una unica, prima, totale e semplice efficacia, che necessariamente viene a essere divisa, distinta e moltiplicata nel sostrato, e dunque necessariamente un solo e identico principio riceve denominazioni diverse”.
Prospettiva ontologica e prospettiva gnoseologica sembrano rispecchiarsi reciprocamente nel ritmo unitario dell’ascensus e del descensus. Senso, immaginazione, ragione o intelletto sono qualcosa di più e di diverso che un puro grado della conoscenza umana: sono strutture della realtà, modalità della mente universale, strettamente congiunte e unificate della loro partecipazione, secondo la loro capacità, alla potenza intellettiva. E ciò non vale solo per gli esseri umani, ma per le pietre e per le piante:

una sola luce illumina tutte le cose, una sola luce vivifica tutte le cose discendendo secondo determinati gradi dalle superiori alle inferiori e ascendendo dalle inferiori alle superiori; e così come è nell’Universo, così è anche nei simulacri dell’Universo. E a quanti ascendono più in alto non solo sarà manifesto che una sola è la vita di tutte le cose, una sola la bontà, e che tutti i sensi sono un solo senso, tutte le nozioni una sola nozione, ma anche tutte le cose, come pure cognizione, senso , luce e vita sono in ultimo una sola essenza, una sola virtù, una sola operazione. Essenza, potenza e azione, essere potere e agire, ente potente e agente sono una cosa sola: sicchè tutte le cose sono uno, come ben conobbe Parmenide essere uno il tutto e l’ente.
Sono qui abbozzati alcuni degli snodi teorici che verranno rimodulati nelle successive opere del periodo londinese : nel De la causa, a difesa di Parmenide, e contro Aristotele, Bruno ribadirà che “l’essenza dell’Universo è una nell’infinito et in qualsivoglia cosa presa come membro di quello, sì che a fatto il tutto et ogni parte di quello viene ad essere uno secondo la sustanza”; nel De l’infinito , precisando la differenza tra Universo e mondi, sosterrà che “uno è dunque il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale, l’eterea ragione, per la quale il tutto discorre e si muove”. In quest’ottica risultano significative le pagine del Sigillus dedicate all’arte e alla magia. Riflettendo sul rapporto arte/natura, il Nolano comincia a mettere a fuoco, in chiave prevalentemente gnoseologica, il motivo dell’anima mundi che, nella trasposizione ontologica e cosmologica del De la causa, diventerà “principio formale et costitutivo dell’universo e di tutto ciò che in quello si contiene”:
come attraverso l’arte conosciamo quale sia ogni cosa secondo natura e ragione, così ugualmente è necessario far risalire alla natura il principio dell’arte e della ragione. Perché tu possa dunque acquistare un’arte assoluta e perfetta, occorre che ti unisca all’anima del mondo e operi unito a quest’anima che, in quantoper naturale fecondità è piena di ragioni, genera un mondo ugualmente pieno di ragioni simili. Tali ragioni [..]senza dubbio a somiglianza di semi figurano e formano le cose universe a guisa di mondi minimi. E di conseguenza, giacchè l’anima è presente dovunque, è tutta in tutto ed è una in qualsiasi parte, allora ti sarà possibile, secondo la condizione della materia, vedere in qualsiasi cosa, per quanto sia esigua e recisa, un mondo e no semplicemente il simulacro di un mondo, per cui non senza ragione possiamo affermare insieme ad Anassagora che tutto è in tutto.
Quanto alla magia,essa permetterebbe di cogliere l’intima concatenazione delle cose dell’Universo, riconoscendone il fondamento nel “grande demone” dell’amore, e di scoprire la natura vitale del senso, così da ritrovarlo in “tutte le cose naturali”;
di fatti esso deriva da un appetito insito nelle varie parti dei corpi e nelle principali membra del mondo, vale a dire nei grandi animali e dei, per virtù dei quali i primi si portano verso il luogo a essi proprio,e i secondi percorrono i propri vitali circuiti. Se infatti queste cose non fossero dotate di senso, mai potrebbero muoversi verso una regione a esse appropriata, ovvero entro una regione a esse appropriata.. Di conseguenza, bene dissero (per quanto non tutti bene intendono) quanti sostennero che l’opera della natura è opera di intelligenza.
Può sorprendere che trattando della magia, “emula e socia dell’onnipresente natura”, Bruno accenni alle “principali membra del mondo” in termini non dissimili da quelli che userà nella cena a proposito della Terra e dei “tanti altri corpi che sono chiamati astri”. Eppure, è in passi come questo che affiorano gli elementi che saranno costitutivi della concezione cosmologica bruniana, dalla differenza tra Universo e mondi alla concezione degli astri come “animali intellettuali” smoventesi nello spazio alla ricerca dei luoghi convenienti, per non dire della distruzione degli orbi solidi portatori dei corpi celesti.
Le analisi del Sigillus ci permettono dunque di congetturare cosa il Nolano abbia potuto dire a Oxford e di comprendere le ragioni dell’ostilità dell’uditorio. Nell’estate del 1583 Bruno comincia a presentare, da quell’alta cattedra, le sue novità cosmologiche, ponendo le basi gnoseologiche e ontologiche del suo futuro lavoro. La rottura con gli ambienti accademici lo spingerà a cercare altri interlocutori a altro pubblico: questo inciderà non poco nella scelta del volgare attuata nei dialoghi londinesi. Ma quel fallimento e quella rottura risulteranno decisivi anche per un altro verso: lo smacco ricevuto dai teologi puritani e il peso delle loro argomentazioni porteranno il Nolano ad affilare le armi della dialettica e a precisare gli obiettivi della polemica, rinunciando a confinare i risultati ella propria ricerca al piano dell'”utile” e del “verosimile”.

“Lume copernicano” e nova filosofia
Alla fine dell’estate 1583 Bruno è di nuovo a Londra, ospite dell’ambasciatore francese, nella cui residenza “non faceva altro, se non che stava per suo gentiluomo”.
Lavora alacremente, dando alle stampe nel volgere di pochi mesi La cena de le ceneri, dedicata, come altri dialoghi italiani, proprio a Michel de Castelnau. A questi è rivolta la Proemiale epistola, in cui il Nolano presenta quella “cena” che avrebbe dato origine all’opera e a cui sarebbe stato invitato dall’organizzatore, Sir Fulke Greville (1544 – 1628), per discutere di cosmologia copernicana con due dottori di Oxford, Nundinio e Torquato.

Un convito sì grande, sì picciolo; sì maestrale, sì disciplinale; sì sacrilego, sì religioso; sì allegro, sì collerico; sì aspro, sì giocondo; sì magro fiorentino, sì grasso bolognese,sì sardanapalesco; sì bagattelliero, sì serioso; sì grave, sì mattacinesco; sì tragico, sì comico; che certo credo che non vi sarà poca occasione da dovenir eroico, dimesso; maestro, discepolo; credente, miscredente; gaio, triste; saturnino, gioviale; leggiero,ponderoso; canino, liberale; simico, consulare; sofista con Aristotele, filosofo con Pitagora; ridente con Democrito, piangente con Eraclito […]. Mi dimanderete: che simposio, che convito è questo? È una cena. Che cena? De le ceneri. Che vuol dir cena de le ceneri?fu vi posto forse questo pasto innante? Potrassi forse dir qua cinerem tamquam panam manducabam? Non; ma è un convito, fatto dopo il tramontar del sole, nel primo giorno de la quarantana, detto da nostri preti dies cenerum, e talvolta “il giorno del memento”.
Più asciutto sarà Bruno con gli Inquisitori veneti, preoccupato che il richiamo esplicito (e blasfemo) a un’altra e ben più celebre cena fornisca armi a sostegno dell’accusa.
Io ho composto un libro intitolato La cena delle Cenere, il quale è diviso in cinque dialoghi, quali trattano del moto della Terra; et perché questa disputa io feci in Inghilterra in una cena che si fece il giorno delle Ceneri, con alcuni medici, in casa dell’ambasciator di Francia, dove io stava, io intitolai questi dialoghi La cena delle Cenere, et le dedicai al medesimo ambasciator. Et può esser che in questo libro vi sia qualche errore, ma non mi ricordo ora precisamente; et in questo libro la mia intenzione è stata solamente di burlarmi di quei medici et dell’opinion loro intorno a queste materie.
Ma che l’intenzione non fosse solo quella di burlarsi di color che lo avevano maltrattato a Oxford, è la stessa Epistola a dichiararlo:
In che versa questo convito, questa cena? Non già in considerar l’animo et effetti del molto nobile e ben creato signor Folco Trivello[…]. Non circa gli onorati costumi di què signori civilissimi, che per essere spettatori et auditori, vi furono presenti. Ma circa un voler credere quantunque può natura in far duo fantastiche befane, doi sogni, due ombre e due febbri quartane; del che mentre si va crivellando il senso istoriale,e poi gusta e mastica, si tirano al proposito topografie, altre geografiche; speculazioni ancora, altre metafisiche, altre matematiche, altre naturali.
Sempre più consapevole del proprio ruolo “silenico”di scopritor del vero celato dietro le apparenze, e in polemica con l’ozioso letteralismo dei teologi inglesi, bruno esorta il lettore a farsi accorto e ad “aprire gli occhi”, “per che in tutte parti è da mietere, e da dissotterrar cose di non mediocre importanza, e forse là dove meno appare”. Come ricorda il suo (quasi) alter ego Teofilo, all’invito di Greville, che “bramava sua conversazione per intender il suo Copernico et altri paradossi di sua nova filosofia”, il Nolano aveva risposto che “lui non vedea per gli occhi di Copernico, né di Ptolomeo; ma per i proprii quanto al giudizio e alla determinazione”. E i suoi occhi, se da un lato gli avevano “mostrato di quante lodi fosse capace il Copernico”, dall’altro lo avevano edotto dei limiti dell’approccio copernicano, invitandolo a ricercare le “condizioni lodabili” della nova filosofia nella riscoperta e riparazione dell’antica.
Così, Bruno iscrive nella “ruota del tempo” l’opera stessa del canonico di Torun, celebrando la magnanimità di quel grande “germano”:

-lui aveva un grave, elaborato, sollecito e maturo ingegno: uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato avanti a lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che quanto al giudizio naturale è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo, e tutti gli altri ch’han caminato appo i vestigii di questi: al che è divenuto per essersi liberato da alcuni presupposti falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità.
Alla ” luce di Nicolò Copernico” il Nolano dedicherà un intero capitolo, il settimo, del Libro del De innumerabilis, immenso et in figurabili, seu de Universo et mundis libro octo (1590):
-Io invoco te, dotato di una mente venerabile, l’infamia dell’oscuro secolo non sfiorò il tuo ingegno e la tua voce venne sopraffatta dallo strepitante mormorio degli stolti, o generoso Copernico; le tue parole riecheggiarono nella mia mente in quei teneri anni, in cui ritenevo estraneo al senso e alla ragione quelle cose che ora afferro con le mani e che, dopo averle trovate, tengo ben strette. Dopo che, poco a poco, cadde nel dubbio la vaga opinione del volgo e venne considerata degna di un severo esame, sebbene lo Stagirata e la corte dei Greci, degli Itali e dei sapienti Arabi, tale e tanta famiglia all’unisono, giorno e notte, tenessero avvinto il mio animo, mentre l’ingegno incalzava il giudizio, cominciarono ad aprirsi per me le fonti della verità e brillò quella bellissima spece delle cose (giacchè l’alto Dio mi destina ministro non mediocre e non volgare di un secolo migliore). Mille ragioni sono a fondamento della scoperta specie del vero e la natura va spontaneamente rivelandosi ora che è concesso di godere del beneficio della matematica e delle argomentazioni nate dal tuo ingegno. Con quale piacere ho appreso che sei consenziente con Timeo, con Eresia, con Niceta e Pitagora!
Invocazione significativa, anche in chiave autobiografica: l’incontro del Nolano con l’opera copernicana sembra essere avvenuto nell’ambito di studi cosmologici che aveva intrapreso nel periodo napoletano e che lo avevano portato a dubitare delle diverse versioni della tradizione geocentrica e geostatica, nonché ad abbandonare i primi tentativi ad essa ispirati (“ciò che avevo immaginato da giovane” circa “la relazione che esiste tra il Sole e la Terra”):
dopo aver letto tutti i libri dei filosofi che potevo procurarmi, per vedere se mai alcuno avesse supposto i moti delle sfere dell’universo diversi da quelli che con tanta in certezza sostengono i comuni matematici, in Cicerone trovai che Niceta si era accorto del moto della Terra e in Plutarco che anche Ecfanto, Eraclito, i Pitagorici e Timeo ne erano a conoscenza, per cui trovato lo spunto, anch’io cominciai a pensare alla mobilità della Terra.
Il lume copernicano trova dunque un Bruno pronto ad accoglierlo e a farlo risplendere. “Noi che damo principio a rinovar l’antica filosofia, siamo nella mattina per dar fine alla notte”, dichiara Teofilo nella Cena. Ma per realizzare quella renovatio occorre compiere un passo ulteriore: riconoscere che lo stesso Copernico non si era molto allontanato dalla “comone e volgar filosofia”, dal momento che, “più studioso de la matematica che de la natura”, non era riuscito a sciogliere “perfettamente […] tutte le contrarie difficultà” e nemmeno a ” liberar a sé e altri da tante vane inquisizioni, e fermar la contemplazione ne le cose costante et certe”.
Non si fraintendano le parole bruniane: il Noalno, infatti, riconosce a Copernico il merito di aver posto il problema del moto della Terra procedendo come un “fisico che dimostra”, e non come “un matematico che suppone”. Ciò premesso, per Bruno va pur detto che “benché sia commoda alle suppurazioni”, la dottrina copernicana non sempre “è sicura quanto alle ragioni naturali, le quali sono le principali”. Pur avendo contribuito a rendere l’antica causa di moti della Terra “onorata, preggiata, più verisimile che la contraria” e “certissimamente più comoda et ispedita per teorica et raggione calculatoria”, il discorso di Copernico resta per Bruno più incline alla matematica che alla natura. Esso assomiglia a quello degli “interpreti che traducono da un idioma a l’altro le paroli: ma sono gli altri che poi profondano né sentimenti”; oppure , a quello dei “rustici che rapportano gli affetti e la forma d’un conflitto a un capitano absente”, senza nemmeno comprendere la dinamica della battaglia cui pure hanno assistito, come fa invece “colui che ha esperienza e meglio giudizio ne l’arte militare”; o a quello della “tebana Manto, che vedeva ma non intendeva”, diversamente da “Tiresia cieco, ma divino interprete”.
La lezione copernicana necessita dunque di una filosofia nova che sappia farla propria attraverso una rinnovata indagine delle ragioni naturali, di un “divino interprete” che sia in grado di andar oltre le parole e penetrare nei sentimenti dell’Universo. Ed è in tale veste che il Nolano si presenta in uno dei passi più celebri della Cena, annunciando quei “frutti” che nei dialoghi successivi Teofilo sarà chiamato a discutere con Prudenzio, Frullo e Smitho difendendoli dalle obiezioni dei dotti di Oxford:

Dimostra quanto siino simili o dissimili, maggiori o peggiori, què corpi che veggiamo lontano, a quello che né appresso et a cui siamo uniti; et n’apre gli occhii ad veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo al qual di nuovo sempre ne raccoglie; e non pensar oltre, lei essere un corpo senza alma e vita, et anche feccia tra le sustanze corporali. A questo modo sappiamo che si noi fossimo nella luna o in latre stelle, non sarrei in loco molto dissimile a questo, e forse in peggiore: come possono essere altri corpi cossì buoni, et anco migliori per se stessi e per la maggior felicità de propri animali. Cossì comoscemo tante stelle, tanti astri, tanti numi, che sono quelle tante centinaia de migliaia ch’assistono al ministerio e, contemplazione dle primo, universale, infinito et eterno efficiente. Non è più imprigionata la nostra raggione co i ceppi de fantastici mobili e motori otto, nove e dice. Consocemo che non èch’un cielo, un’eterea raggione immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità de la partecipazione de la perpetua vita. Questi fiammeggianti corpi sono què ambasciatori, che annunziano l’eccellenza de la gloria e amestà di Dio. Così siamo promossi a scoprire l’infinito effetto dell’infinita causa. Il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore. Et abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi; se l’abbiamo appresso, anzi di dentro più che noi medesimi siamo dentro a noi. 

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